Introduzione alla storia bizantina di Giorgio Ravegnani

Cap. 1 La storia di Bisanzio

La nozione di storia bizantina

La storia bizantina riguarda gli avvenimenti della parte orientale dell’Impero romano che sopravvisse per un millennio alla caduta dell’Occidente e di cui fu capitale la città di Bisanzio.
Bisanzio è la denominazione originaria dell’attuale Istanbul, chiamata nel Quarto Secolo Costantinopoli (“la città di Costantino”) in onore dell’imperatore Costantino Primo.
Bisanzio e Costantinopoli sono i toponimi greci della città, usati indifferentemente dalle fonti medievali, mentre Istanbul è il nome turco, derivante dalla deformazione delle parole greche is tin polin che significano “nella città”.
I sudditi di questo impero sono comunemente definiti bizantini, ma nella storiografia più recentesi incontrano anche le definizioni di romani o di romei: al prima si usa in genere per il periodo più antico di storia bizantina (dal Quarto al Settimo Secolo); la seconda deriva dalla fonetica della parola greca rhomaioi (secondo la pronuncia della lingua attuale).
L’uso di bizantini in riferimento agli abitanti dell’Impero d’Oriente è di origine moderna e non trova riscontro nelle fonti se non per indicare i cittadini della capitale.
I bizantini, infatti, si ritenevano romani e così si definirono nel corso di tutta la loro storia, adattando lo stesso termine al mondo in cui vivevano: la Rhomania, “la terra dei romani”, in contrapposizione a quella dei barbari che non ne facevano parte.
Il termine compare nel Quarto Secolo e pare essere di origine popolare: a partire dal successivo entra nell’uso corrente e fino al Quindicesimo Secolo ai parla di Rhomania con riferimento all’Impero di Costantinopoli.
Era utilizzato non solo dai bizantini, ma anche dagli stranieri che così indicavano i territori governati dall’Impero: si pensi ad esempio alla Romagna e alla Lombardia in Italia, che derivano i loro nomi dall’antico dominio dei romani intorno a Ravenna e da quello contrapposto dei longobardi, al toponimo Romania con il quale i crociati chiamarono l’Impero, al termine ar-Rum usato dagli arabi e dagli altri popoli musulmani per indicare i sudditi di Bisanzio, o ancora al sultanato di Rum che i turchi costituirono in Asia Minore occupando i territori già appartenenti all’Impero.
La definizione di greci o di elleni era ritenuta dispregiativa a Bisanzio: ellenismo veniva considerato sinonimo di paganesimo e, di conseguenza, elleno corrispondeva a idolatra, implicando un legame con i culti pagani che erano stati messi al bando nella Costantinopoli cristiana.
Questi due termini furono rivalutati nel Tredicesimo Secolo, a opera degli umanisti greci che volevano così richiamarsi al passato classico, ma si trattò di un’operazione puramente culturale, senza alcun legame con la realtà e l’uso corrente: i sudditi dell’Impero continuarono a definirsi “romani” e anche dopo la caduta di Bisanzio il patriarca di Costantinopoli fu il patriarca dei romani.
“Greci” è un epiteto spesso usato nel Medioevo con intenti diffamatori all’indirizzo dei bizantini.
La definizione ricorre nei frequenti conflitti protocollari con l’Occidente, quando i sovrani germanici rivendicavano la qualifica di imperatori romani chiamando in segno di spregio i colleghi orientali semplicemente “imperatori dei greci” o anche “re dei greci”.
A Bisanzio la cosa era però considerata un affronto, perché il sovrano di Costantinopoli si riteneva l’unico depositario del titolo imperiale e rifiutava di riconoscere gli emuli dell’Occidente.
L’idea di romanità fu infatti alla base del sistema politico dei bizantini.
Per tutto il millennio l’Impero venne considerato la continuazione di Roma con diritto alla sovranità su tutti i territori a questa appartenuti; l’eventuale dominazione straniera all’interno dei confini del mondo romano era ritenuta illegale e frutto di un’usurpazione.
A questa concezione, propriamente politica, si aggiunse fin dalla prima epoca un aspetto religioso, che la completava formando un tutto omogeneo: l’Impero era un disegno di Dio, che aveva eletto il popolo cristiano come depositario della sua volontà.
Ne conseguiva che era eterno, in quanto voluto da Dio, e universale, in quanto romano.
Non poteva esistere inoltre un altro imperatore dopo quello di Costantinopoli, che da Dio riceveva il potere perpetuando l’autorità delegata a Costantino Primo, il primo monarca cristiano.
Questa idea sopravvisse tenacemente nel mondo bizantino, anche quando la realtà dei fatti la rese improponibile, e fu sempre l’ispiratrice di uan diffusa pretesa alla diversità.
Pag. 7-8

Cap. 2. Da Roma a Bisanzio, 324-610

Il Senato di Costantinopoli costituiva a quest’epoca la più alta aristocrazia dell’Impero d’Oriente e, assieme al Concistoro, formava il Consiglio di Stato del sovrano.
Svolgeva inoltre alcune funzioni specifiche, coem la facoltà di proporre disegni di legge o l’esercizio di compiti giudiziari.
L’importanza maggiore dell’assemblea si aveva però sul piano istituzionale in caso di vacanza del trono.
Se l’imperatore in carica provvedeva a nominare un successore, al Senato non spettava altro compito che ratificare formalmente l’avvenuta elezione; ma se il sovrano moriva senza designare un erede, aveva il diritto di sceglierlo e tale diritto venne effettivamente esercitato fino al Settimo Secolo, quando l’assemblea perse ogni importanza politica, anche se spesso fu più un’apparenza che una realtà per l’azione di gruppi di potere capaci di condizionare la designazione.
Il Concistori (Sacrum Consistorium) era il consiglio più ristretto composto da alcuni membri permanenti (comites consistoriani) scelti nelle file dell’alta burocrazia; alcuni lo erano di diritto, altri venivano nominati dall’imperatore.
Tra i primi si trovavano i più alti ufficiali civili e militari come il quaestor sacri Palatii, responsabile delle questioni legali, il magister officiorum addetto a vari servizi di corte, il comes sacrarum largitionum e il comes rei privatae, direttori di dipartimenti finanziari, e il prefetto del pretorio dell’Oriente.
I membri militari dovevano poi comprendere i comandanti della guardia imperiale (il comes domesticorum e dal Quinto Secolo il comes excubitorum) nonché i due magistri militum praesentales da cui dipendevano gli eserciti mobili di stanza nella capitale.
Il prefetto cittadino (praefectus Urbi o in greco eparco) rappresentava infine il Senato, di cui era il capo ed era nello stesso tempo un funzionario dello Stato.
L’eparco avrebbe assunto un’importanza crescente fino al Decimo Secolo: presiedeva alla vita giudiziaria di Costantinopoli, garantiva l’ordine pubblico, provvedeva al rifornimento della città e ne controllava la vita economica.
L’aristocrazia bizantina ebbe fin dall’inizio il carattere prevalente di nobiltà dei funzionari, mantenutosi poi per tutto il millennio, in conseguenza della forte impronta burocratica data al mondo romano.
A Bisanzio non si ebbe mai uan nobiltà ereditaria sul genere occidentale: i titolari di funzioni pubbliche elevate entravano automaticamente a far parte di uan classe aristocratica, la cui importanza variava in funzione del peso dell’ufficio ricoperto, ma l’appartenenza a tale classe e il relativo titolo non erano ereditari, estinguendosi con la morte del titolare.
I funzionari civili e militari ottenevano titoli di nobiltà fissi in rapporto al posto occupato nella gerarchia, sia che si trattasse di funzionari in servizio attivo o a disposizione, sia che fossero incarichi puramente onorifici.
A partire da un certo grado, infatti, ogni funzione era compresa in una classe di nobiltà e queste classi nel Quinto Secolo si stabilizzarono in ordine ascendente in clarissimi, spectabiles e illustres.
Facevano parte dell’ultima i più alti dignitari dello Stato, cui era conferito di regola il titolo di comes, aggiunto come distinzione alle designazioni delle maggiori cariche.
Più in alto ancora si trovavano la dignità di patricius, non legata all’esercizio di alcuna magistratura, e nobilissimo, di curopalate e di cesare riservate ai componenti della famiglia imperiale.
A metà strada fra una semplice dignità e una carica effettiva infine si collocava il consolato, sopravvivenza dell’antica magistratura romana, che continuò a essere conferito ai privati cittadini fino al Sesto Secolo sia in Oriente sia in Occidente.
I consoli si distinguevano in ordinari e onorari, di cui soltanto i primi entravano effettivamente in carica mentre gli altri la rivestivano unicamente in modo fittizio; a questi si aggiungevano poi i consoli imperiali allorché i sovrani assumevano a loro volta l’ufficio in una o nell’altra parte dell’Impero e, in questo modo, potevano diventare eventuali colleghi di privati cittadini.
Il console assumeva la carica il Primo Gennaio per deporla il 31 dicembre e conservava l’antico privilegio di dare il proprio nome all’anno; gli spettava però il compito oneroso di organizzare diversi spettacoli per il popolo della capitale.
I bizantini attribuirono sempre una grande importanza al rango: fin dal tardo antico elaborarono un complesso sistema di precedenze, che regolava nei minimi dettagli l’etichetta di corte.
Nella loro concezione mistico-politica, infatti, la corte di Costantinopoli era il luogo in cui si manifestava visivamente una sorta di religione imperiale legata alla straordinarietà che si riteneva connessa alla figura del sovrano voluto da Dio.
Le cerimonie palatine, considerate la più tangibile espressione di questo culto, dovevano perciò svolgersi con ordine e regolarità a imitazione della perfezione dell’universo, di cui la monarchia terrestre riteneva di essere espressione.
Pag. 19-20

I monaci a quest’epoca rappresentavano l’ala più radicale del cristianesimo, ma godevano di grande seguito nella comunità dei fedeli e di una diffusa considerazione per la loro scelta di vita, ritenuta l’applicazione più perfetta del precetto evangelico.
Nato come movimento spontaneo nel Terzo Secolo, il monachesimo si era distinto fin dall’inizio in una corrente ascetica e un’altra conventuale.
La prima, inaugurata da sant’Antonio, ritiratosi in meditazione nel deserto egiziano verso il 70, trovò nel mondo bizantino un seguito costante e diede anche origine a forme estreme coem lo stilismo, ovvero la pratica di condurre vita contemplativa in cima a una colonna.
Fondatore della pratica conventuale (o, ala greca, cenobitica) fu Pacomio, un ex soldato che fondò uan comunità nell’alto Egitto; il ruolo di teorico dell’ideale di vita fu però ricoperto nel Quarto Secolo da San Basilio, che lo espose dettagliatamente in due opere.
Il monachesimo orientale, comunemente definito “basiliano”, anche se gli ordini monastici a Bisanzio non sono mai esistiti, incontrò all’inizio una diffusa avversione da parte della chiesa ufficiale, ma divenne uan componente determinante della società bizantina e tale si mantenne nel corso dei secoli.
Attraverso lasciti e donazioni, le singole fondazioni acquisirono ampie proprietà terriere e i monaci costituirono un fenomeno sociale non sempre controllabile ponendosi spesso in una posizione antagonista all’autorità costituita, anche in virtù del forte prestigio di cui godevano.
I monasteri furono inoltre depositari di una propria cultura, che trovò espressione soprattutto nella conservazione libraria, nell’istruzione elementare, nella particolare produzione letteraria espressa nelle cronache e dall’ampia letteratura agiografica destinata per lo più a celebrare i fondatori delle singole comunità.
Pag. 31-32

Giustiniano Primo (527-565) rinnovò profondamente il vecchio Impero portandolo a una considerevole potenza dopo la crisi del Quinto Secolo.
Dotato di un’energia instancabile, volle trasformare e, contemporaneamente, rafforzare lo Stato con una serie di riforme che datano per lo più ai primi anni di regno e riguardarono i temi più svariati del diritto privato e pubblico.
Si impegnò inoltre in un ambizioso programma di riconquista dei territori appartenuti all’Occidente, recuperandone circa un terzo con lunghi anni di guerre e portando così Bisanzio a un’estensione in seguito mai più raggiunta.
Fu spinto a tale determinazione dalla necessità di ricostruire l’unità del bacino mediterraneo, in parte sfuggito al controllo imperiale, ma anche da forti convinzioni ideologiche: si sentiva profondamente romano e considerava un suo diritto far rientrare le regioni perdute sotto il dominio imperiale in quanto, secondo le concezioni mistico-politiche legate alla sovranità bizantina, era convinto che tale compito gli fosse stato affidato da Dio, dal quale aveva ricevuto il potere.
L’età di Giustiniano può essere considerato il periodo più splendido della prima fase della storia bizantina, anche perché caratterizzato da una notevole fioritura delle arti e della cultura.
Fu però nello stesso tempo un’epoca di grandi contraddizioni: le vittore militari ebbero costi enormi, le riforme amministrative andarono spesso incontro a clamorosi fallimenti e, per lo più, si susseguirono devastanti calamità naturali, fra cui in primo luogo l’epidemia di peste che a partire dal 542 imperversò nell’Impero.
Pag. 38-39

I provvedimenti imperiali riuscirono soltanto in minima parte ad arrestare i processi di decadenza innescato dal lungo conflitto e la società italica cambiò profondamente a seguito delle devastazioni subite.
La guerra gotica portò infatti ad un grosso regresso demografico, dovuto sia alle vicende belliche sia all’infuriare di carestie ed epidemie, e a distruzioni più o meno ampie in numerose città, tra cui Milano, rasa al suolo dai goti e burgundi nel 539, con l’uccisione o la deportazione degli abitanti, o anche Roma, le cui mura furono in parte abbattute da Totila nel 546 e che, per alcune settimane, si trovò ad essere completamente spopolata.
Particolarmente significativa in termini di cambiamenti epocali fu poi la forte riduzione dell’aristocrazia senatoria, simbolo in un certo senso della continuità del mondo antico, che fu in buona parte sterminata dai goti in quanto naturale alleata di Bisanzio o costretta a fuggire dall’Italia senza riuscire in seguito a ricostruire le proprie fortune.
Tutti questi avvenimenti contribuirono a determinare una cesura con la qualità della vita che si era mantenuta abbastanza elevata fino all’inizio della guerra e a dare inizio a una lunga fase di generale declino, in seguito accentuato dall’invasione longobarda.
Pag. 40

I longobardi erano un popolo già noto nell’antichità, entrato nell’orbita del mondo romano a partire dal primo secolo dell’era cristiana come abitanti della Germania settentrionale.
Nel 489 si stanziarono a nord del Danubio e alcuni anni più tardi si spostarono a oriente insediandosi nell’antica Pannonia  romana, cioè nei territori dell’attuale Ungheria.
Erano una gente guerriera, che si distingueva per la natura selvaggia dalle altre stirpi barbariche, tanto che già i romani li avevano definiti “più feroci della ferocia germanica”.
Durante la guerra gotica 2500 guerrieri longobardi, con il loro seguito, avevano militato in Italia agli ordini di Narsete, ma erano stati rimandati in patria a causa degli eccessi ai quali si abbandonavano nei confronti dei civili.
L’invasione longobarda seguì di poco tempo il richiamo a Costantinopoli di Narsete, che nel 568 per ordine di Giustino Secondo fu sostituito nel governo italiano dal prefetto Longino.
Non è del tutto chiaro quale motivazione sia alla base dello spostamento dei longobardi, ma verosimilmente è da connettere alla pericolosa vicinanza creatasi nella loro sede in Pannonia con il popolo bellicoso degli avari, dopo l’eliminazione nel 567 del regno dei gepidi attuata dagli stessi longobardi, e dal rischio rappresentato dall’atteggiamento di Giustino Secondo che aveva favorito i gepidi in opposizione ai longobardi.
Gli storici medievali, a partire dal Settimo Secolo, hanno proposto come spiegazione la cosiddetta leggenda di Narsete, secondo la quale l’eunuco si sarebbe vendicato della deposizione e delle minacce del partito di corte a lui avverso chiamandoli a invadere la penisola italiana, una versione che però è più tarda rispetto agli avvenimenti e non trova credito nella moderna storiografia.
L’intero popolo longobardo, rafforzato da altri contingenti barbarici, entrò in Italia dai valichi della Alpi Giulie nel maggio del 568, addentrandosi nella pianura veneta senza incontrare forte reazione da parte bizantina.
L’inerzia dei bizantini, che rinunciarono ad affrontare sul campo gli invasori limitandosi a difendere alcuni punti fortificati, doveva essere motivata da una serie di cause concomitanti, fra cui le principali si ritiene siano state lo spopolamento dovuto a una pestilenza diffusa in alta Italia poco prima dell’invasione, l’impegno delle truppe mobili di Bisanzio su altri teatri di guerra o l’assenza di un comando militare centralizzato dopo la rimozione di Narsete che potrebbe aver paralizzato la risposta degli imperiali.
In aggiunta a queste si è poi pensato anche a un possibile accordo iniziale con le autorità bizantine per utilizzare i longobardi contro i franchi, accorso poi reso nullo dall’aggressività longobarda, o ancora dalla tradizionale strategia difensiva dell’impero per cui, data la scarsità di soldati normalmente disponibili, si preferiva evitare lo scontro campale con gli invasoti, attendendo che si ritirassero spontaneamente o che si potesse risolvere il conflitto per via diplomatica.
Pag. 51-52

 

L’istituzione del nuovo magistrato, l’esarca d’Italia (o di Ravenna) ebbe luogo probabilmente nel 584: alla sua figura furono attribuiti poteri eccezionali, che esercitava attraverso magistri militum, duces e tribuni, posti rispettivamente alla guida di reparti operativi, di governatorati militari e di città.
L’autorità dell’esarca ravennate si estendeva su quanto a Bisanzio restava dell’Italia, cioè più o meno un terzo della penisola, con l’esclusione di Sicilia e Sardegna rimaste sotto altre giurisdizioni.
Gli esarchi venivano scelti direttamente dai sovrani fra i più alti dignitari palatini e al titolo di funzione univano la dignità di patrizio, che li collocava ai vertici della gerarchia nobiliare.
Spesso furono eunuchi e non a caso perché, secondo la mentalità del tempo, dagli eunuchi non ci si poteva aspettare un tentativo di usurpazione, resa assai probabile dalle suggestioni evocate dall’antica Roma.
Si riteneva infatti a Bisanzio che un uomo mutilato non potesse esercitare la suprema carica pubblica e, per questo motivo, la scelta di un eunuco limitava notevolmente i pericoli per il potere centrale.
Le nostre informazioni sui governatori dell’Italia imperiale sono assai scarse: allo stato attuale della ricerca non è possibile stabilirne una lista sicura né fissarne con esattezza la cronologia.
Non abbiamo neppure la certezza del numero: potrebbero essere stati ventiquattro, compresi coloro che reiterarono l’ufficio, distribuiti cronologicamente tra il 585 e il 751.
Pag. 53

La conquista slava diede origine a un fenomeno storico del tutto particolare, che presenta due aspetti caratteristici: l’insediamento stabile di popolazioni nemiche in territorio imperiale, come avveniva nello stesso tempo in Italia con i longobardi, e la slavizzazione della penisola balcanica, dove le popolazioni autoctone scomparvero o si ritirarono fra le montagne più inaccessibili, nelle coste e nelle isole.
Molti territori vennero sottratti al dominio imperiale, formando zone di dominazione slava (le cosiddette “slavinie”) che Bisanzio avrebbe faticosamente recuperato con un’azione secolare di riconquista.
La situazione creatasi a seguito di queste invasioni non è del tutto chiara, data la scarsità di testimonianze, e può essere ricostruita soltanto nelle linee generali.
Le regioni settentrionali e centrali dei Balcani furono occupate pressoché integralmente dagli slavi, mentre restarono sotto l’autorità bizantina le città costiere dell’Adriatico e del mar Nero nonché Tessalonica e la stessa Costantinopoli, sebbene la prima fosse interamente circondata da territori slavi e la seconda esercitasse soltanto un dominio precario sulle zone circostanti della Tracia fino almeno alla fine del Settimo Secolo.
Nelle parti meridionali della penisola balcanica, la Tessaglia, l’Epiro e le regioni occidentali del Peloponneso furono profondamente slavizzate e l’Impero continuò a controllare soltanto le città che potevano essere raggiunte via mare.
Pag. 57-58

Cap. 3. Da Eraclio agli iconoclasti, 610-717

L’autorità imperiale in Italia, verso la fine del Settimo Secolo, si era notevolmente indebolita, come mostra con chiarezza l’episodio del protospatario Zaccaria, la debolezza del potere di Costantinopoli aveva portato a maturazione i fattori di crisi interna determinanti per la successiva caduta dell’esarcato sotto la pressione longobarda.
Questi fattori di crisi sono riconducibili a tre cause: in primo luogo lo sviluppo di un’aristocrazia di grandi proprietari terrieri, che tendeva a rendersi autonoma da Bisanzio, poi la rivoluzione intervenuta nella società cittadina, in cui emersero come componenti di primo piano le milizie reclutate localmente, più legate ai loro capi che al governo centrale e, di conseguenza, alle vicende puramente locali.
Come terzo elemento, infine, si deve tenere presente l’influsso sempre più forte esercitato sulle popolazioni dalla chiesa romana tendenzialmente ostile a Costantinopoli.
Ciò malgrado, finché fu possibile, i papi cercarono di evitare la rottura definitiva con l’Impero, pressati come erano dal timore dell’espansionismo longobardo contro il quale rappresentava una garanzia; a parte gli occasionali contrasti, perciò, non vollero rinunciare a una sostanziale alleanza, un atteggiamento venuto meno soltanto nell’Ottavo Secolo, subito dopo la caduta dell’esarcato, quando al legame tradizionale in funzione anti longobarda si sostituì la ricerca di appoggio da parte dei franchi.
Pag. 75

Cap. 4. L’iconoclastia, 717-843

L’iconoclastia, come fenomeno storico, presenta ancora molti lati oscuri, a motivo della perdita pressoché totale della letteratura a essa favorevole, le cui opere vennero distrutte dagli avversari.
Per ricostruirne la genesi dobbiamo ricorrere a scrittori di parte contraria e legati in genere agli ambienti monastici, quindi ai più tenaci nemici degli iconoclasti.
Essi spiegano il fenomeno in termini riduttivi e dissacranti, mettendolo il relazione all’influsso di ebrei e arabi, cioè dei peggiori nemici della fede cristiana; alle origini dell’iconoclastia la storiografia monastica connette infatti una leggenda che ha per protagonista un ebreo.
Secondo il monaco e cronista Teofane, autore di un’opera storica che giunge fino all’813, un mago ebreo si sarebbe presentato al califfo Yazid, promettendogli un regno di quarant’anni se avesse fatto rimuovere le immagini venerate nelle chiese dei cristiani.
Yazid gli avrebbe dato ascolto emanando un editto iconoclasta, ma sarebbe morto di lì a poco, senza che molti fossero venuti a conoscenza dell’editto.
Leone Terzo, informato di quanto era avvenuto nel califfato, avrebbe a sua volta introdotto l’iconoclastia a Bisanzio con la complicità dei suoi più stretti collaboratori.
Come ogni leggenda, anche quella dell’ebreo dovrebbe presentare un fondo di verità, ma è difficile dire di cosa esattamente si tratta.
Leone Terzo, pur avendo costretto gli ebrei al battesimo, potrebbe essere stato influenzato dal divieto delle immagini della religione mosaica; allo stesso modo, benché nemico degli arabi, non è da escludere che abbia subito il loro influsso culturale.
L’iconoclastia araba, d’altronde, è un fatto storicamente accertato, risalente agli anni fra il 723 e 724, ma in parte diversa perché comportò la distruzione di tutte le rappresentazioni di esseri viventi.
E’ tuttavia probabile che a questi modelli culturali si affianchino anche altre motivazioni, di ordine religioso e politico.
I moderni hanno dato in proposito diverse spiegazioni, oscillando sostanzialmente fra due interpretazioni opposte.
L’iconoclastia sarebbe stata cioè un fatto puramente religioso, volto a purificare la chiesa da un culto con aspetti idolatrici o, al contrario, di prevalente natura politica, adombrando sotto le apparenze altre motivazioni di ordine pratico; per esempio il tentativo di accattivarsi le simpatie delle popolazioni orientali dell’Impero da parte di sovrani essenzialmente militari come furono gli Isaurici.
Nell’Oriente bizantino si reclutavano i migliori soldati e un esercito forte e disciplinato era indispensabile per sostenere l’urto dei nemici esterni.
La fedeltà dell’Oriente era però condizionata dall’accettazione di teorie religiose non ortodosse, a motivo della grande diffusione in queste regioni di sette nemiche di ogni culto delle immagini e, in particolare, del monofisismo che godeva di un seguito considerevole in Asia Minore.
Gli iconoclasti rimproveravano il carattere di idolatria al culto delle immagini di Cristo, della Vergine e dei santi; i loro avversari, gli iconoduli (cioè i “veneratori delle immagini”), lo ritenevano lecito sostenendo che non si venerava l’oggetto in sé, ma ciò che esso rappresentava.
Il paragone più immediato, a tale proposito, veniva fatto con le immagini imperiali, alle quali si rendeva omaggio come simboli dell’autorità sovrana.
La disputa pro o contro le icone non era un fatto trascurabile a Bisanzio, dato che esse erano un aspetto caratteristico della religiosità orientale, venendo usate come ornamenti delle chiese, associate alla liturgia, e come oggetti privati di devozione.
Alcune “non fatte da mano umana” erano considerate miracolose e, in quanto tali, andavano soggette a una venerazione particolare: rientravano fra queste l’immagine della Vergine Hodigitria, conservata a Costantinopoli, che si ritenevano eseguita da San Luca, i ritratti del Cristo portati a Bisanzio dalla Cappadocia al tempo di Giustiniano o il mandylion di Edessa, una tela sulla quale si sarebbe miracolosamente impressa l’immagine di Cristo.
Le icone, eseguite dagli artisti secondo modelli fissi, erano oggetto di forme esteriori di ossequio, come la prosternazione, ma anche di pratiche che ricordavano il paganesimo.
Si prestava giuramento sulle immagini, si bruciava incenso di fronte ad esse, ci si serviva di alcune icone come padrini per i propri figli o, anche, se ne faceva cadere la polvere nel calice usato per comunicare i fedeli.
Pag. 79-80

Nicéforo, patriarca di Costantinopoli dall’806 all’815, fu anche uomo di cultura.
Nato verso il 758 da una nobile famiglia della capitale, divenne segretario della cancelleria imperiale e, in seguito, si fece monaco.
Dopo la deposizione si ritirò nel monastero di San Teodoro a Scutari e vi morì nell’829.
La sua produzione letteraria consta di opere teologiche, di polemica anticonoclasta, e storiche.
Della prima fanno parte tra le altre i tre libri di Antirretici scritti contro Costantino Quinto (Costantino “Copronimo”, come era stato definito dai detrattori per aver sporcato la fonte al momento del battesimo), che consentono anche di ricostruire storicamente l’azione di questo sovrano, sia pure nell’ottica deformata della polemica.
Al versante storico appartengono la Sintesi cronografica, un breve panorama storico da Adamo all’’829, e il più importante Breviario o Storia abbreviata con il racconto degli avvenimenti dal 602 al 769, un’opera di notevole importanza per la ricostruzione della storia di Bisanzio nella generale carenza di fonti dei secoli Settimo e Ottavo.
Pag. 88

Cap. 5 L’apogeo dell’Impero, 843-1025

Il periodo che va dall’843 al 1025, per lo più segnato dalla presenza sul trono della dinastia macedone, può essere considerato l’età di maggiore fioritura dell’Impero.
La fine delle grandi lotte religiose coincise con una forte ripresa  della potenza bizantina, destinata a manifestarsi soprattutto nel Decimo Secolo, grazie appunto all’assenza di contrasti interni e delle conseguenti lotte fra schieramenti contrapposti.
A questo elemento positivo si aggiunsero la solidità economica e politica, soltanto in parte minata dallo sviluppo del ceto dei grandi proprietari terrieri, l’affermazione di una rinnovata potenza militare contrassegnata in particolare dalle guerre fortunate con gli arabi in Oriente e dalla sottomissione nella rinascita dell’istruzione superiore e nella produzione letteraria del Nono-Decimo Secolo.
Pag. 91

L’Impero musulmano al momento della controffensiva bizantina aveva già da tempo perduto la coesione iniziale e, malgrado alcuni isolati successi espansionistici, si avviava a un processo di decadenza, che sarebbe stato più evidente nel secolo seguente.
Alla morte di Maometto, nel 632, il potere supremo era passato ai califfi, che avevano condotto a termine la fase eroica dell’espansione, culminata nel 711 nella penetrazione in Spagna, con la conseguente sottomissione del regno visigoto, e nell’assedio di Costantinopoli nel 717.
Il fallimento dell’assedio e la battaglia di Poitiers nel 732 avevano tuttavia segnato uan consistente battuta di arresto, seguita nel 750 dalla fine del califfato omayyade (istituito a Damasco nel 661) a opera della famiglia degli Abbasidi, che condusse a una prima divisione fra il califfato abbaside, insediatosi a Baghdad, e un emirato rivale degli omayyadi in Spagna costituito nel 756.
Nel Nono Secolo l’azione delle forze centrifughe si fece più pressante e l’Impero islamico si frantumò in una serie di governi regionali retti da emiri, il cui vincolo di subordinazione a Baghdad finì talvolta per divenire puramente formale.
Alcuni di questi emirati, come gli Aglabiti di Tunisia, nel Nono Secolo realizzarono ancora conquiste autonome (come l’invasione della Sicilia bizantina a opera dell’Emirato indipendente di Qairavan), ma nella prima metà del successivo il processo di frantumazione di quello che era stato l’Impero islamico si accentuò con la creazione di altri due califfati antagonisti a Baghdad: in Egitto sotto la stirpe dei Fatimidi nel 910 e in Spagna a opera dell’Emirato omayyade di Cordova nel 929.
La perdita dell’unità arrestò di conseguenza l’originaria spinta espansionistica dell’Islam e, anche se alcuni governi locali continuarono a essere potenze rilevanti, finì per facilitare la controffensiva di Bisanzio.
Pag. 92

Fozio (810 ca.), nipote del patriarca Tarasio, prima dell’elezione alla carica ecclesiastica aveva ricoperto l’ufficio di protoasecrétis, l’alto funzionario che dirigeva la cancelleria imperiale.
La sua promozione al trono imperiale fu voluta da Barda, avversario del patriarca Ignazio (figlio dell’ex imperatore Michele Primo), un monaco intransigente vicino alle posizioni degli zeloti e ostile alla politica di Barda con il quale era entrato in aperto conflitto.
La fama letteraria di Fozio è legata soprattutto alla cosiddetta Biblioteca, costituita da una lunga serie di capitoli che contengono notizie ed estratti di opere lette dall’autore.
Si tratta di 279 “codici” (come sono comunemente definiti) che riguardano opere religiose e profane dall’epoca classica a quella bizantina, utili in molti casi per ricostruire il contenuto di scritti andati perduti.
Pag. 93

In prime nozze, costretto dal padre, Leone Sesto aveva sposato all’età di sedici anni la pia Teofano, appartenente a una famiglia dell’aristocrazia della capitale, ma il matrimonio fallì per una profonda incomprensione reciproca e Teofano finì per ritirarsi nel monastero di Blacherne, dove morì nell’897.
Leone Sesto richiamò a Costantinopoli l’amante Zoe Zautzina, figlia del suo principale consigliere politico Stiliano Zautze, che Basilio Primo aveva allontanato dalla città e nell’898 la sposò subito dopo la morte del marito di questa.
Zoe, da cui ebbe una figlia, morì nell’899 e poco più tardi Leone Sesto si sposò nuovamente con Eudocia Bainé, morta di parto nel 901 assieme all’erede che le sopravvisse soltanto per qualche giorno.
Per il terzo matrimonio, contrario alla tradizione della chiesa greca, l’imperatore aveva ottenuto la complicità dell’allora patriarca di Costantinopoli, Antonio Cauleas, ma in seguito il suo progetto di convolare a quarte nozze con l’amante Zoe Carbonopsina fu violentemente ostacolato dal  nuovo patriarca Nicola Mistico.
Da lei nel 905 aveva avuto un figlio maschio (il futuro imperatore Costantino Settimo) e, sebbene avesse accettato inizialmente il compromesso proposto dal patriarca, offertosi di battezzarlo a condizione che il sovrano allontanasse l’amante, in seguito si era risolto a far celebrare le nozze da un prete di palazzo per legittimare l’erede al trono.
Nonostante fosse dettata dalla ragion di Stato, al pretesa di sposarsi per una quarta volta poneva il sovrano in una situazione fortemente anomala e, nello stesso tempo, contravveniva a un principio di buon governo comunemente accettato a Bisanzio, secondo cui l’imperatore era tenuto a rispettare le leggi al pari dei sudditi, tanto più che lo stesso Leone Sesto, con una sua Novella, aveva vietato il terzo matrimonio disapprovando anche il secondo.
Pag. 98

Il nuovo sovrano (così chiamato da Lakape in Armenia di cui era originari0), nato verso l’870, proveniva da una famiglia contadina e aveva fatto carriera nell’esercito divenendo stratego di Samo, per assumere quindi come drungarios il comando della marina imperiale.
Il 25 marzo del 919 sbarcò a Costantinopoli, sventando il piano di Zoe per sposare lo stratego Leone Foca e portarlo così sul trono, e prese possesso del palazzo imperiale dopo essersi impegnato a difendere i diritti del sovrano legittimo.
A seguito delle nozze tra la figlia e Costantino Settimo, fu elevato al rango di basileopator (“padre dell’imperatore”) e, poco più tardi, divenne cesare e quindi imperatore associato.
Pag. 102

A Edessa (oggi Urfa, nella Turchia meridionale), durante l’assedio persiano del 544, fu trovato nelle mura cittadine un pezzo di tessuto (in greco medievale un mandylion) su cui figurava un’immagine che fu ritenuta del Cristo e miracolosa.
L’immagine di Edessa rappresenta la più importante fra le varie figurazioni del Cristo che iniziarono ad apparire nel Sesto Secolo e vennero ritenute acheiropoiete cioè “non fatte da mano umana”.
Secondo la leggenda più accreditata questa immagine si era formata allorché Gesù aveva appoggiato al volto una tela e, in seguito, era stata portata da Abgar, re di Edessa, il cui inviato si era recato presso il Cristo su incarico del re.
L’immagine restò a Edessa, sotto la dominazione araba e sfuggì di conseguenza alla persecuzione degli iconoclasti.
Durante l’assedio della città i generali di Romano Primo promisero di risparmiarla a condizione che fosse consegnata l’icona, che presa la via di Costantinopoli dove fu collocata in una cappella del palazzo imperiale.
Scomparve però nel 1204, quando i crociati si impossessarono di Bisanzio, probabilmente per prendere la via dell’Occidente.
Secondo una teoria abbastanza accreditata, il mandylion di Edessa potrebbe essere identificato con la Sindone, che compare in Occidente nel secolo successivo alla presa di Bisanzio da parte dei crociati.
Pag. 103

La letteratura cerimonialistica del tempo trova  espressione anche in opere minori, relative al sistema delle precedenze palatine, la più importante delle quali è il Kletorologhion di Filoteo, composta nell’899 e successivamente inserita nel Libro delle cerimonie.
L’autore era un atriklines (una delle numerose parole della burocrazia derivate dal latino, in questo caso da a triclinio), addetto all’organizzazione dei banchetti di corte, che erano uno dei principali momenti del cerimoniale palatino.
I banchetti si svolgevano a cadenze fisse o variabili, in occasione delle principali festività, e venivano regolati da una minuziosa etichetta basata essenzialmente sull’ordine delle precedenze con cui si doveva prendere posto vicino al sovrano.
Il Kletorologhion, oltre che sul tema specifico, nella sua parte più teorica fornisce precise indicazioni sulla gerarchia del tempo, tali da consentirne una dettagliata ricostruzione.
L’apparato burocratico si era profondamente modificato dall’epoca tardo antica seguendo un naturale processo di svalutazione e di aggiornamento dei titoli che fu caratteristico di tutta l’epoca bizantina.
I cortigiani si dividevano ora in due categorie distinte: i semplici dignitari di corte senza compiti amministrativi, i cui gradi di nobiltà vitalizi e teoricamente irrevocabili implicavano come unico compito la partecipazione onorifica alle cerimonie palatine, e quelli incaricati di assolvere una funzione, sia militare sia civile, a tempo determinato.
I primi ricevevano “dignità per insegne”, cioè contraddistinte da un brevetto o insegna della carica, mentre i secondi ottenevano dignità a “voce” o “per editto”, cioè conferite con una semplice nomina verbale, che investivano delle funzioni effettive di comando nei vari servizi dello Stato.
Come in età più antica, inoltre, a un titolo di funzione si accompagnava una dignità palatina fissa, che collocava il detentore in una classe nobiliare attribuendogli i relativi privilegi, primo fra tutti l’inserimento in una complicata gerarchia delle precedenze che ne definiva lo status sociale.
Caratteristica peculiare dell’epoca è invece l’esistenza di due distinte gerarchie, sia per le dignità per insegna sia per le altre, di cui una veniva riservata ai “barbuti”, l’altra agli eunuchi, la cui importanza a corte, già notevole fin dai primi tempi, era notevolmente cresciuta nel corso dei secoli fino a costituire uan classe particolare di dignitari e funzionari.
I titoli per barbuti erano diciotto, in parte derivati da innovazioni e in altra parte provenienti dalla tarda antichità, sia tali quali erano sia come trasformazioni di cariche scomparse di cui era sopravvissuto il nome.
Al gradino più alto si trovavano in ordine decrescente di cesare, nobilissimo e curopalate, conferite di norma ai membri della famiglia imperiale.
Seguivano poi la zosté patrikia, la “patrizia con cintura”, l’unica dignità femminile, e quelle di magistro (residuo dell’antico magister officiorum), antipato, patrizio, protospatario, disipato (cioè due volte console), spatarocandidato, spatario, ipato (ricordo dell’antica carica di console, in greco chiamata hypatos), strator, candidato, mandator, vestitor, silenziario, stratelates epi thematon o apo eparchon.
I gradi di nobiltà degli eunuchi erano otto: nipsistiario, cubiculario, spatarocubiculario, ostiario, primicerio, protospatario, preposito e patrizio.
Le dignità a voce per i barbuti erano sessanta, corrispondenti ai più elevati posti di comando, e da ognuno di questi capi servizio dipendeva un ufficio più o meno ampio con vari funzionari amministrativi.
Al vertice delle sessanta cariche pubbliche si trovavano il basileopator, il rettore e il sincello: la prima carica, istituito da Leone Sesto, era una sorta di tutore del sovrano con pieni poteri amministrativi, il rettore uan funzione piuttosto imprecisa, mentre il sincello era l’ecclesiastico che fungeva da assistente del patriarca nominato dal sovrano.
Venivano quindi i grandi comandi militari cominciando dallo stratego del tema degli anatolici, immediatamente seguito in ordine gerarchico dal domestico delle scholai, entrambi con il rango di antipato e patrizio, e la serie proseguiva con incarichi militari e civili fino al sessantesimo posto.
La gerarchia degli eunuchi doveva comprendere a sua volta nove dignità a voce, quante ne indica Filoteo sebbene poi ne enumeri dieci, forse per una interpolazione nel testo: il parakoimomenos dell’imperatore (addetto alla camera del sovrano), il protovestiario dell’imperatore, preposto alla tavola dell’imperatore, il preposto alla tavola dell’imperatrice, il papias (portiere) del Gran palazzo, il deuteros (il sostituto del portiere) del Gran palazzo, il pinkernes (coppiere) dell’imperatore e dell’imperatrice, il papias del palazzo della Magnura e quello del palazzo di Dafne.
A differenza di quanto avveniva per i barbuti, le dignità a voce degli eunuchi comportavano servizi effettivi a corte; gli eunuchi potevano inoltre esercitare quasi tutte le funzioni pubbliche dei barbuti, a eccezione di quelle di eparco, questore e domestico, cioè di governatore di Costantinopoli, di capo dei dipartimenti giudiziari (derivato dall’antico quaestor sacri Palatii) e di comandante militare.
Pag. 107-8

Questa donna volitiva e straordinaria [Teofano], la cui bellezza stupiva i contemporanei, fu, assieme alla famosa Teodora, una delle figura più caratteristiche di Bisanzio.
Aveva sposato nel 956 Romano Terzo, già vedovo per la morte precoce della prima moglie, Berta, uan figlia naturale di Ugo di Provenza, che il giovane principe aveva dovuto sposare per volontà di Romano Primo, malgrado una simile unione fosse considerata degradante alla corte di Bisanzio.
Divenuta imperatrice all’età di diciotto anni, confinò in monastero le cinque cognate e costrinse la suocera Elena a vivere appartata a palazzo.
Quando fu a sua volta estromessa dal palazzo, si oppose con tutte le forze all’esilio e, in seguito, riuscì a fuggire dal monastero in cui era stata relegata.
Raggiunse Costantinopoli e si rifugiò come supplice in Santa Sofia.
Il gesto non ottenne però l’effetto sperato: venne di nuovo arrestata e l’esilio fu reso più duro confinandola nella lontana Armenia.
Tornò a corte soltanto sei anni più tardi, quando vi fu richiamata dai figli, ma verosimilmente distrutta nello spirito, dato che visse nell’ombra senza più fare parlare di sé.
Pag. 110-11

Il carattere di Basilio Secondo si modificò profondamente negli anni delle guerre civili.
La sua unica preoccupazione fu il governo dell’Impero,  che resse con mano inflessibile senza dividere con altri le responsabilità.
Rinunciò a ogni piacere e condusse un’esistenza da asceta.
Mostrandosi assai poco bizantino nelle abitudini e nei modi, rifuggiva dalla eleganza, dal culto delle forme e dagli splendori della corte.
Amava esprimersi in modo chiaro, con poche parole, non aveva interessi culturali e non teneva in alcuna considerazione la retorica, tanto amata dai suoi contemporanei.
Dopo la conclusione delle guerre intestine, iniziò a combattere i nemici esterni e sostenne contemporaneamente quattro fronti: i Balcani, la Siria, il Caucaso e l’Italia.
Fra questi tuttavia fu di gran lunga più importante il fronte balcanico, dove l’imperatore si impegnò a combattere la potenza bulgara.
Contro i bulgari fu ingaggiata una lotta mortale, che si trascinò per parecchi anni e venne condotta con ferocia e determinazione, tanto da far attribuire a Basilio Secondo il soprannome di bulgaroctono, “uccisore di bulgari”.
Basilio Secondo comandava di persona gli eserciti nei teatri di guerra, che riteneva più importanti, e si mostrò un comandante di qualità eccezionali, trasformando le armate imperiali in una formidabile macchina bellica.
Pag. 114

Cap. 6. La crisi dell’Undicesimo Secolo, 1025-1081

Nel cinquantesimo che seguì il regno di Basilio Secondo l’Impero di Bisanzio andò incontro a una rapida decadenza, dovuta all’azione coincidente di cause interne ed esterne.
Sul piano interno ebbe particolare rilievo il notevole indebolimento dell’autorità centrale con il conseguente affermarsi del dominio incontrastato dei latifondisti.
I sovrani che si susseguirono dal 1028 al 1081 furono per lo più esponenti dell’aristocrazia civile di Costantinopoli, formata da grandi proprietari terrieri e assai lontana per ideali e metodi di governo dagli imperatori macedoni e, in particolare, da Basilio Secondo.
Come tali, non si opposero più ai potenti, assumendo un atteggiamento all’apparenza neutrale, ma che di fatto assicurò la vittoria ai latifondisti.
Il partito civile al potere, inoltre, trascurò l’esercito nazionale causandone una rapida disgregazione e la progressiva sostituzione del sistema dei temi con il reclutamento di mercenari.
La crisi del tradizionale apparato militare incise notevolmente sulle possibilità di contenere i nemici che premevano sulle frontiere (in particolare i turchi selgiuchidi e i normanni) conducendo a catastrofiche disfatte, a seguito delle quali l’estensione territoriale dell’Impero si ridusse notevolmente.
La frattura religiosa fra Costantinopoli e Roma, infine, divenne irreversibile a seguito dello scisma del 1054.
Pag. 117

L’aristocrazia terriera, ormai saldamente al potere, si rafforzò ulteriormente ottenendo privilegi sempre più ampi dal governo centrale.
Fra questi l’esenzione dalle imposte, largamente concessa, e l’immunità giudiziaria, per cui proprietari giudicavano direttamente i loro coloni.
Si costituirono così grandi domini che si andavano separando dal corpo dello Stato; il governo centrale, anziché intervenire come avevano fatto i macedoni, favorì lo sviluppo del fenomeno.
L’espansione del latifondo e la conseguente crisi del potere centrale vennero accentuate dal sistema della “pronoia”, destinato ad avere grande fortuna in seguito.
Quale ricompensa dei servizi prestati, il sovrano dava terre in concessione (che è il significato letterale del termine greco pronoia) ai “potenti” affinché le amministrassero trattenendone le rendite.
L’assegnazione della pronoia era temporanea e durava in genere quando la vita del beneficiato.
Si andava così sempre più configurando un feudalesimo bizantino, un fenomeno che fino a quel momento non aveva trovato posto in uno Stato fortemente centralizzato e che finì per modificare profondamente il volto dell’Impero trasferendo il potere, e le lotte per conquistarlo, alle famiglie rivali provenienti dal nuovo ceto di magnati.
Pag. 122

In Italia meridionale iniziò infatti la conquista normanna, nella penisola balcanica irruppero invasori provenienti da nord e in Oriente iniziarono a muoversi i turchi selgiuchidi.
………….
I normanni arrivarono come mercenari al servizio di un nobile barese, Melo, che nel 1009 si era ribellato ai normanni.
Pag. 125

Cap. 7. Dai Comneni agli Angeli, 1081-1204

Il periodo che va dal 1081 al 1204 vede la stabile permanenza sul trono di esponenti dell’aristocrazia militare che con Alessio Comneno riuscì ad imporsi a seguito del conflitto con il partito civile.
La società bizantina finì per perdere quella sia pur relativa mobilità sociale che l’aveva caratterizzata, e al suo vertice si impose un ristretto numero di potenti e ricche famiglia, detentrici di ampi latifondi e di sontuose dimore a Costantinopoli, che fecero venir meno i precedenti contrasti fra civili e militari trasferendoli a una semplice rivalità interna fra il ceto dominante.
I Comneni, con un’incisiva attività di governo, diedero vita a una rinascita della potenza imperiale, ma questa fu resa possibile da uno sfruttamento talvolta spietato di tutte le risorse disponibili e da un continuo aumento della tassazione, che colpì in maniera sempre più pesante la popolazione delle province.
I risultati ottenuti furono brillanti, soprattutto perché consentirono uan parziale riconquista del territorio perduto, ma la ricostruzione ebbe basi assai fragili e finì per crollare drammaticamente dopo la fine della dinastia Comnena sino a portare, nel 1024, alla capitolazione dell’Impero di fronte all’espansionismo occidentale.
Pag. 129

Nell’Undicesimo Secolo Venezia aveva da tempo raggiunto la completa indipendenza, anche se la diplomazia bizantina continuava a indicarla formalmente come se fosse in posizione di sudditanza.
L’autonomia da Bisanzio non aveva tuttavia portato alla rottura politica e, a parte occasionali contrasti, vi era stato un tradizionale rapporto di alleanza e, probabilmente col consenso di Bisanzio, all’inizio dell’Undicesimo Secolo al città lagunare aveva affermato la propria supremazia su parte della Dalmazia eliminando la secolare minaccia della pirateria slava.
Pag. 131

La crociata ebbe inizio nel 1095, quando papa Urbano Secondo al Concilio di Clermont-Ferrand lasciò un appello in difesa della cristianità orientale minacciata dagli infedeli.
L’appello del papa suscitò un grande entusiasmo e l’adesione all’impresa andò probabilmente anche al di là delle sue aspettative.
Il grande movimento di persone che ne fu conseguenza, però, venne visto con stupore e preoccupazione dall’Oriente bizantino.
L’idea di crociata, così come fu concepita in Occidente, era quanto mai lontana dalla mentalità di Bisanzio, dove per secoli era stato combattuto l’Islam e gli imperatori ritenevano che la lotta conto gli infedeli fosse uno dei loro esclusivi doveri.
In termini materiali, inoltre, lo spostamento di una grande quantità di armati dall’Occidente destava un comprensibile allarme, dato che non si poteva prevedere quale atteggiamento avrebbero assunto.
A Bisanzio gli occidentali erano da sempre guardati con sospetto, a causa di quelle che venivano ritenute le loro principali caratteristiche: l’arroganza, la sete di denaro, l’incapacità di rispettare i trattati e la considerevole potenza militare, tale da renderli concorrenti pericolosi e imprevedibili.
L’indicazione di Costantinopoli fatta dal papa come luogo di raduno dei partecipanti, nella convinzione che il sovrano sarebbe stato lieto di associarsi alla spedizione, ottenne soltanto lo scopo di acuire i sospetti di Alessio Primo, che peraltro si trovava nell’impossibilità materiale di opporsi.
Le sue aspirazioni di collaborazione con l’Occidente si erano infatti limitate alla richiesta di invio di mercenari e a promuovere trattative con Roma per la riunificazione religiosa, in cui comprendere verosimilmente anche un progetto di cooperazione nella lotta contro i turchi.
Pag. 134

I serbi – la cui potenza inizia ad affermarsi in questa epoca – erano come i croati una popolazione originaria dei territori a nord dei Carpazi insediata da Eraclio nel Balcani per contenere l’espansionismo avaro.
E’ incerta la loro origine etnica, ma dopo lo stanziamento finirono come i croati per assimilarsi alla locale popolazione slava.
A differenza di questi, per lo più sotto l’influenza occidentale attraverso l’assoggettamento all’Impero franco e la subordinazione alla Chiesa romana, i serbi mantennero a lungo stretti rapporti culturali e politici con Bisanzio.
I serbi vivevano in comunità chiamate zupanije o zupe sotto un principe detto zupan e l’Impero di Bisanzio pare aver conservato su di loro una sovranità almeno nominale fino alla prima metà del Nono Secolo, quando divennero indipendenti.
I rapporti tuttavia si fecero di nuovo stretti al tempo di Basilio Primo con l’accettazione del cristianesimo ortodosso e di un vassallaggio politico mantenuto fino alla prima metà dell’Undicesimo Secolo, allorché il più importante principato serbo (conosciuto come Dioclea o Zeta) riuscì ad assicurarsi l’indipendenza, confermata poi nel 1077 con l’invio da parte di papa Gregorio Settimo di una corona regale allo zupan Michele, entrato così formalmente nell’orbita politica romana.
All’inizio del dodicesimo secolo, con la decadenza della Zeta, il ruolo preminente sul popolo serbo fu assunto dai governatori di Rascia, così chiamata dalla fortezza di Ras, che era la residenza del principe.
L’indipendenza del popolo serbo non fu in ogni modo duratura e, alla fine dell’Undicesimo Secolo, il paese tornò sotto la supremazia imperiale, mantenuta sia pure con frequenti ribellioni fino alla seconda metà del secolo successivo.
Pag. 137-38

Gli ungheresi (o magiari) ebbero probabilmente rapporti con Bisanzio già nel Sesto Secolo, quando vivevano tra il Don e il Caucaso, ma entrarono decisamente nella scena politica dell’Impero nel Nono Secolo, allorché migrarono verso  Ovest raggiungendo in parte le pianure a nord dell’estuario del Danubio.
Alla fine del secolo, pressati dai Peceneghi, si spostarono nella pianura pannonica distruggendo il Regno moravo (nel 906) e, di qui, fecero periodiche incursioni sia in Occidente sia nei territori balcanici soggetti a Bisanzio, spingendosi in due occasioni fin sotto le mura di Costantinopoli.
Per quanto devastanti, tuttavia, queste incursioni ebbero carattere temporaneo e non intaccarono le città fortificate, contro le quali la loro organizzazione militare, basata sulle veloci incursioni di cavalleria, era del tutto impotente.
La pesante sconfitta subita a Lechfeld da Ottone Primo (nel 955) mise fine al nomadismo di questo popolo e, poco più tardi, si costituì una stabile nazione a opera del principe Géza e, soprattutto, del successore Stefano Primo (1000-1038), che fu il primo re di Ungheria.
La cristianizzazione, avvenuta verso il 970, portò gli ungheresi nell’orbita della Chiesa romana, ma non vennero meno i rapporti politici e culturali con l’Impero, con cui per oltre due secoli ebbero una frontiera comune lungo il medio Danubio e la Sava.
Il legame con Bisanzio si fece particolarmente intenso nell’Undicesimo Secolo, come attestano indirettamente anche la presenza alla corte ungherese di corone inviate in dono da Costantinopoli con un atto politico-simbolico che, secondo la mentalità del tempo, voleva significare la dipendenza gerarchica del sovrano ungherese dall’imperatore.
La prima di queste, la corona di Costantino Nono Monomaco (di cui sono state trovate nell’Ottocento alcuen placche smaltate), fu verosimilmente donata al re Andrea Primo (1046-1060), mentre la seconda (che costituisce la parte inferiore della “santa corona di Ungheria”) venne probabilmente inviata in dono di Michele Settimo al re Géza verso il 1074.
Lo stesso re sposò poi la nipote di Niceforo Botaniate e, più tardi (nel 1104), Piroska, figlia del re Ladislao Primo, andò in sposa a Giovanni Comneno diventando così imperatrice di Bisanzio.
Pag. 137-40

I rapporti con Venezia, che erano stati il cardine della politica paterna, subirono una crisi destinata a suscitare un conflitto con la tradizionale alleata.
Per tutto il regno di Alessio Primo Venezia era stata in netto vantaggio sia rispetto ai commercianti bizantini che alle altre città marinare italiane.
La sua posizione di forza non venne scossa dal trattato del 1111 con Pisa, alla quale Alessio Primo concesse privilegi commerciali inferiori a quelli ottenuti dai veneziani; al momento, i genovesi restavano ancora esclusi da benefici del genere.
Le cose però cambiarono bruscamente subito dopo l’avvento al potere di Giovanni Comneno.
Un’ambasceria veneziana giunse a Costantinopoli nel 1119 per ottenere il rinnovo del precedente trattato, ma si vide opporre un rifiuto dall’imperatore.
Non è del tutto chiaro perché Giovanni Secondo abbia adottato tale decisione, ma è probabile che su di essa abbiano pesato fattori di ordine politico, come la diminuita importanza dell’aiuto navale degli alleati, o anche il comportamento arrogante dei veneziani che li rendeva particolarmente sgraditi ai suoi sudditi.
L’iniziativa del Comneno fu rovinosa per Venezia, ma inizialmente non si ebbe alcuna reazione e soltanto nel 1122 la Repubblica iniziò a fare rappresaglie navali in territorio orientale.
La flotta bizantina non era in grado di far fronte agli attacchi e, nel corso di quattro anni, i veneziani agirono indisturbati ottenendo una serie di successi, sufficienti a spingere alla capitolazione l'imperatore.
Giovanni Comneno fece sapere al doge che era pronto a rinnovare il trattato e nell’agosto 1126 gli ambasciatori della città lagunare conclusero a Costantinopoli un nuovo accordo che rinnovò ed estese i privilegi concessi da Alessio Primo.
Pag. 140-1

Manuele Primo Comneno (1143-1180), figlio di Giovanni, fu designato espressamente dal padre a succedergli in violazione dei principio di anzianità (prima di lui infatti sarebbe dovuto venire il fratello Isacco) per le non comuni capacità politiche e militari di cui aveva dato prova.
Manuele Comneno fu un sovrano del tutto nuovo per Bisanzio: egli amava infatti le usanze occidentali e le introdusse a corte, modificando profondamente la mentalità e le tradizioni della sua gente.
Si trattava, d’altronde, anche di un’inevitabile conseguenza delle crociate, in seguito alle quali Bisanzio era uscita dalla chiusura all’Occidente, per secoli caratteristica della sua civiltà.
Manuele Comneno ebbe assai vivo il senso dell’universalità dell’Impero e cercò di riportarlo all’antico splendore sia con le armi sia con un’abile e instancabile attività diplomatica, che lo condusse a inserirsi nelle vicende politiche delle più importanti potenze del tempo.
Questi progetti finirono per tradursi in un’ultima fase espansionistica, ma vennero drammaticamente resi vani verso la fine del regno dal repentino crollo dell’intera costruzione politica degli anni precedenti, seguito da una nuova e questa volta irreversibile fase di decadenza.
Pag. 141

Guglielmo Primo procedette quindi alla riconquista del territorio italiano e, nella primavera del 1158, venne concluso un trattato, con la mediazione del papa, in forza del quale i bizantini abbandonarono la penisola.
L’impresa non fu soltanto un insuccesso militare, ma ebbe anche pesanti conseguenze politiche: creò infatti un contrasto insanabile fra l’imperatore di Bisanzio e il collega germanico e condusse a una frattura nelle relazioni con Venezia.
Il timore di una riaffermata presenza bizantina in Italia aveva spinto infatti la repubblica a concludere un trattato con Guglielmo Primo nel 1154 e, al momenti delle ostilità, Venezia restò neutrale.
Per aggirare l’ostacolo, Manuele Comneno si rivolse a Genova nel 1155, gettando le basi di un accordo, ma la diplomazia normanna vanificò la sua opera l’anno successivo ottenendo che anche questa città restasse al di fuori del conflitto.
Pag. 144

La precarietà del rapporto con Venezia, i cui accordi con Bisanzio erano soltanto compromessi provvisori, e il cambiamento della situazione politica in Occidente segnarono l’inizio della fine per Alessio Terzo Angelo.
Dopo la morte di Enrico Sesto l’Impero occidentale si era di fatto disgregato nella lotta civile che contrapponeva Filippo di Svevia a Ottone di Brunswick, senza quindi poter più condurre una propria politica in Italia, dove si impose la forte personalità di papa Innocenzo Terzo, salito al trono di Pietro nel 1198.
Innocenzo Terzo riprese con decisione il progetto di crociata, abbandonato dopo la fine ingloriosa della terza spedizione e le sue aspirazioni spirituali vennero a coincidere con quelle puramente politiche di un’altra forte personalità, il doge veneziano Enrico Dandolo, intenzionato a riaffermare con altrettanta determinazione la supremazia veneziana nell’Impero di Bisanzio.
La conseguenza di questa situazione fu la quarta crociata, al cui conclusione anomala finì per portare a una rapida dissoluzione dell’Impero di Bisanzio, che nel 1204 fu conquistato senza sforzo dagli occidentali.
Pag. 152

Cap. 8. La quarta crociata e l’Impero latino, 1204-1261

La quarta crociata, o “crociata dei veneziani”, venne bandita nel 1198 da papa Innocenzo Terzo; il suo invito fu raccolto dapprima dalla feudalità francese e fiamminga, alla quale si unirono in seguito i signor i tedeschi e dell’Italia settentrionale.
Questa volta non presero parte alla spedizione re o imperatori, ma soltanto feudatari di diversa importanza; capo riconosciuto ne fu il conte Tibaldo di Champagne, che però morì nel 1201 e venne sostituito dal marchese Bonifacio di Monferrato.
I partecipanti si accordarono per raggiungere l’Egitto via mare e, per procurarsi una flotta adeguata, si rivolsero a Venezia.
Furono avviate trattative con la Repubblica e, nell’aprile del 1201, venne concluso un trattato in forza del quale Venezia avrebbe preso parte all’impresa offrendo le navi e i viveri necessari per un anno contro il pagamento di una forte somma di denaro.
In più i veneziani avrebbero fornito una scorta di cinquanta galere, a condizione di ricevere in cambio metà delle conquiste future.
Come data del raduno a Venezia fu stabilito il giorno di San Giovanni, cioè il 29 giugno 1202.
Pag. 153

In questo modo era caduta la capitale dell’Impero romano di Oriente, dopo essere inviolata per secoli.
I vincitori dilagarono indisturbati e, per tre giorni, Costantinopoli fu abbandonata a un saccheggio indiscriminato che aggiunse altre devastazioni a quelle causate dagli incendi sviluppatisi nel costo dell’assedio.
Vennero profanate le chiese, per asportarne i tesori e le reliquie, violati i palazzi e le dimore private e la furia dei conquistatori ai abbatté indiscriminatamente sulle persone e le cose, distruggendo fra l’altro una grande quantità di opere d’arte.
Non si risparmiarono neppure le tombe imperiali, che furono aperte per prelevare gli ornamenti dei cadaveri.
I crociati distrussero per lo più senza alcun criterio, per impossessarsi delle ricchezze, mentre da parte veneziana si ebbe maggiore discernimento e le principali opere d’arte furono salvate per essere trasferite a Venezia, dove ancora sono in gran parte visibili.
Qualche tempo dopo, passata la furia del saccheggio, si provvide a creare un imperatore latino e alla spartizione dell’Impero seguendo i criteri fissati dal trattato di marzo.
Terminava così, sulle ceneri di Costantinopoli, l’età aurea delle crociate, dando vita a un Impero latino in Oriente che sarebbe sopravvissuto fino al 1261, quando la città venne ripresa dai bizantini.
Pag. 156

Il trattato del marzo 1204 costituì una sorta di carta costituzionale dell’Impero latino e, quando Costantinopoli fu presa, servì per la formazione del nuovo organismo statale istituito dai vincitori.
Venne costituito uno Stato di carattere eminentemente feudale e in primo luogo fu eletto un imperatore latino: a questo scopo, si riunì una commissione formata da sei veneziani e sei crociati, che scelse il conte Baldovino di Fiandra, sul quale fecero convergere i voti i veneziani verosimilmente per evitare che si imponesse la forte personalità di Bonifacio di Monferrato.
Subito dopo venne istituito un patriarca latino di Costantinopoli, nella persona del veneziano Tommaso Morosino.
Il trattato di marzo prevedeva infatti di affidare il patriarcato alla parte dalla quale non fosse stato scelto l’imperatore.
Si mise mano infine alla spartizione dell’Impero: il sovrano latino ne ottenne un quarto (costituito dalla sua porzione di Costantinopoli, dalla Tracia, da parte dell’Asia Minore e da alcune isole egee) e il resto andò diviso in parti uguali fra veneziani e cavalieri crociati.
La spartizione aveva tuttavia un valore in gran parte teorico dato che, quando fu completata (nel settembre dello stesso 1204), la provincia bizantina doveva ancora essere sottomessa, a eccezione dei territori di Macedonia e di Tracia, conquistati da Baldovino di Fiandra con uan breve campagna estiva.
Anche quando, in seguito, la sottomissione ebbe luogo, non sempre le assegnazioni fatte sulla carta coincisero con le acquisizioni effettive sia per gli accordi occasionalmente intervenuti fra i vincitori, che modificarono in alcuni casi le zone di influenza, sia anche a motivo della resistenza dell’elemento greco che spesso impedì ai latini di sottomettere alcune regioni.
Pag. 157

Giovanni Vatatze raddoppiò l’estensione del suo Stato e lo condusse a una notevole fioritura economica, mentre l’Impero latino continuava a sopravvivere, sia pure privo di ogni energia, in pratica, soltanto perché sostenuto dalla flotta veneziana, con la quale le forze nicene non erano in grado di confrontarsi a motivo della superiorità tecnica di quest’ultima.
Lo stato di cronica debolezza dell’Impero latino fu aggravato da una pesante crisi finanziaria.
Baldovino Secondo, sul trono dal 1228, trascorse lunghi anni in Occidente, vendendo i possedimenti aviti a Costantinopoli.
Una dopo l’altra vennero anche cedute le reliquie più preziose e giunsero così a Parigi la corona di spine e altre reliquie della Passione, per accogliere le quali re Luigi il Santo fece costruire la Sainte-Chapelle.
A causa del continuo bisogno di denaro, infine, il sovrano finì per dare in pegno ai mercanti veneziani il figlio Filippo e a vendere il piombo che ricopriva i tetti dei suoi palazzi.
Ogni sforzo fu però inutile e l’Occidente abbandonò Costantinopoli latina al suo destino, con la sola eccezione dei veneziani che fino all’ultimo cercarono di preservarla.
Pag. 162-63

Cap. 9. L’età dei Paleologi, 1261-1453

L’epoca dei Paleologi rappresenta l’ultima fase della storia di Bisanzio.
L’Impero ricostruito nel 1261 riuscì a sopravvivere per circa due secoli, anche se riducendosi progressivamente nell’estensione, in preda a un continuo processo di disfacimento dopo il tentativo fatto da Michele Ottavo per riportarlo alle dimensioni di potenza internazionale.
L’opera di erosione del territorio residuo venne attuata dai tradizionali nemici balcanici e orientali, che approfittarono della debolezza di Bisanzio per espandersi, nonché dalle Repubbliche marinare di Genova e di Venezia, la cui ipoteca sul secondo impero si fece sempre più pesante.
Il colpo definitivo fu tuttavia assestato dai turchi ottomani, la stirpe guerriera che iniziò a imporsi nel Quattordicesimo secolo, al cui incontenibile potenza finì per travolgere ciò che restava di Bisanzio e di gran parte dei possedimenti occidentali costituitisi dopo la quarta crociata, espandendosi poi anche ai danni degli Stati balcanici tradizionalmente nemici dell’Impero.
La crisi politica dell’epoca paleologa ebbe anche pesanti ripercussioni sul punto interno, che si fecero drammaticamente avvertire nel corso del Trecento, con un generale impoverimento della popolazione, eccezion fatta per una classe ristretta di grandi proprietari terrieri, passato in gran parte in mano alle repubbliche marinare italiane.
In stridente contrasto con la decadenza di Bisanzio, tuttavia, la cultura letteraria e la produzione artistica ebbero un periodo di rigogliosa fioritura.
Pag. 165

I cambiamenti intervenuti nella situazione italiana misero un pesante ipoteca sui progetti di Michele Ottavo.
L’eliminazione del dominio svevo in Italia meridionale (nel 1266) e l’avvento al trono di Sicilia di Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, diedero infatti nuovo impulso ai piani espansionistici dell’Occidente ai danni di Bisanzio.
Intenzionato a conquistare l’Impero, Carlo d’Angiò si assicurò l’appoggio papale e, in forza di accordi diplomatici che ne facevano l’alleato del deposto sovrano latino, rivendicò il diritto alla sovranità su Costantinopoli, iniziando nello stesso tempo i preparativi per una grande spedizione militare.
Privo delle forze necessarie per contrastarlo, Michele Ottavo cercò di ritardare l’impresa e, parallelamente, di giocare la carte diplomatica nell’unione religiosa con Roma, che avrebbe tolto la spinta propagandistica per l’attacco alla scismatica Bisanzio.
La sua diplomazia convinse il re di Francia, Luigi Nono, a portare con sé il fratello nella crociata di Tunisi nel 1270 e l’anno successivo vennero avviati i contatti con Roma, resi possibili dall’elezione del papa italiano Gregorio Decimo, ben disposto nei confronti di Costantinopoli e nello  stesso tempo avverso alla politica angioina.
Le trattative andarono a buon fine: nel 1274 fu convocato un Concilio a Lione dove il dissidio fra le due chiese venne formalmente ricomposto con la proclamazione dell’unione religiosa e i delegati bizantini giurarono di accettare la fede romana nonché il primato di Roma.
I vantaggi politici furono immediati: Carlo d’Angiò dovette rinunciare ai piani di conquista e Michele Ottavo poté avviare una controffensiva su vari fronti.
L’unione ebbe però gravi contraccolpi interni a Bisanzio per l’opposizione pressoché compatta del clero, del monachesimo e di buona parte della popolazione, che spinsero Michele Ottavo a mettere in atto pesanti persecuzioni dei dissidenti.
La fazione ecclesiastica contraria all’unione trovò espressione nel movimento degli arseniti (così detto dal patriarca di Costantinopoli Arsenio, deposto nel 1266 da Michele Ottavo), che si oppose con vigore alla politica imperiale.
L’unione non fu duratura neppure in Occidente e con l’avvento al seggio papale nel 1281 del francese Martino Quarto, strumento di Carlo d’Angiò, si torno alla rottura piena: il papa condannò Michele Ottavo come scismatico e l’Angiò (che già nel 1280 aveva attaccato senza successo l’Albania imperiale) poté riprendere i suoi piani di conquista, promuovendo una coalizione antibizantina formata dall’erede al trono latino Filippo di Courtenay, Venezia, Tessaglia (che nel 1271 si era staccata dall’Epiro), Serbia e Bulgaria.
I serbi e il despota di Tessaglia irruppero in Macedonia nel 1282 e l’Angiò, con l’aiuto navale di Venezia, si apprestò a dare il colpo definitivo al nemico, ma la situazione fu salvata all’ultimo momento dalla rivolta dei Vespri siciliani, scoppiata a Palermo nel marzo del 1282, alla quale non fu estranea la diplomazia di Costantinopoli.
A seguito di questa rivolta, infatti, al Sicilia si liberò dal dominio francese e il tentativo dell’Angiò di rientrarne in possesso fu ostacolato dalla potenza rivale degli aragonesi, con cui si accese un violento conflitto (destinato a trascinarsi fino al 1302 oltrepassando la vita stessa dei primi protagonisti) a seguito del quale naufragò ogni progetto di spedizione in Oriente.
Pag. 167-68

La rinuncia al mantenimento di una forza militare e la linea politica adottata da Andronico Secondo ebbero un pesante contraccolpo sull’Impero.
La potenza ancora esistente sotto il predecessore subì un rapido processo di contrazione, avviando Bisanzio a divenire un piccolo Stato incapace di esprimere una propria politica estera e preda di una sempre più accentuata disgregazione interna.
La moneta andò soggetta a una forte svalutazione e nello stesso tempo si diffuse in modo sempre più massiccio la grande proprietà fondiaria, inutilmente contrastata da un tentativo imperiale di aumentare l’imposizione fiscale ai ricchi.
Sui mercati prevalsero le monete d’oro delle repubbliche italiane, portando come conseguenza un forte rincaro dei prezzi e un generale impoverimento, mentre la pronoia si consolidò con l’affermazione all’interno di questo sistema di uan classe privilegiate di feudatari, così da accentuare il divario con il resto della popolazione impoverita.
Analogamente disastrose furono le ripercussioni interne della politica seguita nei confronti delle repubbliche marinare, la cui alleanza o neutralità gravò ulteriormente sull’erario imperiale con una serie di concessioni o privilegi per mantenerne l’amicizia.
Pag. 169

L’Asia Minore turca aveva subito un processo di ridefinizione territoriale tra il Tredicesimo e il Quattordicesimo Secolo.
Il sultanato selgiuchide di Rum, giunto all’apogeo nei primi anni del Duecento, era stato travolto dall’invasione mongola subendo uan disastrosa sconfitta campale nel 1243, a seguito della quale si era frazionato in una serie di piccoli emirati più o meno indipendenti e soggetti al controllo dei mongoli.
Con il declino della potenza mongola, verso l’inizio del Quattordicesimo secolo, acquistò un’importanza sempre crescente l’emirato costituito dagli ottomani (o osmanili) nel territorio dell’antica Bitinia.
Si trattava di uan tribù turca arrivata fra le ultime in Asia Minore, che aveva avuto come suo primo capo Ertogul, cui era poi succeduto il figlio Osman (1281-1326), il vero fondatore della dinastia ottomana.
A lui è legato il nome stesso del suo popolo, che fu chiamato Osmanli e venne poi conosciuto in Occidente come “Ottomani”.
Gli Ottomani si mostrarono subito una stirpe guerriera e, fra Tre e Quattrocento, misero in atto una inarrestabile espansione territoriale destinata a riunificare le genti turche e a assestare un colpo mortale all’Impero di Bisanzio.
Pag. 170-1

L’Impero uscì stremato dal nuovo conflitto civile e subì ulteriori perdite territoriali.
I genovesi ripresero Chio, Stefano Dusan conquistò la Macedonia, eccezion fatta per Tessalonica, , e subito dopo l’Epiro e la Tessaglia.
Il territorio in mano a Costantinopoli si ridusse alla Tracia, le isole dell’Egeo settentrionale, Tessalonica isolata all’interno delle conquiste arabe e una parte del Peloponneso.
Bisanzio subì inoltre un tracollo economico e finanziario a seguito delle devastazioni apportate dal passaggio degli eserciti di Cantacuzeno e dei suoi rivali, e a questo, come ulteriormente negativo, si accompagnò nel 1347 la diffusione della grande epidemia di peste che poi avrebbe raggiunto l’intera Europa.
La situazione era disastrosa, d’altronde, già all’inizio del conflitto quando Anna di Savoia aveva impegnato a Venezia i gioielli della corona per ottenere un prestito con cui far fronte alle spese di guerra.
L’idea del degrado è data pienamente dal fatto che alla corte, un tempo splendida, si usava ora soltanto vasellame di piombo e di terracotta.
Il grande Impero di Bisanzio si era ridotto all’ombra dell’antica potenza, ma sarebbe tenacemente sopravvissuto ancora per un secolo.
Pag. 174

La Crociata di Nicopoli rappresentò uno sforzo serio compiuto dalle potenze occidentali per arrestare l’avanzata turca e venne promossa essenzialmente per la difesa dell’Ungheria cattolica.
L’iniziativa du presa da Sigismondo re di Ungheria, l’unico Stato balcanico che ancora disponeva delle risorse necessarie per poter condurre operazioni militari di ampio respiro, che fece appello a tutti i sovrani d’Europa per un’impresa destinata a salvare la cristianità.
Il suo invito fu raccolto: si mossero due papi (Bonifacio Nono e Benedetto Tredicesimo ad Avignone) e venne costituita una grande armata di circa centomila uomini il cui grosso era formato dagli ungheresi, ma che comprendeva anche migliaia di uomini variamente affluiti da Francia, Germania, Valacchia, Italia, Spagna, Inghilterra, Polonia e Boemia.
I genovesi di Lesbo e di Chio e i cavalieri di Rodi si assunsero il compito di presidiare la foce del Danubio e le coste del mar Nero, mentre Venezia finì per superare le esitazioni iniziali (determinate dal proposito di avviare una trattativa bizantino-turca) inviando una piccola flotta nei Dardanelli da cui fu infranto il blocco navale dei turchi.
L’esercito crociato si concentrò a Buda per ricongiungersi ai veneziani nella capitale e, nell’estate del 1396, superò il Danubio proseguendo verso Nicopoli, che fu posta sotto assedio.
Il 25 settembre però le forze cristiane furono disastrosamente sconfitte da Bayazid.
Il re Sigismondo riuscì a mettersi in salvo con la fuga, ma molti combattenti occidentali perirono sul campo o furono fatti prigionieri.
Pag. 181

La crisi dell’Impero ottomano conseguente alla disfatta del 1402 portò ad alcuni anni di calma, segnati anche dalla fioritura culturale di Mistrà a opera del despota Teodoro Secondo Paleologo e dell’umanista Giorgio Gemisto Pletone, uno dei più fecondi pensatori del tempo.
Si ebbe a Mistrà una paradossale rifioritura dell’ellenismo, in aperto contrasto con lo sfascio generale del mondo bizantino.
La Morea, nella prima metà del Quattrocento, divenne il vivaio della grecità e mostrò anche una considerevole vitalità politica, riuscendo a sottomettere tutto il Peloponneso, a eccezione delle colonie veneziane di Corone, Modone, Argo e Nauplia.
Nel 1432, infatti, venne assoggettato il principato latino di Acaia e terminò così la contesa franco-bizantina per il possesso del Peloponneso, che era iniziata al tempo di Michele Ottavo.
Per meglio proteggere la Morea, Manuele Paleologo fece poi costruire l’Hexamilion, un forte bastione difensivo lungo tutto l’istmo di Corinto.
Pag. 182

La crociata svoltasi fra il 1443 e 1444, comunemente nota come crociata di Varna, fu inizialmente coronata da un promettente successo.
L’appello del papa per la spedizione trovò un’accoglienza favorevole e nella parte meridionale dell’Ungheria si raccolse un esercito guidato dal re Ladislao Terzo, dal voivoda di Transilvania Giovanni Corvino Hunyadi, dal despota serbo Giorgio Brankovic, che era stato cacciato dal suo paese dai turchi; a questo si aggiunsero poi altri rinforzi guidati dal legato papale, il cardinale Giuliano Cesarini.
L’esercito crociato, composto da circa 25000 uomini cui si unirono lungo il percorso più di 6000 serbi, superò il Danubio all’inizio dell’ottobre 1443 e si addentrò fino in Bulgaria e, di qui, in Tracia ottenendo una serie di brillanti vittorie sui nemici.
Le operazioni militari vennero sospese nell’inverno ma la situazione continuava a essere favorevole ai crociati: Murad Secondo, impegnato a domare una rivolta in Asia Minore, si trovò in difficoltà, anche perché contemporaneamente l’Albania era insorta e le truppe del despota bizantino di Morea, Costantino Paleologo, erano passate all’offensiva nella Grecia centrale.
Il sultano fece perciò proposte di tregua e nel giugno 1444 si accordò per un armistizio di dieci anni che alla fine venne respinto dai cristiani, con l’eccezione del despota di Serbia, ritiratosi dall’impresa.
Le forze crociate ripresero la marcia in direzione del mar Nero, dove prevedevano di imbarcarsi sulla flotta veneziana a Varna e raggiungere Costantinopoli.
Le operazioni navali e terrestri, però, furono male coordinate: i veneziani ritardarono il loro arrivo e, nello stesso tempo, non riuscirono a impedire a Murad Secondo di traghettare al di là del Bosforo un forte  contingente di truppe asiatiche.
Il 10 novembre 1444 le forze turche, pari a circa il triplo di quelle nemiche, affrontarono i crociati in prossimità di Varna, sulla costa del mar Nero.
I cristiani combatterono con eroica determinazione, ma alla fine furono sbaragliati lasciando fr ai morti il re Ladislao e il cardinal Cesarini; i superstiti si sbandarono e soltanto pochi riuscirono a salvarsi.
Pag. 183-84

La disfatta di Varna determinò la fine di Bisanzio.
Nel 1448 morì Giovanni Ottavo Paleologo e, in assenza di eredi diretti, il suo posto fu preso dal fratello e despota di Morea Costantino Undicesimo Paleologo (1448-1453) che fu incoronato a Mistrà e qualche tempo più tardi ragiunse Costantinopoli su una nave veneziana.
Le operazioni militari condotte in Grecia da Costantino Paleologo erano proseguite anche dopo la sconfitta dei crociati, ma nel 1446 Murad Secondo troncò ogni velleità di rivincita irrompendo nella regione, superò le difese dell’istmo ricostruite dal despota e si addentrò in Morea devastandola completamente per poi ritirarsi con sessantamila prigionieri dopo aver imposto il riconoscimento della sua sovranità.
La potenza ottomana era ormai incoronabile e, dopo la sconfitta di Hunyadi, era rimasto in armi nei Balcani soltanto l’albanese Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, che si era ritirato sulle montagne dell’Albania per proseguire la lotta.
La sorte di ciò che restava dell’Impero era ormai segnata, ma l’epilogo si sarebbe avuto soltanto con l’avvento al potere nel 1451 del giovane ed energico sultano Maometto Secondo, che diede un forte impulso all’espansionismo turco portando il suo Stato a una potenza non ancora raggiunta dai predecessori.
Maometto Secondo il Conquistatore (come fu chiamato dai contemporanei) decise in primo luogo di farla finita con quanto restava dell’Impero.
Le residue sopravvivenze bizantine rappresentavano un ostacolo per i suoi piani di dominio e Costantinopoli, in particolare, era un assurdo ricordo di una potenza ormai scomparsa, pericolosamente incuneata però nell’Impero ottomano.
Maometto Secondo preparò con cura l’accerchiamento della città imperiale, che con le sue forti mura rappresentava ancora un ostacolo formidabile.
Prese dapprima una serie di iniziative volte a intercettare l’arrivo di qualsiasi aiuto esterno, poi fece costruire nel punto più stretto del Bosforo il castello di Rumir-Hisar, che si aggiunse alla fortezza di Anadolu Hisar fatta edificare da Bayazid sulla sponda asiatica e dotata di un imponente spiegamento di artiglieria in grado di impedire a chiunque la navigazione.
Quando l’accerchiamento fu completato, ebbe inizio l’assedio vero e proprio nei primi giorni di aprile del 1453.
Maometto Secondo schierò di fronte a Costantinopoli un’armata imponente, forte a quanto pare di circa centocinquantamila uomini, ma soprattutto ricorse in modo massiccio all’artiglieria, che si sarebbe rivelata determinante per la caduta della città.
Per suo conto, un fonditore ungherese di nome Urban realizzò ad Adrianopoli un cannone di proporzioni gigantesche, che venne trasportato in due mesi con un tiro di sessanta buoi fin sotto le mura della capitale assediata.
Alla grande quantità di combattenti turchi e ai mezzi tecnologicamente all’avanguardia si contrapponevano un’artiglieria antiquata e un nucleo di difensori formato da circa settemila uomini, composto da bizantini e settecento mercenari genovesi guidati da Giovanni Giustiniani Longo, cui venne affidato dal sovrano il comando delle operazioni difensive.
Pag. 184-85

Gli ottomani iniziarono l’assedio della città il 12 aprile con un bombardamento diurno e notturno delle mura terrestri che durò per una settimana.
Il 18 aprile Maometto Secondo tentò un attacco notturno andato a vuoto e, subito dopo, lo scontro si spostò sul mare nel tentativo di forzare l’ingresso al Corno d’Oro che era stato chiuso con uan grossa catena.
Anche questa operazione non ebbe l’esito sperato, per la resistenza dei cristiani, e il sultano decise di trasportare via terra le navi facendole trainare fin sulla cima di una collina antistante per poi farle scendere nel porto e, qui, prendere alle spalle la flottiglia che difendeva la catena.
L’operazione fu eseguita con successo il 22 aprile e alcuen decine di navi turche entrarono così nel porto di Costantinopoli; tuttavia non condusse ai risultati sperati, dato che le imbarcazioni turche alla fine si trovarono intrappolate ed esposte agli attacchi nemici.
Maometto Secondo intensificò di conseguenza l’assedio, con due tentativi di penetrare in città attraverso brecce aperte nelle mura, il 7 e il 12 maggio, che vennero ugualmente respinti dagli assediati.
Fu inoltre aumentato il bombardamento, aprendo grossi squarci nelle mura e vennero fatti altri inutili assalti diretti alle difese cittadine.
Il 26 maggio Maometto Secondo si risolse a tentare l’attacco finale eseguendo i necessari preparativi.
Il 28, nella città ormai presaga della fine, si svolsero grandi processioni e una cerimonia religiosa in Santa Sofia, alla quale presero parte l’imperatore con i suoi dignitari e i comandanti del presidio.
L’assalto iniziò dopo le tre del mattino del 29 maggio e si concentrò in prossimità della porta di San Romano, che era il punto più debole della difesa.
La prima ondata, composta da reparti irregolari, fu respinta dopo due ore di combattimenti e lo stesso avvenne per un secondo assalto di truppe anatoliche.
Verso  l’alba il sultano fece scendere in campo le truppe scelte (i giannizzeri) e queste alla fine riuscirono a penetrare dentro le mura.
Il Longo, ferito, abbandonò la posizione gettando il panico fra i difensori, che si sbandarono, e Costantino Undicesimo morì combattendo nella disperata difesa della sua capitale ormai invasa dai nemici.
Alcuni superstiti riuscirono a fuggire facendo salpare fortunosamente dal porto un certo numero di navi veneziane, cretesi e genovesi, che raggiunsero il Bosforo e di qui proseguirono verso la salvezza mentre Costantinopoli venne brutalmente messa a sacco dai vincitori per tre giorni.
Pag. 185-86

Ancora una volta le potenze occidentali non accorsero in difesa di Costantinopoli, malgrado gli appelli disperati di Costantino Undicesimo e i pericoli connessi alla perdita della città, che avrebbe offerto ai turchi una posizione strategica di prim’ordine per proseguire il loro attacco al mondo cristiano.
La flotta veneziana inviata in soccorso degli assediati partì con incredibile ritardo e non arrivò mai sul teatro operativo, perché fu preceduta dalla notizia della caduta di Costantinopoli in mano turca.
Nell’inutile tentativo di ottenere l’aiuto dell’Occidente, l’imperatore bizantino aveva fatto proclamare di nuovo l’unione religiosa in Santa Sofia (12 dicembre 1452), suscitando l’indignata reazione dei suoi sudditi, in grande maggioranza determinati a sopportare il dominio turco piuttosto che la soggezione a Roma.
Poco più tardi caddero in mano ottomana anche i residui frammenti dell’Impero: la Morea ne 1460 e Trebisonda l’anno successivo.
Molti bizantini fuggirono riparando soprattutto in Italia e, fra questi, un buon numero di eruditi che contribuirono alla diffusione in Occidente della cultura greca.
Il Ducato di Atene, residuo della conquista latina, fu ugualmente nel 1456, mentre alcune delle colonie genovesi e veneziane costituite nel corpo dell’Impero avrebbero resistito più o meno a lungo alla marea turca.
Con la conquista di Costantinopoli, a ogni modo, finiva la storia di Bisanzio, ma la sua tradizione fu continuata attraverso la cultura greca, che nel corso del Quattrocento si affermò decisamente in Occidente, e la Chiesa ortodossa che ne raccolse l’eredità.
Pag. 186

Bibliografia

Opere generali sulla storia e la civiltà di Bisanzio

I grandi problemi della storia bizantina / C. Diehl. – Laterza, 1957
Storia di Bisanzio /P. Lemerle. – Lecce, 2004
L’Impero bizantino / N. H. Baynes. – Firenze, 1971
Vita e morte di un impero / L. Brehier. – Genova, 1995
L’eredità di Bisanzio / N. H. Baynes e L. B. Moss (a cura di). – Milano, 1961
La civiltà bizantina / S. Runciman. – Firenze, 1960
I bizantini / D. Talbot Rice. – Milano, 1963
Storia dell’Impero bizantino / G. Ostrogorsky. – Einaudi, 1968
Storia e cultura di Bisanzio / H. W. Haussig. – Milano, 1964
Storia del mondo medievale. Vol. 3.: L’Impero bizantino. – Garzanti, 1968
Bisanzio e la sua civiltà / A. P. Jordan. – Laterza, 1983
Il dramma di Bisanzio: ideali e fallimento d’una società cristiana / A. Ducellier. – Napoli, 1980
La teocrazia bizantina / S. Runciman. – Milano, 2003
Il millennio bizantino / H.-G. Beck. – Roma, 1981
La civiltà bizantina /C. Mango. – Laterza, 2003
Il pensiero politico bizantino / A. Pertusi. – Il Mulino, 1990
L’uomo bizantino / a cura di G. Cavallo. – Laterza, 1992
Materiali di storia bizantina / A. Carile. – Il Mulino, 1994
Guida allo studio della storia bizantina / E. Pinto. – Messina, 1994
La chiesa ortodossa: storia, disciplina, culto / E. Morini. – Il Mulino, 1996
Bisanzio: splendore e decadenza di un impero, 330-1453 / J. J. Norwich. – Milano, 2000
La civiltà bizantina: donne, uomini, cultura e società / a cura di G. Passarelli. – Milano, 2000
La civiltà bizantina / C. Capizzi. – Milano, 2001
Storia di Bisanzio / W. Treadgold. – Il Mulino, 2005
Gli ortodossi / E. Morini. – Il Mulino, 2002
Lo Stato bizantino / S. Ronchey. – Einaudi, 2002
Bisanzio: la seconda Roma / R.-Lilie. – Roma, 2005
La storia di Bisanzio / G. Ravegnani. – Roma, 2004
Il mondo bizantino, 1.: L’Impero romano d’Oriente, 330-641 / C. Morrisson. – Einaudi, 2007
Bisanzio: storia di un impero, secoli Quarto-Tredicesimo / M. Gallina. – Roma, 2008

Studi su singoli aspetti

Costantino tra cristianesimo e paganesimo / A. Alfoldi. – Laterza, 1976
Lo scisma di Fozio: storia e leggenda / F. Dvornik. – Roma, 1953
Storia delle crociate / S. Runciman. – Einaudi, 1966
Comneni e Staufer: ricerche sui rapporti fra Bisanzio e l’Occidente nel Secolo Dodicesimo / P. Lamma. – Roma, 1955-1957
L’imperatore Michele Paleologo e l’Occidente, 1258-1282 / D. J. Geanakoplos. – Palermo, 1985
Il Concilio di Firenze / J. Gill. – Firenze, 1967
Bisanzio e il Rinascimento: umanisti greci a Venezia e la diffusione del greco in Occidente, 1440-1535 / D. J. Geanakoplos. – Roma, 1967
Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel Secolo Quarto / A Momigliano. – Einaudi, 1968
Il tardo Impero romano / A. H. M. Jones. – Milano, 1973-81
La caduta di Costantinopoli, 1453 / S. Runciman. – 2001
Studi sulle colonie veneziane in Romania nel Tredicesimo Secolo / S. Borsari. – Napoli, 1966
Il tramonto del mondo antico / A. H. M. Jones. – Laterza, 1972
Maometto il Conquistatore e il suo tempo / F. Babinger. – Einaudi, 1967
La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal Nono all’Undicesimo Secolo / V. von Falkenhausen. – Laterza, 1978
L’imperatore Anastasio, 391-518: studio sulla sua vita, la sua opera e la sua personalità / C. Capizzi. – Roma, 1969
Il mondo tardoantico: da Marco Aurelio a Maometto /P. Brown. – Einaudi, 1974
Giustiniano e Teodora / R. Browning. – Milano, 1974
Il Commonwealth bizantino: l’Europa orientale dal 500 al 1453 / D. Obonlensky. – Laterza, 1974
Costantino Porfirogenito e il suo mondo / A. Toynbee. – Firenze, 1987
Costantinopoli: nascita di una capitale, 350-451 / G. Dragon. – Einaudi, 1991
L’imperatore Giustiniano: storia e mito / a cura di G. G. Archi. – Milano, 1978
Per una storia dell’Impero latino di Costantinopoli, 1204-1261 / A. Carile. – Il Mulino, 1978
L’amministrazione bizantina in Dalmazia / J. Ferluga. – Venezia, 1978
L’Impero bizantino e l’islamismo / A. Guillou, F. Bulgarella e F. Bausani. – Einaudi, 1981
I Bizantini in Italia / G. Cavallo et al. – Milano, 1982
Cirillo e Metodio apostoli degli slavi / M. Lacko. – Milano, 1982
La spedizione italiana di Costante Secondo / P. Corsi. – Il Mulino, 1983
L’Impero bizantino, 1025-1204: uan storia politica / M. Angold. – Napoli, 1992
Costantino il Grande / E. Horst. – Milano, 1987
Introduzione allo studio dell’età giustinianea / R. Bonini. – Il Mulino, 1985
Lo storico e la sua vittima: Teodora e Procopio / H.-G. Beck. – Laterza, 1988
L’Impero di Trebisonda, Venezia, Genova e Roma, 1204-1461: rapporti politici, diplomatici e commerciali / S. P. Karpov. – Roma, 1986
L’Italia bizantina: dall’Esarcato di Ravenna al tema di Sicilia / A. Guillou e F. Bulgarella. – Einaudi, 1988
Venezia e Bisanzio / D. M. Nicol. – Milano, 1990
Il crepuscolo di Bisanzio, 1392-1448 / I. Djuric. – Roma, 1989
Il tardo romano impero / A. Cameron. – Il Mulino, 1995
Un impero, due destini: Roma e Costantinopoli fra il 395 e il 600 d. C. / A. Cameron. – Genova, 1996
Teodosio: l’ultima sfida / S. Williams e F. Friell. – Genova, 1999
Potere e società a Bisanzio dalla fondazione di Costantinopoli al 1204 / M. Gallina. – Einaudi, 1995
La Sardegna bizantina tra Sesto e Settimo Secolo / P. Spanu. – Oristano, 1998
Giovanna di Savoia alias Anna Paleologina, latina a Bisanzio, c. 1306-c. 1365) / S. Origone. – Milano, 1999
Teofano: una bizantina sul trono del Sacro Romano Impero, 958-991 / R. Gregoire. – Milano, 2000
Costantino il Grande / A. Marcone. – Laterza, 2000
L’Impero perduto: vita di Anna di Bisanzio, una sovrana tra Oriente e Occidente / P. Cesaretti. – Milano, 2006
Quarta Crociata: Venezia-Bisanzio-Impero Latino / a cura di G. Ortalli et al. – Venezia, 2006
I bizantini in Italia / G. Ravegnani. – Il Mulino, 2004
Bisanzio e Venezia / G. Ravegnani. – Il Mulino, 2006
Figure bizantine / Ch. Diehl. – Einaudi, 2007
Costantino Quinto imperatore di Bisanzio / N. Bergamo. – Rimini, 2007
Imperatori di Bisanzio / G. Ravegnani. – Il Mulino, 2008





Cap. 1. La nascita della stirpe

La nascita della stirpe dei longobardi come quella di tutte le tribù barbare dell’epoca antica e altomedievale, è avvolta nelle nebbie di un passato remoto sul quale non esistono sufficienti fonti storiche che siano in grado di far luce in misura adeguata.
La cultura dei barbari era orale e quindi dall’interno di quel mondo non sono giunte a noi, perché non furono prodotte, testimonianze scritte se non in tarda età, dopo l’acculturazione delle diverse etnie a contatto con la civiltà romano-cristiana.
Dal canto loro, gli autori romani trascurarono quelle genti finché esse non entrarono in contatto con l’impero e comunque non furono in genere interessati a fornirne precise e particolareggiate descrizioni e a raccontarne la storia.
La genesi delle varie tribù barbare è dunque taciuta o, in alcuni casi, ricostruita a posteriori in maniera approssimativa quando non addirittura fantastica.
Pag. 7

Cap. 2. Dalla Scandinavia alla Pannonia

Durante il successivo regno di Vacone i longobardi sottomisero gli svevi che erano insediati nelle province della Valeria e della Pannonia 1. (cioè in gran parte dell’odierna Ungheria) e strinsero importanti alleanze con diverse stirpi attraverso al politica matrimoniale del loro monarca, che sposò prima la figlia del re dei turingi, poi quella del re dei gepidi, infine quella del re degli eruli.
In questo modo essi si assicurarono rispettivamente la protezione del confine settentrionale del loro dominio, di quello a est, e la possibilità di inglobare nel proprio esercito gli eruli sopravvissuti alla guerra.
Infine, Vacone fece sposare due sue figlie con dei principi franchi, alleandosi quindi anche con questa fortissima tribù occidentale, e strinse accordi con Bisanzio.
Insomma, durante il quasi trentennale regno di Vacone (all’incirca dal 510 al 540) i longobardi riuscirono a consolidare una grande dominazione che andava dalla Boemia all’Ungheria e che era ben inserita nel quadro geopolitico internazionale.
Pag. 16-17

Cap. 3. L’invasione dell’Italia

Nella primavera del 569 (o l’anno precedente secondo altri calcoli) i longobardi fecero irruzione in una penisola italiana che scontava ancora le conseguenze della terribile guerra che per quasi vent’anni, dal 535, aveva opposto l’Impero bizantino, retto allora da Giustiniano, al  regno dei goti, e che si era chiusa con la disfatta di quest’ultimo.
Il lungo conflitto aveva sconvolto molte regioni, soprattutto al centro-sud, con un crollo demografico che si accompagnava allo spopolamento di vaste aree, alla rovina di numerose città e di molte infrastrutture ereditate dall’epoca romano-imperiale (a cominciare dal sistema stradale), alla crisi delle attività economiche e produttive.
Inoltre, il reintegro dell’Italia nell’Impero, in sostituzione del dominio dei goti, non era stato accolto con favore da tutta la popolazione indigena, che avvertiva i militari e i funzionari imperiali, provenienti dall’Oriente, come stranieri (malgrado agissero nel nome di Roma) e che mal tollerava l’opprimente pressione fiscale imposta dalle autorità a un paese dissanguato dagli eventi bellici.
Pag. 19

Sfondato il confine, occupato il Friuli, i guerrieri di Alboino subito dopo dilagarono per il Veneto, quindi, nel giro di tre anni, entrarono in Lombardia, si spinsero fino al Piemonte e, oltrepassato il Po, fecero irruzione in Emilia e in Toscana.
Nelle loro mani caddero molte delle più importanti città dell’Italia settentrionale, comprese le due sedi di residenza predilette da Teodorico, cioè Verona e Pavia, e la vecchia capitale tardoimperiale, Milano.
La presa di possesso del territorio avvenne però in maniera disorganica.
Diverse tra le più salde piazzeforti tenute dai bizantini furono aggirate dai longobardi, anziché prese d’assalto,  per non sfiancarsi in assedi prolungati e difficili da sostenere (anche per le limitate capacità poliorcetiche dei barbari); inoltre, fu debole l’effettivo coordinamento politico-militare delle operazioni da parte del re, poiché i guerrieri si muovevano in bande ciascuna delle quali sottostava al comando del proprio capo, chiamato dalla fonti col termine latino di dux (duca), desunto dal lessico militare tardoromano.
Pag. 21

Al termine di questo periodo di governo ducale, che fu particolarmente turbolento con un aumento dei saccheggi a danno dei romani, la consapevolezza che un assetto politico-istituzionale frantumato, e con strategie discordi, esponeva a grandi rischi di fronte ai tentativi dei bizantini di riconquistare almeno una parte dei territori occupati dai longobardi convince i duchi a creare re il figlio di Clefi, Autari.
Per rendere più solido il potere di una base economica, un patrimonio del re,  cedendogli ciascuno la metà dei propri beni: per tutto il regno, da allora, si ebbe all’interno di ogni ducato proprietà fiscali regie, denominate curtes, rette da ufficiali di fiducia del monarca, i gastaldi.
Ad aumentare i timori dei longobardi, tanto da convincerli a darsi di nuovo una guida unitaria, fu anche l’accordo stipulato in quel periodo dall’impero con i franchi, loro tradizionali nemici, i quali nel 584 effettuarono scorrerie al di qua delle Alpi.
Pag. 23

A fronte di un simile quadro generale, la preoccupazione di Autari (584-590) e poi del suo successore Agilulfo (591-615) fu quella di garantire quanto più possibile uniformità territoriale al regno, rafforzandone i confini esterni, riassorbendo le diverse enclaves imperiali che sopravvivevano al suo interno e sottomettendo con patti o con la forza delle armi i duchi refrattari all’autorità del monarca (come, tra gli altri, quelli di Treviso, Verona, Bergamo, Trento, Cividale).
Allo stesso tempo ci si sforzò di contenere i franchi, tramite accordi diretti o alleandosi in funzione anti franca con altre stirpi transalpine, coem quella dei bavari.
Per questo motivo Autari sposò la principessa bavara Teodolinda, che, una volta rimasta vedova, scelse come nuovo marito il duca di Torino Agilulfo, trasferendogli la dignità regia.
Pag. 24-25

Nell’autunno del 593 Agilulfo, spingendo la propria incisiva azione militare fino alle regioni dell’Italia centrale, giunse alle porte di Roma e mise sotto assedio la città.
Questa, mal  difesa dalle truppe bizantine,  da tempo sentiva stringere attorno a sé la morsa longobarda, rappresentata non solo dall’avanzata del re, ma soprattutto dalle ripetute scorrerie dei più vicini duchi di Spoleto e di Benevento.
Nell’emergenza la tutela della popolazione romana fu assunta dal pontefice, che allora era Gregorio magno.
Costui si era fatto carico delle diverse incombenze ormai trascurate dai funzionari imperiali, comprese la cura degli approvvigionamenti e perfino l’organizzazione della difesa delle mura urbane, non solo per la città di cui era vescovo, ma anche per diversi altri centri dell’Italia centrale e meridionale, come, ad esempio, Nepi o Napoli, consapevole della responsabilità verso il gregge di fedeli a lui affidato che discendeva dal suo ufficio pastorale in quanto vescovo e metropolita.
Si trattava di una condotta da lungo tempo divenuta familiare ai vescovi dell’Occidente, i quali,  di fronte alla progressiva disgregazione dell’ordinamento imperiale, avevano dovuto surrogare le magistrature dello Stato, spesso mettendo a frutto l’educazione che avevano ricevuta provenendo essi stessi in larga misura da famiglie aristocratiche e talora, come nel caso di Gregorio Magno, avendo maturato esperienze di funzionario civile prima di abbracciare la carriera ecclesiastica.
Gregorio cercò sempre di collaborare con gli ufficiali imperiali, ma di fronte all’inerzia di questi none sitò a prendere iniziative autonome, avviando trattative con i longobardi e attirandosi perciò i rimproveri dell’esarca e dell’imperatore, che lo accusarono di ingenuità o addirittura di intelligenza con il nemico.
Per tutta la durata del suo pontificato egli insistette sulla necessità di un accordo di pace generale tra l’Impero da una parte e il Regno e i due ducati di Spoleto e Benevento dall’altra, proponendosi quale mediatore e garante delle tregue, che rimasero sempre di precaria tenuta.
Pag. 26-27

Per i piccoli proprietari e per i contadini lo stanziamento dei longobardi, anche se non fu certo indolore, ebbe probabilmente conseguenze meno gravi sulle loro condizioni di vita, sebbene la matrice delle fonti scritte, prodotte tutte dalle élite, renda assai complicata ogni concreta valutazione di simili aspetti.
I contadini videro semplicemente nuovi padroni barbari sostituirsi ai vecchi padroni romani, mentre i piccoli proprietari versarono ad altri destinatari i canoni e le prestazioni che già dovevano al fisco imperiale, il quale era forse più meticoloso e opprimente nell’esazione di quanto non lo fossero i nuovi venuti.
Alcune lettere di Gregorio magno fanno cenno del fatto che molte famiglie di contadini preferivano rifugiarsi presso i longobardi piuttosto che sostenere il peso delle imposizioni fiscali richieste dall’impero, che le costringevano a vendere i propri figli per sopravvivere.
Lo stesso papa scriveva anche ad Agilulfo per ricordargli coem fosse nel suo interesse risparmiare la vita dei contadini, del cui lavoro gli stessi longobardi traevano giovamento.
Insomma, una volta attenuatasi la violenza diffusa dei primi tempi, l’esistenza quotidiana di questi ceti dovette riassestarsi su livelli non troppo difformi da quelli dal passato e quindi la loro condizione complessiva non dovette peggiorare.
Nelle città, poi, la popolazione romana, rappresentata e organizzata dal proprio vescovo, e depositaria di saperi e capacità tecniche ed economiche che i longobardi non possedevano, ebbe forse uan capacità ancor maggiore di contrattare con i nuovi dominatori i termini della forzata convivenza.
Abbandonata da tempo la vecchia immagine storiografica, in larga misura ottocentesca, di una popolazione romana asservita dai padroni longobardi e ridotta a uan massa indistinta dai padroni longobardi e ridotta a una massa indistinta di schiavi schiacciata sotto il tallone di un “occupante” straniero, la valutazione oggi generalmente condivisa in ambito scientifico dei rapporti tra le due componenti etniche del regno restituisce un quadro più articolato, in cui la condizione dei romani, oltre che meno cupa nel suo insieme, appare diversificata per contesti sociali, di luogo di residenza (con una dicotomia fra città e campagna) e forse anche doganali.
Nella cultura dei longobardi, l’uomo libero dotato di pienezza di diritti e di capacità politica era soltanto l’exercitalis, o arimanno, vale a dire il maschio adulto in grado di portare le armi, membro dell’assemblea tribale, il thinx o gairerhinx, autentica sede del potere.
I soggetti liberi longobardi che non portavano le armi, coem le donne o i minori, si trovavano in una condizione di detentori di diritti affievoliti, dovendo sottostare alla protezione di un maschio adulto, che interveniva al loro fianco, o per loro conto, nei vari negozi giuridici.
Pag. 31-33

Se longobardi e romani rimasero all’inizio separati, sui piani sociale, giuridico (ciascuno dei due gruppi si regolava secondo il proprio diritto), e talora anche insediativo, la prolungata convivenza e lo stesso scarso numero complessivo dei longobardi favorirono un processo di avvicinamento reciproco che non fu nemmeno tanto lento.
La contiguità fu forte soprattutto nelle città: qui i longobardi si stabilirono nei vecchi edifici romani, installando nei palazzi pubblici la propria amministrazione locale, a cominciare dalla sede del duca, mentre i guerrieri con le loro famiglie trovarono dimora nelle case esistenti, dapprima in quartieri e loro riservati, dai quali potevano controllare tutto lo spazio urbano, e poi, con il tempo, in modo più distribuito, mischiandosi con gli autoctoni.
Tra la popolazione urbana i longobardi erano una piccola minoranza: di fronte a sé avevano la maggioranza romana, organizzata dal vescovo e dal clero cattolico e depositaria di una cultura più adatta a una vita stanziale e cittadina.
I barbari erano inoltre indotti a ricorrere quotidianamente ai servizi degli artigiani e dei mercanti romani.
In simili condizioni era difficile pensare che una minoranza militarizzata, anche se detentrice del potere politico e del monopolio delle armi, potesse conservare a lungo la propria separatezza, senza fare eventualmente ricorso a misure coercitive, quale, per esempio, una legislazione che ostacolasse espressamente gli scambi tra i due gruppi (come avevamo fatto invece i goti),
Di simili iniziative non si riscontra traccia e ben presto si ebbero, tra l’altro, matrimoni misti.
Una spinta determinante alla graduale fusione etnica all’interno del regno tra longobardi e romani, che accelerò i processi di avvicinamento testé accennati, fu costituita dalla conversione dei primi al cattolicesimo, completatasi nel corso del secolo 7. e ufficialmente sancita, al vertice, dal ripudio dell’arianesimo da parte di re Ariperto nel 653.
Tale evoluzione è confermata anche dall’abbandono, proprio alla fine del secolo 7., dell’uso di seppellire con il corredo funerario, a riprova che era stato ormai superato ogni residuo retaggio pagano della stirpe, del resto funzionale a un assetto sociale e a un’identità di gruppo che si erano completamente trasformati.
L’avvenuta fusione è misurabile pure tramite l’analisi di altri elementi, quali la commistione dei nomi propri, con i longobardi che ne adottarono di romani e cristiani e i romani che ne impiegarono a loro volta germanici, o la condivisione della medesima lingua: nell’8. secolo il longobardo sembra essere scomparso dall’uso.
Nello stesso secolo, al tempo di re quali Liutprando, su cui si tornerà, il superamento delle barriere, non solo culturali ma anche giuridiche, appariva ormai definitivamente compiuto e l’intera società del regno mostrava di avere acquisito una fisionomia del tutto nuova.
Pag. 34-36

Cap. 4. Forme di insediamento e organizzazione del territorio

La gens Langobardorum che scese in Italia era organizzata come un esercito in marcia, cioè in distaccamenti militari di exercitales-arimanni, verosimilmente legati fra loro anche da vincoli di parentela e subordinati a un capo (il dux) al quale giuravano fedeltà e ai cui ordini combattevano.
Il termine fara è stato a lungo interpretato da molti studiosi come un equivalente di Sippe, che designava il gruppo parentale germanico, anche sulla scorta di una testimonianza di Paolo Diacono che traduceva la parola longobarda  come “generatio vel linea”.
In realtà il vocabolo sembra doversi ricondurre piuttosto a faran, o fahren, equivalente del latino expeditio, e va inteso quindi come indicante, etimologicamente, un distaccamento militare che si separava dal corpo della gens per partecipare a una spedizione.
Per alcuni tale struttura, disegnata su assetti tradizionali, era stata ulteriormente elaborata dai longobardi in occasione della loro militanza nell’esercito imperiale in veste di foederati e fu assunta in modo naturale nel momento della grande impresa Italia.
Pag. 37

Concettualmente la dimora del longobardo, detta con termine latino curtis, costituiva un’unità soggetta alla potestà indiscussa del capo famiglia ed era coperta da una fortissima immunità giuridica, per cui la violazione del suo recinto da parte di estranei rappresentava un reato di straordinaria gravità, punito con la massima durezza.
Chi vi faceva ingresso senza essere autorizzato e senza un valido motivo poteva essere ucciso legittimamente dai residenti.
Pag. 38

Un esempio, tra i diversi possibili, di come l’impressione fornita da un testo scritto abbia generato un’interpretazione imprecisa può essere fornito dalla vicenda di Padova, uan città di primaria importanza nel Veneto romano, che secondo Paolo Diacono sarebbe stata distrutta dalle fondamenta dal re Agilulfo, con conseguente fuga in massa dei suoi abitanti.
In realtà la fonte impiegava nella circostanza una terminologia convenzionale, letterariamente rappresentativa della violenza di un’aggressione di barbari, parlando di un centro urbano divorato dalle fiamme e “raso al suolo” per ordine del re; un esito smentito invece da differenti riscontri, dal lato archeologico alla consapevolezza che non molto tempo dopo Padova riacquistò un ruolo di primo piano negli equilibri regionali, recuperando in fretta abitanti e funzioni, come non sarebbe stato possibile se le sue strutture fossero state rovinosamente distrutte.
Più in generale, per i secoli dell’alto Medioevo, e anche al di là della sola epoca longobarda, viene ora sottoposto a revisione il concetto stesso di decadenza urbana, che si dimostra troppo palesemente condizionato dai modelli di raffronto, storici o ideali, di volta in volta assunti, soprattutto quello della città antica.
Per l’età altomedievale si preferisce adesso parlare di fenomeni di ridefinizione degli spazi urbani in ragione delle mutate esigenze  abitative del tempo, anche per il forte calo demografico complessivo, con il verificarsi di fenomeni di selezione, di trasferimento di funzioni, di cambio d’uso delle varie superfici e costruzioni, che non appaiono più interpretabili come casi di semplice abbandono e di regresso.
Il confronto sistematico fra le testimonianze scritte e quelle archeologiche, inoltre, denuncia la difficoltà, e al contempo la necessità, di utilizzare dati per loro natura disomogenei, che spostano continuamente l’analisi per il tema qui considerato dal piano delle rappresentazioni culturali e dei modi di sentire e descrivere a quello delle concrete strutture materiali e della loro evidenza oggettiva.
Pag. 40

Con l’avanzare del processo di romanizzazione e di cristianizzazione, che iniziò molto presto, già nel secolo 7. le tombe longobarde risultano indistinguibili con sicurezza da quelle della popolazione romana (l’unico indicatore certo resta l’eventuale presenza di armi), fino alla totale scomparsa dei corredi, come detto, alla fine del secolo.
Pag. 41

In ogni caso, la sovrapposizione dei diversi indicatori permette di tracciare una carta che mostra una maggiore densità insediativa per il regno lungo tutta la valle del Po, nella valle dell’Adige, strategicamente rilevante, in Friuli e nei territori di particolari ducati quelli di Verona, Trento, Brescia, Reggio Emilia, Torino.
Al di fuori del regno, siti importanti si trovano nei ducati di Spoleto (Castel Trosino, Nocera Umbra) e id Benevento.
Pag. 42

Cap. 5. La costruzione del regno

Durante Il regno di Agilulfo (591-615) e della sua consorte Teodolinda si ebbe un primo consapevole, anche se faticoso, tentativo da parte dei monarchi longobardi di connotare il proprio potere in termini che trascendessero la sola tradizione della stirpe, facendo ricorso pure al bagaglio concettuale e lessicale proprio del modello ellenistico-cristiano della sovranità imperiale.
La ricerca di moduli teorici e “propagandistici” estranei ai valori radicati nella storia e nel mito della gens Langobardorum rispondeva a una duplice esigenza: per un verso quella di emanciparsi, quanto più possibile, dal condizionamento posto dall’assemblea del populus-exercitus, cioè in sostanza dall’aristocrazia di stirpe, depositaria di ogni fonte del potere; dall’altra parte quella di superare una caratterizzazione solo etnica dell’autorità regia, alla ricerca, piuttosto, di una sua definizione territoriale, capace di renderla accettabile anche dai sudditi romani.
Così, ad esempio, nella corona del tesoro del duomo di Monza appariva inciso il titolo di rex totius Italiae anziché quello di rex Langobardorum e il figlio ed erede di Agilulfo, Adaloaldo, venne battezzato nella chiesa di San Giovanni a Monza e poi incoronato all’interno del circo di Milano con uan cerimonia dal forte simbolismo d’imitazione imperiale, dato che il circo nella tradizione romana (e così pure a Bisanzio) si configurava come luogo non solo di spettacoli e gare ma anche di espressione di una specifica comunicazione politica, celebrando l’incontro ritualizzato fra il princeps che compariva nella tribuna a lui riservata tra i simboli del potere e il popolo acclamante assiso sugli spalti.
L’avvicinamento ai romani durante l’età di Agilulfo, nello sforzo di definire su basi più ampie e solide l’autorità regia, si manifestò pure nella ricerca della collaborazione di consiglieri romani, che restano, come detto, poco individuabili, eccetto l’ecclesiastico Secondo di Non, padre spirituale di Teodolinda.
Pag. 45-46

Lo sviluppo della monarchia longobarda nel corso di tutto il secolo 7. fu segnato da un processo di graduale, seppur contrastato, consolidamento della potestas del re, che avvenne attraverso strumenti quali un più sicuro controllo militare del territorio, all’interno e verso l’esterno, l’accentuazione della tendenza all’ereditarietà della carica in senso dinastico (comunque mai raggiunta), in sostituzione dell’antica consuetudine dell’idoneità personale, tramite conquista militare del potere o legittimazione mediante il matrimonio con la vedova o una figlia del predecessore, l’incremento del patrimonio regio, potenziato anche dalle misure di legge che rendevano il fisco regio destinatario  di una quota rilevante delle composizioni, cioè delle somme di indennizzo previste per una vasta serie di reati.
Pag. 48

Tuttavia, se simili coloriture letterarie condizionano il modo di raccontare una vicenda, dando spazio anche a elaborazioni di fantasia, non escludono alcuni elementi concreti: in primo luogo il fatto che durante i due secoli di vita del regno longobardo in Italia le lotte di palazzo, combattute entro la corte, e la costituzione violenta di un re in carica con un nuovo monarca non furono certo rare; inoltre, l’impressione che l’insistenza su una siffatta maniera di rappresentare i conflitti a corte rispondesse a una percezione diffusa, condivisa da chi scriveva e dal pubblico dei lettori, di quali fossero i modi e i luoghi di espressione della lotta politica.
La corte, insomma, era vista non solo come la struttura di sostegno e la sede d’esercizio dell’autorità del re, ma anche come il principale teatro dello scontro per il potere.
Pag. 57

Gli anni di governo del re Rotari (636-652) costituirono un momento di particolare significato nell’opera di consolidamento territoriale e politico del regno.
Innanzitutto egli dimostrò di saper imporre con la forza la disciplina ai duchi più irrequieti; inoltre, si rese protagonista della campagna militare contro i bizantini più impegnativa e fortunata dai tempi di Agilulfo, strappando territori all’impero sia a ovest, con la conquista della costa ligure, sia a est, dove l’avanzata nel cuore del Veneto respinse gli imperiali nella regione entro il solo ambito lagunare, scacciandoli dalla terraferma.
In seguito alle operazioni condotte da Rotari trovò uan sistemazione più netta e stabile l’assetto geopolitico della penisola italiana, già delineatosi nei suoi tratti essenziali all’indomani dell’invasione.
A circa settantacinque anni da questa, l’Italia risultava sostanzialmente bipartita in modo più omogeneo fra la dominazione longobarda e quella imperiale, con la prima che si estendeva su quasi tutto il nord e la Toscana (cioè il regno propriamente inteso), oltre ai ducati autonomi di Spoleto e di Benevento, e la seconda che comprendeva, da nord a sud, le lagune venetiche, Ravenna e la regione esarcale, la Pentapoli (nelle odierne Marche) con il corridoio di castelli appenninici che portava a Roma e la porzione del Mezzogiorno esterna al ducato beneventano (vale a dire, tratti delle coste campana, con Napoli e Amalfi, e pugliese, specie nel Salento, la Calabria meridionale e la Sicilia).
Rispetto all’epoca ostrogota, durante la quale l’intero territorio della penisola aveva conosciuto un governo unitario, così come era accaduto già in età romana, con i longobardi si verificò uan frantumazione politica che era destinata a incrementarsi e a perpetuarsi fino al risorgimento e all’unità nazionale sotto i Savoia nel 19. secolo.
Va tuttavia tenuto presente che i confini tra le regioni longobarde e quelle imperiali, in ambiti quali quello veneto, quello emiliano-romagnolo, quello umbro-marchigiano-laziale, una volta superate le contingenze di emergenza militare ebbero un carattere di sostanziale permeabilità, lasciando ampio spazio alle frequentazioni tra gli uomini delle due parti e ai flussi di merci e di modelli culturali.
Come emerge sempre più dalle ricerche in corso sull’argomento, le frontiere dell’Italia altomedievale non funzionarono affatto quali barriere capaci di separare in modo rigido le dominazioni diverse, ma figurarono piuttosto come fasce di territorio fluide e indeterminate, anche per la scarsa capacità di un loro controllo puntuale, anche per la scarsa capacità di un loro controllo puntuale, aperte agli scambi e pronte, in taluni casi, a proporsi addirittura come tessuto connettivo tra realtà politicamente distinte ma socialmente ed economicamente assai vicine.
Le fonti serbano traccia, per esempio, di patti, nell’area veneta, che consentivano agli allevatori di ciascuno die due lati del confine di attraversarlo per portare su pascoli migliori le proprie bestie.
I rapporti economici attraverso la frontiera vennero proibiti per legge solo durante la guerra, come fece Astolfo in concomitanza con la sua campagna militare contro l’esarcato.
Tutto ciò non significa che non ci fosse affatto lo scrupolo di proteggere il confine da ingressi indesiderati: le leggi prescrivevano che chi entrava in Italia dal regno dei franchi per recarsi in pellegrinaggio a Roma, lungo l’itinerario della futura via Francigena, doveva munirsi di un lasciapassare da mostrare a ogni richiesta lungo il cammino.
Chi violava la frontiera per spiare, o chi faceva entrare le spie da oltre confine, era colpito da durissime sanzioni.
Particolarmente tutelati erano i delicatissimi valichi alpini, porta d’accesso all’Italia per ogni invasore passato e futuro (longobardi inclusi).
Lungo la catena alpina i longobardi riutilizzarono il sistema di chiuse già introdotto dai romani e sfruttato dai romani e sfruttato dai goti, che aveva il compito di serrare le vie d’accesso sui passi montani, controllando gli ingressi e, in caso di invasione, cercando di rallentare l’avanzata del nemico dando il tempo agli eserciti stanziati nella pianura retrostante di preparare le difese.
Fu proprio violando una chiusa alpina nella Val di Susa che Carlo magno nel 774 penetrò nel regno, fino a prendere Pavia.
Pag. 62

Le leggi raccolte nell’Editto si applicarono inizialmente ai soli longobardi, mentre i romani del regno continuarono a regolarsi secondo il proprio diritto.
Si può immaginare che, come con gli ostrogoti, particolarmente delicate dovessero risultare le cause miste, sempre più frequenti nel corso del tempo con l’incremento dei rapporti tra i due gruppi etnici, incerte nella loro risoluzione ed esposte a possibili arbitrii da parte della stirpe dominante.
L’ingresso dei romani nell’esercito e di conseguenza nel ceto dirigente, concomitante con la ridefinizione su base non più etnica dell’intera società del regno, condusse però nel secolo 8. all'estensione della validità dell’Editto anche ai romani, con carattere territoriale.
Ciò non significò peraltro l’uniformità giuridica piena, dal momento che continuarono a coesistere nel territorio del regno altri sistemi normativi, tra cui quello romano, che restava il diritto del clero.
Pag. 65

A partire dal 666 si verificò pure l’ultimo deciso tentativo da parte bizantina di rientrare in possesso di almeno una parte dei territori italiani occupati dai longobardi, allorquando lo stesso imperatore Costanzo 2. sbarcò in Puglia e mise sotto assedio Benevento.
Le scarse risorse militari e finanziarie su sui il princeps poteva contare e le pronta reazione del re Grimoaldo, che scese subito nel suo ex ducato alla testa di un forte esercito, costrinsero Costante a riparare dapprima a Napoli, poi a Roma e infine a Siracusa, dove fu assassinato da un uomo del suo seguito nel 668.
Il fallimento del tentativo di Costante confermò come per l’Impero fosse ormai impossibile sperare di riprendersi le regioni perdute in Italia, dovendo accontentarsi piuttosto solo di puntellare i residui possessi, sparsi dal nord al sud specie lungo le coste, che a loro volta si governavano con crescenti margini di autonomia da Costantinopoli.
Un ulteriore fattore della politica dei re longobardi del 7. secolo fu la loro ricerca di un nuovo atteggiamento nei riguardi della chiesa cattolica, non solo, com’è comprensibile, da parte dei monarchi che abbracciarono il cattolicesimo nella seconda metà del secolo, quali Ariperto (653-661), Pertarito (671-688), ma perfino a opera di alcuni loro predecessori ariani, come Arioaldo (625-636).
Una simile attenzione si rese concreta nel susseguirsi di fondazioni di nuove chiese e monasteri per iniziativa regia, oltre che nella protezione loro accordata, fino alla sconfessione ufficiale dell’arianesimo con Ariperto, che guadagnò ai re longobardi la piena solidarietà delle istituzioni episcopali e monastiche, prospettando nuove forme di collaborazione istituzionale.
Pag. 66-67

Cap. 6. L’ottavo secolo: apogeo e rovina

L’ottavo secolo fu decisivo nel perfezionare i diversi processi di trasformazione della società longobarda e di consolidamento delle istituzioni del regno che erano in atto da tempo, giungendo alla definizione di assetti inediti e originali.
Contemporaneamente, un repentino mutamento del quadro politico generale, in termini di buona misura imprevedibili, ebbe quale esito una brusca svolta, l’alleanza in funzione anti longobarda tra il papato e il regno dei franchi, che portò infine, nel 774, alla conquista del regnum Langobardorum da parte del franco Carlo.
Pag. 69

Lo sforzo di consolidamento del potere regio nel corso del secolo ottavo si espresse, in larga misura, oltre che in termini di elaborazione concettuale e nel nuovo rapporto con la chiesa, per mezzo di un’opera che mirava al contempo a creare strutture burocratiche più efficienti e centralizzate e a disciplinare, con la forza o con altri mezzi di controllo politico, le solite spinte centrifughe locali, mai sopite.
Il palazzo di Pavia venne sempre più concepito come un centro amministrativo e id governo, secondo il modello romano, nel quale operavano uffici di cancelleria progressivamente strutturati, che facevano ricorso alla documentazione scritta in precedenza assai poco utilizzata dai longobardi.
Ora le carte venivano prodotte, conservate e sfruttate in misura crescente, anche come prova nei processi.
I vari ufficiali pubblici, centrali o periferici, tendevano ad avere profili definiti e mansioni precise, anche se non è certo possibile pensare a una gerarchia ordinata che rispecchiasse il rigore di quella romano-imperiale o bizantina.
Malgrado l’indiscutibile volontà ordinatrice della monarchia e l’immagine di una qualche coerenza che emerge soprattutto dalle fonti normative, la verifica delle situazioni concrete che si può realizzare attraverso i documenti mostra, al contrario, un quadro ricco di asimmetrie, sovrapposizioni, buchi e apparenti contraddizioni, che non costituiscono un’anomalia rispetto a una piramide ben ordinata che è solo immaginaria (e che costituirebbe un anacronismo, per le condizioni dell’epoca), ma che denunciano piuttosto l’inevitabile natura sperimentale di realizzazioni graduali e non da tutti condivise.
Pag. 76-77

Simili forme di controllo rimanevano, però, pur sempre deboli, consentendo alle aristocrazie locali di continuare a perseguire le proprie strategie, con sufficiente libertà d’azione e spiccata empiria, giocando sugli equilibri politici generali in continua evoluzione, con il crescente ruolo svolto, accanto all’impero, dal papato; e mantenendo come obiettivo di fondo la salvaguardia dei propri interessi personali e della propria identità.
Esemplare risulta al riguardo, tra gli altri casi, la condotta tenuta nell’ultimo, convulso, trentennio di vita del regno longobardo in Italia dai beneventani e dagli spoletini, che alternativamente si collocarono al fianco dei re pavesi oppure fecero riferimento, all’opposto, al nascente asse franco-pontificio.
In uan tale prospettiva non deve sorprendere quindi se, mentre nel 756 i longobardi di Benevento avevano preso parte all’assedio di Roma insieme con il re Astolfo, appena due anni più tardi venivano presentati, nelle parole rivolte dal papa Paolo 1. al re franco Pipino, quali ottimi alleati su cui poter contare contro Pavia, tanto da lamentare l’aggressione contro Benevento compiuta dal nuovo re Desiderio, che aveva imposto al vertice del ducato un proprio fedele.
Pag. 79

Le emergenze per Bisanzio erano allora costituite piuttosto dal dilagare in oriente degli arabi, accelerato dal collasso dell’Impero sassanide avvenuto nel secolo precedente, e dalla pressione nei Balcani di bulgari e slavi, che portavano una minaccia diretta alla stessa capitale.
Per queste ragioni l’investimento di risorse finanziarie e militari in Italia dovette necessariamente essere ridotto al minimo, lasciando l’incombenza di fronteggiare i longobardi alle realtà bizantine locali, le quali, da parte loro, pur se continuavano a riconoscersi politicamente nell’impero, avvertivano ormai in maniera evidente tutta la propria lontananza dal cuore dello stesso e vivevano in uno stato di sempre più spinta autonomia di fatto.
Pag. 80

Il crollo dell’esarcato, rimuovendo l’estremo cuneo imperiale nel cuore dell’Italia longobarda, lasciò campo aperto a evoluzioni ulteriori dagli esiti potenzialmente ancor più radicali: il regno aveva ora l’opportunità di estendersi a tutta la penisola, inglobando al proprio interno la stessa Roma.
Agli occhi dei papi non rappresentavano affatto garanzie rassicuranti al fede cattolica dei re longobardi e la loro pretesa di proporsi addirittura quali difensori della chiesa.
La soddisfazione per le cessioni al patrimonio di San Pietro effettuate da Ariperto e da Liutprando non bilanciava, nel racconto del Liber Pontificalis romano, l’angoscia per lo stringersi del cappio longobardo attorno a Roma, con uno stillicidio di occupazioni di città e di castelli.
Viva era la memoria di come Liutprando, nella sua campagna contro Spoleto e Benevento, avesse potuto agevolmente accamparsi nella piana compresa tra il Tevere, il Vaticano e Monte Mario, minacciando i romani e venendo placato solo dall’intervento del papa, in conformità con il solito paradigma introdotto da Leone con Attila e rinnovato da Gregorio Magno con Agilulfo.
Pag. 81

Di fronte alla crescente minaccia longobarda, constatata la debolezza di Bisanzio con cui si era oltretutto in urto sul culto delle icone, ai papi non era rimasto allora che cercare l’aiuto dell’unico interlocutore presente sulla scena che apparisse in grado di soccorrerli in maniera efficace; vale a dire il regno dei franchi, nel quale il maestro di palazzo di Austrasia Pipino il Breve aveva da poco soppiantato la dinastia dei Merovingi.
Da costui, a Ponthion, si era recato personalmente il papa Stefano 2., nel 754, per sollecitare un intervento dei franchi in Italia, allo scopo di strappare ai longobardi tutti i territori già appartenuti all’esarcato e di affidarli alla chiesa di Roma, che si proponeva ormai come la sostituta dell’impero in Italia nella rappresentanza e nella tutela delle popolazioni romane.
Quest’ultimo attributo rivestiva a quest’epoca un’accezione meramente politica, cioè identificava coloro che abitavano province già imperiali da poco occupate dai longobardi, come l’esarcato e la Pentapoli, per contro al regno longobardo propriamente inteso, e non aveva dunque più alcuna connotazione etnica, dal momento che, coem si è detto, gli stessi “longobardi” del tempo erano in realtà un ceto dirigente etnicamente misto.
Pag. 83

Peraltro, a differenza di quanto era occorso in Italia con la breve parentesi ostrogota, con i longobardi si ebbe la genesi di una nuova società e di una nuova cultura, almeno in un’assai ampia porzione del paese.
La conclusione del regno longobardo non ebbe un carattere di inevitabilità nei modi in cui si svolse, ma scaturì piuttosto dalla combinazione di fattori contingenti, per il precipitare di fenomeni di larga scala che andavano maturando da tempo ma che conobbero d’un tratto accelerazioni improvvise e svolte imprevedibili.
Si combinarono insieme, nel giro di pochi decenni, l’impossibilità per il papato di superare l’antica diffidenza politica e la sostanziale estraneità culturale verso i longobardi, malgrado la loro conversione al cattolicesimo, il definitivo disimpegno dall’Italia dell’Impero bizantino, che si accompagnava al processo di crescente divaricazione politica e culturale fra le sue province italiche e il suo baricentro greco-orientale, l’improvvisa saldatura d’interessi fra Roma e la dinastia franca dei Pipinidi, bisognosa a sua volta della legittimazione dei pontefici per giustificare la propria presa del potere violenta a danno dei Merovingi.
Pag. 85

Le diverse parti della penisola italiana si trovarono dunque sottoposte, in seguito all’avvento dei franchi, a dominazioni politiche distinte, con il nord assorbito nella sfera carolingia e il sud ripartito fra longobardi e bizantini (prima dell’ulteriore sopraggiungere degli arabi in Sicilia), venendo così a far riferimento ad ambiti anche culturali distinti.
Tutto ciò, comunque, non impedì affatto gli scambi e gli incroci di esperienze e modelli istituzionali, sociali, economici e culturali di diversa matrice, a formare un quadro d’insieme particolarmente ricco e fertile.
Pag. 86


Cap. 7. Il Ducato di Spoleto

Se in momenti del genere non mancarono motivi di contrasto tra i papi e i duchi di Spoleto, è anche vero, a riprova dell’estrema fluidità degli schieramenti in campo, che nello stesso giro di anni gli spoletini intervennero in armi al Ponte Salario, con altri longobardi delle regioni limitrofe e a fianco dei cittadini romani, per difendere il papa Gregorio Secondo dal tentativo di cattura messo in atto dalle forze imperiali, decise a costringerlo ad accettare i decreti iconoclastici.
E, da qualche tempo dopo , lo stesso Transamondo, cioè colui che aveva aggredito Gallese, e che aveva giurato fedeltà al re Liutprando attorno al 729, riparò a Roma, ponendosi sotto la protezione del  pontefice Gregorio Terzo e del duca di Roma Stefano, quando Liutprando marciò su Spoleto per imporre al vertice dei ducato un proprio uomo, do nome Ilderico.
Pag. 90-91

Nel momento del collasso del regno dei longobardi e della sua conquista per mano del franco Carlo, mentre il duca di Benevento Arechi si autoproclamava erede della tradizione politica autonoma dei longobardi assumendo il titolo di princeps e garantendo l’indipendenza della sua gente, le aristocrazie spoletine, preoccupate piuttosto di salvaguardare la propria egemonia sociale e politica locale, non trovarono altra soluzione che quella di individuare nel papato romano il proprio termine di riferimento e di garanzia.
Si trattò di una scelta che, se in buona sostanza, risultava priva di alternative in quella specifica contingenza, era tutt’altro che nuova nella condotta dei longobardi di Spoleto, i quali a più riprese nel corso del secolo ottavo si erano rivolti a Roma quando avevano voluto controbilanciare la montante pressione dei re di Pavia, in un gioco di equilibri sempre precari, ridefiniti volta per volta.
Alla fine del 775 Ildeprando di Spoleto  si sganciò dall’alta protezione del papa, che pure egli stesso aveva ricercato, per subordinarsi direttamente alla potestà del nuovo dominatore Carlo.
I missi del re franco ricevettero i sacramenta del duca longobardo.
Solo nel 781 il papa avrebbe formalmente rinunciato a Spoleto in cambio di una porzione della Sabina, il cosiddetto patrimonium Sabinense, il cui scorporo danneggiò non poco sul piano economico diversi individui eminenti del ducato spoletino, che vi avevano loro proprietà.
Nel 779 Liutprando si recò di persona da Carlo a Vircinianum (Verzenay, vicino a Reims) per ribadire la propria fedeltà al sovrano.
Con questo atto il vecchio ducato longobardo di Spoleto cessò la propria esistenza autonoma, sempre difesa in passato con tenacia e a ogni costo, seppur con fortune alterne, di fronte ai re longobardi di Pavia, per sottomettersi al potere dei franchi e inserirsi nel nuovo ordine politico e istituzionale carolingio.
Pag. 94

Cap. 8. La “Langobardia” meridionale

Con Grimoaldo si ebbe forse un’opportunità di più piena integrazione territoriale di tutta l’Italia longobarda, compresi cioè i due ducati autonomi di Spoleto e di Benevento, ma essa non venne colta e svanì del tutto con la sua morte per un incidente di caccia e l’ascesa al trono dell’esule Pertarito.
In questa vicenda si espressero ancora una volta i cronici antagonismo tra i diversi schieramenti dell’aristocrazia, un blocco friulano legato a Benevento da una parte e uno occidentale (sostenitore di Pertarito), lungo l’asse Pavia-Asti, dall’altra, che sempre impedirono un assetto per davvero unitario del potere longobardo e un pieno rafforzamento in senso dinastico della carica regia.
Tra la fine del secolo settimo e gli anni Trenta dell’ottavo alcuni duchi di Benevento, Romualdo 1., Gisulfo 1. e Romualdo 2., aumentarono la superficie del ducato conquistandosi Brindisi e Taranto, sottoponendo quindi alla propria autorità quasi tutta la Puglia, e avanzando nel Lazio, fino alla valle del Liri.
Da questo momenti i bizantini si accontentarono di difendere il poco che loro rimaneva (Napoli e le costiere sorrentina e amalfitana, il Salento, la Calabria meridionale) e non costituirono più una minaccia per i duchi, i quali dovettero piuttosto guardarsi dalle pretese dei vari re longobardi, a cominciare da Liutprando e fino a Desiderio, di portare Benevento sotto il loro diretto controllo.
Pag. 96-97

Contro la nuova realtà longobarda del Mezzogiorno si appuntò subito l’ostilità dei pontefici, che stimolarono Carlo magno a condurre una spedizione al sud nel 786/787.
Arechi si asserragliò subito a Salerno e convinse il franco a ritirarsi dopo averne riconosciuto la sovranità e avergli concesso un tributo e dato in ostaggio il proprio figlio di nome Grimoaldo.
Allo stesso tempo però Arechi riallacciò i rapporti con Costantinopoli, cui promise fedeltà: s’inaugurò allora una lunga stagione in cui Benevento per salvaguardare la propria indipendenza dovette giocare costantemente su due sponde, barcamenandosi tra i due grandi imperi con spregiudicato pragmatismo.
Pag. 99

Una nuova fase della vicenda storica della Longobardia meridionale, ormai tripartita fra Benevento, Salerno e Capua, si aprì in seguito alla morte di Ludovico 2., nell’975, e all’affievolirsi dell’ascendente carolingio sul mezzogiorno d’Italia, dopo anni di assidua presenza e pure di collaborazione con i longobardi in funzione anti saracena.
Gli arabi erano diventati un problema per l’Italia meridionale almeno dalla metà del 9. secolo, quando, dopo aver militato come mercenari per i principi longobardi in lotta fra loro, avevano preso ad agire in proprio, razziando diffusamente e anche conquistando una città dell’importanza di Bari, che era stata ordinata in emirato.
Ludovico 2. aveva condotto diverse spedizioni anti saracene nel Mezzogiorno, con il sostegno dei longobardi, anche se alla fine, entrato in urto con loro, era stato tenuto prigioniero per quaranta giorni a Benevento.
Il vuoto politico lasciato nel sud dai Carolingi nell’ultimo quarto del 9. secolo fu colmato da Bisanzio, cui allora soprattutto le città pugliesi si rivolsero per essere protette dalla costante minaccia araba.
Tra l’881 e l’883 i saraceni avevano razziato anche i due grandi monasteri di San Vincenzo al Volturno e Montecassino.
La flotta di Costantinopoli riuscì allora a riprendere il controllo di numerosi centri costieri in Puglia (tra cui Taranto) e in Calabria, mentre truppe di terra dell’impero aiutarono Guaimario 1. di Salerno contro la roccaforte di Agropoli.
Pag. 102-3

Nella seconda metà del 10. Secolo, un mutamento del quadro internazionale, con l’affermazione in Occidente della dinastia imperiale ottoniana, e il conseguente ennesimo riposizionarsi dei longobardi meridionali a fianco degli imperatori germanici e contro Bisanzio, coincise con al massima espansione dell’egemonia capuana sull’intero Mezzogiorno longobardo, grazie all’azione di Pandolfo Capodiferro (961-981).
Resosi longa manus di Ottone nell’Italia del sud, Pandolfo compattò sotto il proprio controllo tutta la Langobardia, non solo acquisendo Salerno, ma anche limitando l’influenza dei pontefici romani tramite la creazione delle metropoli ecclesiastiche di Capua e di Benevento.
Le chiede del Mezzogiorno, prima incardinate direttamente alla Sede di Roma, trovarono ora un termine di riferimento negli episcopati che coincidevano con le città principesche e che erano magari retti da congiunti del principe stesso (come Giovanni, fratello di Pandolfo, imposto come presule di Capua).
Dopo che Ottone ebbe concesso al fedelissimo Pandolfo anche il ducato di Spoleto (che rimase ai capuani-beneventani fino al 982) e la marca di Camerino, il longobardo si trovò a essere il signore più potente di tutta l’Italia centro-meridionale.
Peraltro nemmeno l’energica opera accentratrice di Pandolfo, abile nello sfruttare la congiuntura internazionale a proprio favore, riuscì a contrastare le spinte autonomistiche dal tempo in atto e negli anni 981-982 anche i principati tornarono a separarsi.
Con la sua morte, infatti, la sua vasta creazione politico-territoriale unitaria andò in frantumi: sia a Salerno sia a Benevento i suoi eredi designati furono cacciati e sostituiti da esponenti locali e la stessa Spoleto fu consegnata a Transamondo 3., il figlio del conte di Chieti.
Pag. 104-5

La vera novità del quadro italo-meridionale del tempo era tuttavia data dalla comparsa sulla scena di un protagonista destinato ben presto a far saltare ogni equilibrio e a provocare la rovina finale dei longobardi.
Dalla fine del 10. secolo cavalieri normanni erano stati reclutati dai vari principi longobardi per essere impiegati come mercenari nelle incessanti guerre intestine ai due principati e al ducato capuano e contro i bizantini.
I normanni avevano combattuto al soldo di tutti ma avevano poi assunto iniziative autonome, consapevoli sia delle grandi ricchezze e quindi delle opportunità di bottino che il Mezzogiorno, malgrado tutto, offriva sia della debolezza militare e politica dei loro stessi reclutatori.
Soprattutto dopo la vittoria da loro riportata sugli eserciti del papa a Civitate nel 1053 e l’immediatamente successiva alleanza con la chiesa di Roma, ai normanni si offriva l’opportunità di procedere alla conquista di un sud che, dissanguato dalle ripetute guerre e indebolito dalla frammentazione politica, appariva ormai alla loro mercé.
Capua cadde nelle loro mani nel 1057, quando ottenne il controllo della città il conte normanno Riccardo di Aversa.
A Benevento nel 1053 il principe Landolfo 6. si sottomise al papa Gregorio 7., portando a definitiva realizzazione un orientamento già delineatosi da almeno un ventennio.
La città, originaria sede del ducato longobardo e cuore dell’intera Langobardia meridionale, passò così sotto il dominio diretto della chiesa di Roma, che la governò tramite rettori scelti tra il patriziato locale.
L’ultima a cedere fu Salerno, difesa fino al 1076 da Gisulfo 2., ma infine, rimasta ormai isolata, costretta ad arrendersi nelle mani di Roberto il Guiscardo, che l’affidò al figlio, il duca Ruggero Borsa
Pag. 103

Cap. 9. I longobardi nella storia d’Italia

Il periodo della storia d’Italia compreso tra la fine dell’Impero romano d’Occidente nel 476 e la conquista delle regioni centro-settentrionali della penisola già appartenute al Regno dei longobardi a opera di Carlo Magno nel 774 ha tradizionalmente goduto nel suo complesso di un limitato interesse storiografico e di una valutazione nella sostanza negativa, in quanto bollato come un’epoca non solo di generale declino nei diversi campi delle istituzioni, dell’economia, delle strutture sociali, della cultura, rispetto al precedente della Roma imperiale, ma anche di arretratezza in confronto alle posteriori e più significative realizzazioni originali del Medioevo italiano, dalla civiltà comunale fino allo splendore dell’Umanesimo e del Rinascimento.
L’arco cronologico che comprese il breve governo del capo barbaro Odoacre, il regno dei goti fondato da Teodorico l’Amalo e il più lungo regno dei longobardi (cioè, in totale, dall’anno 476 all’anno 774), con la minima parentesi della restaurazione del potere imperiale per iniziativa di Giustiniano tra il 554 e il 568, destinata a perpetrarsi in seguito solo in alcune regioni della penisola, è stato, insomma, a lungo ridotto a cupo intervallo nel fluire della storia patria, a una vera e propria “epoca buia”, esito dell’”assassinio” della civiltà romana per mano dei barbari invasori, incapaci di costruirne uan nuova e di lasciare alcuna eredità significativa ai secoli successivi.
Solo una volta superato tale diaframma la vicenda storica della penisola avrebbe ripreso a scorrere verso nuovi brillanti risultati, frutto anche della riscoperta dell’eredità classica in età umanistica.
Una simile lettura dell’alto Medioevo “barbarico” dell’Italia è stata innanzitutto influenzata, in misura determinante, dal pregiudizio circa l’indiscussa eccellenza dell’antichità romana, in senso quasi più assoluto che storicamente  determinato, spesso considerata quale fondamento della tradizione italiana più autentica.
Basti pensare, a questo proposito, all’esaltazione della  classicità romana compiuta dal fascismo, pronto a indicare una pretesa linea di continuità diretta, perfino in termini razziali, fra gli antichi romani e gli italiani del secolo 20. e fra la politica, estera e interna, della Roma imperiale e quella del regime di Mussolini.
Inoltre, la riluttanza a formulare un giudizio obiettivo, scientifico, sull’età delle dominazioni barbare è stata conseguenza anche della singolare capacità di quei secoli di prestarsi a letture impropriamente attualizzanti: immediata è risultata infatti la creazione di un parallelismo più o meno consapevole tra l’”assoggettamento” degli italici dei secoli 5.-8. a stirpi “germaniche” quali quelle dei goti o dei longobardi e la subordinazione politica di buona parte dell’Italia agli austriaci nel secolo 19. o all’occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale.
In questo quadro d’insieme, il periodo longobardo, con tutte le complicazioni che presentò (il rapporto fra un’etnia immigrata dominante e una maggioranza romana politicamente subordinata, la bipartizione politica della penisola tra le regioni occupate dai nuovi arrivati e quelle rimaste all’impero, dopo lunghi secoli di unità, l’assunzione di un ruolo politico da parte del papato,  a difesa dei valori della romanità cristiana), da sempre si è prestato a deformazioni di prospettiva e di giudizio.
Ben nota è la lettura che ne è stata fatta durante il Risorgimento negli ambienti cattolico-liberali antiasburgici, immortalata in letteratura dalla tragedia di Alessandro Manzoni Adelchi, ambientata per l’appunto nell’Italia longobarda: l’asserita, ma in realtà inesistente, schiavitù dei romani sotto il giogo degli “occupanti” longobardi simboleggiava la sottomissione degli italiani del 19. secolo al potere della casa d’Asburgo.
Analogamente, in pieno Novecento gli echi della drammatica occupazione tedesca hanno indotto molti storici a respingere il contributo alla costruzione dell’identità italiana di un “popolo giovane” quale poteva essere etichettato quello longobardo sulla scia della repulsione per le teorie razziste del nazismo.
Non sono mancate nel tempo anche forme di rivalutazione della vicenda longobarda che rappresentarono attualizzazioni di segno opposto rispetto a quelle elencate in precedenza, ma che pure risultano altrettanto criticamente infondate.
Così Niccolò Machiavelli poté scorgere nella fine del regno dei longobardi per iniziativa dei papi e dei loro alleati franchi l’”occasione mancata” di una possibile unificazione politica della penisola sotto i re longobardi, nonché il primo episodio della per lui biasimevole prassi, costante nella storia d’Italia, di far intervenire gli stranieri (qui, i franchi) nella contesa politica nazionale.
Dal canto loro, gli illuministi dimostrarono di apprezzare molto l’azione da loro attribuita ai longobardi contro la chiesa (o, meglio, contro il papato) e le sue ingerenze temporali.
Insomma, siano stati visti come i potenziali artefici di un regno “italiano” unitario e i paladini di un’opposizione alla “prepotenza” pontificia, oppure, al contrario, come un corpo estraneo rispetto all’identità nazionale, mai assimilato e infine rimosso proprio dalla chiesa,  vera custode della tradizione romano-cristiana, e comunque percepiti sempre come rozzi al cospetto di una civiltà incomparabilmente superiore, i longobardi hanno di rado beneficiato di un’analisi che non fosse condizionata da tesi precostituite.
Le eccezioni in passato sono state scarse e si possono osservare soprattutto nel grande sforzo storiografico compiuto dal pioniere della longobardistica italiana, Gian Piero Bognetti, di proiettare la vicenda longobarda su uno sfondo più ampio della sola storia nazionale, quale incontro di civiltà su dimensioni europeo-mediterranee.
Oggi sul piano della ricerca scientifica l’attenzione per i secoli “barbari” della storia d’Italia appare più viva ed è contraddistinta da nuovi approcci epistemologici e metodologici, in gran parte interdisciplinari, coinvolgendo anche diversi studiosi stranieri (mentre gli altomedievalisti italiani restano nel complesso pochi).
A tutto questo concorrono sia una prospettiva più generalmente europea della ricerca, capace di scavalcare nello studio del passato i confini geopolitici attuali emancipandosi dalla pura storia nazionale, sia un miglior incrocio di fonti di natura diversa e di differenti specialismi.
Appare soprattutto importante la propensione ad adottare una nuova periodizzazione capace di abbattere lo steccato convenzionale tra l’età classica e il Medioevo, per considerare piuttosto una lunga epoca di transizione fra il mondo antico e quello medievale in cui le trasformazioni, le persistenze, le radicali innovazioni vengono ricostruite e valutate sui tempi lunghi, al di fuori degli stereotipi del tipo “continuità/decadenza”.
Con approcci di tal genere si svuotano di significato le vecchie classificazioni e convenzioni e si può rinnovare in profondità la ricerca, recuperando al grande fluire della storia d’Italia anche l’esperienza longobarda, senza pregiudizi di sorta.
Negli ultimi decenni in Italia uan rinnovata attenzione per i longobardi sembra testimoniata anche dal buon successo riportato presso un pubblico più vasto di quello dei soli specialisti di diverse mostre e iniziative loro dedicate, spesso anche con realizzazioni su scala locale e di piccola entità, o con espliciti fini didattici e divulgativi, a cominciare dalla grande mostra tenutasi in Friuli, tra Cividale e Passariano, nel 1990.
In questo fenomeno talora giocano anche, accanto alle più serie motivazioni scientifiche, facili mode pseudo-culturali o perfino qualche strumentalizzazione politica, per esempio quando si vogliono individuare asserite componenti “germaniche” delle regioni dell’Italia settentrionale per contro a quelle “romane” del centro-sud nel tentativo di contrapporre un’area settentrionale sviluppata perché parte integrante dell’Europa continentale, anche in forza di tali sue pretese radici etniche, a una meridionale, “naturalmente” appartenente a un contesto mediterraneo più arretrato.
Qualche volta la dicotomia fra origini “longobarde” e “romano-bizantine” si esprime anche nel gioco della contrapposizione di campanile, per esempio tra l’Emilia “longobarda” e la Romagna “esarcale”, o, al sud, tra le “longobardissime” Benevento e Salerno e la “bizantina” Napoli.
Contro le perduranti tendenze a una qualche distorsione (o banalizzazione) dei dati storici appare auspicabile non solo l’ulteriore intensificarsi della ricerca scientifica (con il sistematico incrocio tra il dato archeologico e le fonti scritte) ma anche un’opera di corretta divulgazione storica da parte degli studiosi professionisti, secondo un modello soprattutto anglosassone che in Italia è assai poco seguito.
A smentire ogni sovrastima del peso e della distribuzione delle componenti  etniche “germaniche” nella miscela dell’Italia odierna, basti poi rammentare, in primo luogo, come le stirpi barbare immigrate nella penisola, anche se acquisirono il predominio politico come i goti e i longobardi, costituirono pur sempre un’infima minoranza quantitativa rispetto alla massa della popolazione romana.
Inoltre, se il regno longobardo propriamente inteso occupò le regioni del centro-nord, si deve tener conto del fatto che, dopo l’avvento dei franco-Carolingi nel 774,  la tradizione politica longobarda autonoma continuò fino all’11. secolo nell’Italia meridionale, che fu quindi in una sua larga porzione longobarda per un totale di oltre quattrocento anni, il doppio del nord.
Ma soprattutto non va mai scordato che le istituzioni e la cultura dell’Italia longobarda ebbero un carattere non certo “etnicamente” puro e distintivo, ma al contrario misto, ibridato, con componenti diverse che non rimasero giustapposte ma si influenzarono a vicenda, adottando di volta in volta le soluzioni più adatte al mutare degli equilibri complessivi e alle esigenze di una società in perenne trasformazione.
Le più tradizionali letture dell’esperienza dei longobardi in Italia hanno in genere posto l’accento sulla drastica rottura degli assetti tardoromani prodotta dall’invasione di questa stirpe.
In qualche modo riecheggiando le testimonianze delle fonti del tempo, molti studiosi hanno insistito a loro volta sulla particolare estraneità culturale dei longobardi rispetto ai valori della civitas romana, sulla radicale disarticolazione dal oro causata degli ordinamenti sia civili sia ecclesiastici dei territori conquistati,  sulla rapacità dei loro saccheggi, sulle persecuzioni a danno dei romani, o almeno dei loro ceti dirigenti, e sull’esclusione di questi ultimi della vita politica del nuovo regno.
Con forza è stata marcata al contrapposizione fra gli ordinamenti delle regioni prese dai longobardi e di quelle conservate delle regioni prese dai longobardi e di quelle conservate dall’Impero.
Oggi, invece, l’interpretazione appare assai più articolata e delimitata semmai ai primi tempi dell’invasione gli effetti di più accentuato stravolgimento dei quadri tradizionali e l’antagonismo dell’exercitus barbaro invasore nei confronti della popolazione romana.
Per il resto del percorso storico del regno longobardo in Italia, attraverso tutto il 7. secolo e per quasi due terzi dell’8., si privilegia piuttosto l’individuazione di un processo di progressiva, anche se lenta e non priva di contrasti, acculturazione romano-cattolica della gens Langobardorum e di adattamento dei suoi istituti originari, che portò alla trasformazione degli stessi e a una sostanziale fusione etnico-culturale con l’elemento romano, fino a formare, come detto, una società del tutto nuova e significativa in sé.
Questa, se rimase travolta al nord dall’imposizione del dominio carolingio, fu libera di completare  le proprie dinamiche evolutive nella Langobardia meridionale, che si offre pertanto all’attenzione del ricercatori quale campo d’indagine particolarmente interessante e fertile.
I Longobardi devono essere recuperati alla storia d’Italia, e di tutta l’Italia, a pieno e giusto titolo, senza forzature e con rigore scientifico.
E il lascito, contenuto rispetto ad altre esperienze ma non irrilevante, da loro trasmesso alla multiforme identità del nostro paese ha trovato proprio di recente un’importante sanzione nel riconoscimento da parte dell’Unesco del sito seriale I Longobardi in Italia: i luoghi del potere, 568-774 d. C., con il correlato Centro di studi longobardi a Milano, che raccoglie e tutela sette luoghi (Cividale del Friuli, Brescia, Castelseprio, Spoleto, Campello sul Clitunno, Benevento, Monte Sant’Angelo), in cui la presenza di monumenti longobardi ancora integri continua a tramandare la memoria di quella antica stirpe e della sua vicenda italiana.
Pag. 107-112

Bibliografia

Longobardia e longobardi nell’Italia meridionale / a cura di G. Andenna e G. Picasso. – 1966
Le invasioni barbariche / C. Azzara. – 2003
Il regno longobardo in Italia e i tre capitoli / C. Azzara. – In: The crisis of the oikoumene. – 2007
Le leggi dei longobardi: storia, memoria e diritto di un popolo germanico / a cura di C. Azzara e S. Gasparri. – 2005
Invasione o migrazione? I longobardi in Italia / C. Azzara e G. Sergi. – 2006
Il futuro dei longobardi: l’Italia e la costruzione dell’Europa di Carlo Magno / a cura di C. Bertelli e G. P. Brogiolo. – 2000
Roma di fronte a Bisanzio e ai longobardi / O. Bertolini. – 1941
L’età longobarda / G. P. Bognetti. – 1966-68
Origo gentis Langobardorum: introduzione, testo critico, commento / a cura di A. Braciotti. – 1998
Capitali e residenze regie nell’Italia longobarda / G. P. Brogiolo. – In: Sedes regiae. – 2000
I longobardi: dalla caduta dell’Impero all’alba dell’italia / a cura di G. P. Brogiolo e A.Chavarria. – 2007
Il “Liber pontificalis”: i longobari e la nasicta del dominio territoriale della Chiesa romana / L. Capo. – 2009
Paolo Diacono: uno scrittore fra tradizione longobarda e rinnovamento carolingio / a cura di P. Chiesa. – 2000
Italia meridionale longobarda / N. Cilento. – 1971
Le storie dei longobardi: dall’origine a Paolo Diacono / S. M. Cingolani. – 1995
Le antichità germaniche nella cultura italiana da Machiavelli a Vico / G. Costa. – 1977
Mito di una città meridionale, Salerno, secoli 8.-11. / P. Delogu. – 1977
Il Regno longobardo / P. Delogu. – In: Storia d’Italia Einaudi. – 1980
Il Ducato di Spoleto. – 1983
Piccola storia dei longobardi di Benevento / a cura di L. A. Berto. – 2013
I duchi longobardi / S. Gasparri. – 1978
La cultura tradizionale dei longobardi: struttura tribale e resistenze pagane / S. Gasparri. –1983
Prima delle nazioni: popoli, etnie e regni fra antichità e Medioevo / S. Gasparri. – 1997
Il regno dei longobardi in Italia: archeologia, società e istituzioni / S. Gasparri. – 2004
Italia longobarda: il regno, i franchi, il papato / S. Gasparri. – Laterza, 2012
Langobardia: i longobardi in Italia / T. Indelli. – 2013
I longobardi e la storia: un percorso attraverso el fonti / a cura di F. Lo Monaco e F. Mores. – 2012
I longobardi e la guerra: da Alboino alla battaglia sulla Livenza, secc. 6.-8. – 2004
I “magistri commacini”: mito e realtà del Medioevo lombardo. – 2009
I longobardi / / a cura di G. C. Menis. – 1990
Storia dei longobardi / Paolo Diacono , a cura di L. Capo. – 1992
Salerno: una sede ducale della Langobardia meridionale / a cura di P. Peduto…et al. – 2013
I longobardi del sud / a cura di G. Roma. – 2010







 


Bisanzio e l’Occidente medievale di Giorgio Ravegnani

Premessa

La storia di Bisanzio a tutt’oggi non ha il posto di rilievo che meriterebbe nella vicenda del Medioevo.
I bizantini e l’Impero bizantino in realtà non sono mai esistiti se non come categoria storiografica: si trattava infatti della metà orientale dell’Impero romano, che di questo fu parte inscindibile fino a quando i destini delle due parti non iniziarono a separarsi, con un Occidente destinato a crollare sotto i barbari e un Oriente che al contrario sopravvisse per molti secoli ancora.
Bisanzio non fu una realtà astratta e un cosmo a sé stante, inseritosi chi sa come nella storia; ereditò al contrario tutto quanto era romano, senza soluzione di continuità, e lo conservò gelosamente nel corso del tempo, sia pure con gli adattamenti che il trascorrere di questo talvolta richiedeva.
I suoi sovrani si definivano imperatori romani e romani erano chiamati i loro sudditi, che rifuggivano altre designazioni, come greci o elleni, considerate dispregiative, e men che mai utilizzarono quella per loro inesistente di bizantini, valida al massimo per gli abitanti di Bisanzio, l’antica città greca che dal tempo di Costantino 1. prese il nome di Costantinopoli.
Altro pregiudizio da sfatare è che Bisanzio sia stato un mondo chiuso, anche nella ripetitiva ritualità delle sue cerimonie, lontano dall’Occidente e refrattario a qualsiasi contatto con questo.
In realtà la più che millenaria storia dell’Impero di Bisanzio ha continui punti di contatto con quella dell’Occidente, di cui molto spesso è parte integrante.
I bizantini furono presenti come dominatori soprattutto in Italia, dove restarono per più di cinque secoli, dapprima in possesso dell’intera regione, poi di parte di questa a seguito dell’invasione longobarda della penisola e infine del Meridione, in cui diedero vita a una brillante civiltà, fino a quando nell’11. secolo i normanni li cacciarono.
La memoria della loro presenza in Italia non è certo ampia come quella di Roma; non mancano tuttavia testimonianze dirette o indirette, visibili soprattutto in campo artistico, come per esempio nei celebri mosaici di Ravenna, che ne sono l’attestazione più alta.
Una volta terminato il dominio diretto, i rapporti con l’Occidente non vennero mai meno, anche se furono per lo più di natura conflittuale, come i ripetuti attacchi normanni all’impero o le crociate, che ebbero come corollario una sorda ostilità dell’Occidente nei confronti di Bisanzio.
Diverso fu almeno in parte il caso di Venezia, città nata sotto il dominio di Costantinopoli e che con questa mantenne un rapporto particolare, per lo più di collaborazione, fino almeno al 12. secolo, subendone fortemente l’influsso in diversi campi.
Nel 1204, con la quarta crociata, si raggiunse l’apice dell’ostilità occidentale all’Impero di Oriente: veneziani e  cavalieri crociati, anziché dirigersi in Terra Santa, si impossessarono infatti di Costantinopoli, che fu messa a sacco, e di parte del territorio da questa dipendente.
Si formò così un Impero latino con sede nella capitale e sorsero nello stesso tempo, in Grecia e altrove, altri Stati latini che sostituirono la precedente dominazione; a questi si affiancò un dominio marittimo veneziano destinato almeno in parte a durare per parecchio tempo.
Si trattò innegabilmente di un atto di dubbia moralità, poiché Bisanzio, ancorché scismatica, era pur sempre una città cristiana; ma era discutibile anche sotto il profilo politico, perché la spedizione crociata, benedetta dal papa per andare a liberare i luoghi santi, si rovesciò al contrario su uno Stato che con gli infedeli nulla aveva a che fare.
La città imperiale venne riconquistata nel 1261 dagli esuli bizantini, che ricostruiscono così il loro impero sia pure fortemente diminuito nel territorio e minacciato dalle potenze occidentali in cerca di rivincita.
Le due vicende storiche di Oriente e Occidente continuarono, come era avvenuto in precedenza, a interferire una con l’altra, mostrandosi una volta in più come inscindibili.
Particolarmente attive in Levante divennero le repubbliche marinare di Genova e Venezia, che perseguivano le loro ambizioni di dominio per lo più ai danni di Costantinopoli, con cui erano sia alleate sia nemiche, a seconda delle contingenze del momento.
L’atteggiamento ostile dimostrato a più riprese andò però esaurendosi nel Trecento quando l’Occidente, e soprattutto Venezia, divennero più accondiscendenti nei confronti di Costantinopoli, considerata un avamposto della cristianità contro la montante marea dei turchi ottomani.
Vennero di conseguenza forniti aiuti militari, sia pure insufficienti e sporadici, ma le discordie degli Stati europei e la potenza dei turchi condussero fatalmente alla caduta dell’Impero, nonostante i disperati tentativi fatti dagli ultimi sovrani per tenerlo in vita, e questo alla fine cadde nel 1453 quando il sultano Maometto 2. si impossessò di Costantinopoli, mettendo così fine alla secolare successione di governanti romani.

Cap. 1 L’età di Giustiniano

La fine dell’Occidente romano

La caduta dell’Impero romano di Occidente, convenzionalmente datata al 476, è un avvenimento che ha impressionato più gli storici moderni di chi lo visse di persona.
Non ne sappiamo in realtà molto, perché le fonti per l’epoca sono assenti o reticenti, ma vi sono buoni motivi per credere che l’evento abbia lasciato abbastanza indifferenti i contemporanei.
Di quello che era stato l’Impero di Roma era infatti rimasta la sola penisola italiana, insieme a qualche altro frammento di territorio e da un ventennio i sovrani si succedevano senza di fatto governare quasi più nulla.
Morto Valentiniano 3. nel 455, l’ultimo esponente della dinastia teodosiana, il trono era stato conteso infatti da avventurieri di varia origine, non all’altezza del ruolo e per di più condizionati dai reali detentori del potere, ossia i generali barbari.
Subito dopo Valentiniano divenne imperatore un losco personaggio di nome Petronio Massimo, un senatore romano, che riuscì a comprare il favore dei soldati di stanza a Roma.
Insediatosi il 17 marzo del 455, finì ingloriosamente la sua esistenza un mese e mezzo più tardi quando i vandali provenienti dall’Africa, approfittando del vuoto di potere che si era creato, andarono ad assediare Roma.
Di fronte al pericolo incombente, l’imperatore non seppe pensare di meglio che fuggire: salì a cavallo e tentò di allontanarsi, ma gli andò male perché fu riconosciuto e ucciso dalla folla inferocita, che ne fece a pezzi il cadavere gettandolo nel Tevere.
Pag. 11

La deposizione di Romolo Augustolo è comunemente ritenuta la fine dell’Impero d’Occidente, anche se questa da alcuni è posticipata al 480, quando Giulio Nepote venne assassinato in Dalmazia.
Ma a ben guardare significò soltanto l’interruzione della successione imperiale: Odoacre, salito al potere con la forza come altri suoi predecessori, avrebbe potuto nominare un sovrano prestanome ma non lo fece, forse perché riteneva conclusa la vicenda imperiale o, perché la presenza di un sovrano poteva suscitare come in passato guerre civili pericolose per il proprio personale potere.
Per quanto a noi possa sembrare strano, inoltre, nella mentalità dei contemporanei l’impero continuava a esistere nella persona di Zenone, all’ombra della cui autorità il generale barbaro si limitava a esercitare un’autorità delegata.
Gli stessi contemporanei non avvertirono la frattura e il cambio di governo passò sotto silenzio fino al secolo successivo quando, sull’onda della riconquista giustinianea, gli storici iniziarono a rimarcarla.
Il comes Marcellino, autore di un Chronicon che giunge fino al 354, è per esempio molto preciso in merito: “l’impero romano – egli scrive infatti – perì con questo Augustolo e da quel momento in poi Roma sarebbe stata governata dai goti”.
Pag. 16

Teodorico governò l’Italia come re degli ostrogoti e questa sua qualifica fu riconosciuta da Costantinopoli: l’imperatore Anastasio 1. nel 497 gli trasmise le insegne imperiali che Odoacre aveva inviato a Zenone, ma ciò nonostante egli non pensò a fregiarsi del titolo di Augusto.
Il suo lungo governo fu, a giudizio di molti storici, un periodo felice per l’Italia: si mantenne nei principi stabiliti da Odoacre di rispetto della romanità e attuò nello stesso tempo una proficua collaborazione con l’aristocrazia senatoria.
Promosse inoltre importanti opere pubbliche, come il palazzo o al basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna e numerose altre ancora, che diedero lustro al suo governo.
Ma l’idillio con i romani era destinato a interrompersi bruscamente quando, dopo la morte di Anastasio 1., nel 518 salì al trono Giustino 1., un anziano generale illirico sotto il quale cominciò ad avvertirsi un nuovo orientamento politico.
La conduzione della cosa pubblica, sotto Giustino 1., di fatto faceva capo al nipote Flaviano Sabbazio, che aveva assunto il nome di Giustiniano dopo essere stato adottato dallo zio.
Giustino 1, che a differenza del predecessore era un cristiano di fede ortodossa, prese provvedimenti contro il culto ariano professato da Teodorico e dai suoi goti, come dalla maggior parte dei popoli germanici.
Teodorico, già sospettoso dell’attivismo di Giustiniano e dell’aristocrazia senatoria, in cui vedeva potenziali alleati di Costantinopoli, perse letteralmente la testa, a causa forse anche dell’età ormai avanzata, e rovinò con errori madornali la politica di sostanziale moderazione seguita fino a quel momento.
Il re adottò provvedimenti contro il culto cattolico e molti romani eminenti vennero arrestati o uccisi.
Pag. 17-18

La riconquista giustinianea

Giustino 1. morì il 1. agosto del 527, quattro mesi dopo aver associato al trono Giustiniano il quale, investito da lui del rango di augusto, gli subentrò quindi automaticamente secondo la prassi costituzionale del tempo.
Giustiniano come lo zio proveniva da una modesta famiglia dell’Illirico, ma diversamente da lui, che era analfabeta, aveva studiato, soprattutto diritto e religione, per prepararsi al governo dello Stato.
Era allora un uomo brillante di quarantacinque anni, già sposato con la famosa Teodora, nonostante lo scandalo che aveva suscitato a corte l’unione del principe ereditario con un’autrice.
La figura di questo sovrano è una delle più controverse della storia e l’attività che esercitò al servizio dell’impero ebbe sicuramente del prodigioso.
Giustiniano cercò di rinnovare e, nello stesso tempo, di rafforzare lo Stato con una serie di provvedimenti e di riforme che datano per lo più ai primi anni del regno.
Si impegnò inoltre in un ambizioso programma di riconquista dei territori appartenuti all’ex Impero di Occidente, recuperandone circa un terzo con lunghi anni di guerre: portò così Bisanzio a un’estensione in seguito mai più raggiunta.
A tale programma di restaurazione della potenza romana Giustiniano fu spinto dalla necessità di ricostruire l’unità del bacino mediterraneo, in parte sfuggito al controllo imperiale, ma anche da forti convinzioni ideologiche: nonostante le sue umili origini, si sentiva profondamente romano e considerava suo dovere la riconquista dei territori imperiali perché, secondo le  concezioni mistico-politiche legate alla sovranità bizantina, era convinta che tale compito gli fosse stato affidato da Dio, dal quale riteneva come ogni sovrano di Bisanzio di aver ricevuto il potere.
Pag. 19

Al di là delle apparenze, la conquista di Ravenna non rappresentò la fine della guerra e i goti rimasti in armi nell’Italia del Nord non occupata dai bizantini elessero un nuovo re a Pavia, apprestandosi a proseguire la lotta.
Nel corso del 540 i bizantini subirono una grave sconfitta presso Treviso e l’anno successivo, quando fu eletto re Totila dopo i brevi regni di Ildibado ed Erarico, le fortune dei goti cambiarono radicalmente.
A differenza di Vitige, Totila si dimostrò infatti un generale capace e un politico accorto.
Rinunciò all’ostinazione mostrata dal predecessore nell’assalire le città fortificate, con cui aveva inutilmente logorato le forze dei suoi, e preferì ottenerne la resa con trattative; una volta conquistata la piazzaforte, ne abbatteva le mura per evitare che gli imperiali potessero nuovamente servirsene.
Cercò inoltre di ovviare a un altro punto debole dei goti, che aveva ugualmente favorito il successo di Bisanzio, e mise in campo una flotta in grado di intercettare le navi nemiche e di condurre azioni di pirateria nelle zone costiere dell’impero: nella prima fase del conflitto, a parte un intervento in Dalmazia, la flotta ostrogota era stata infatti assente dal teatro operativo, consentendo a Bisanzio il dominio del mare e la conseguente sicurezza dei rifornimenti.
Come politico, Totila si adoperò per dare un volto più rispettabile ai suoi e per dividere il campo avversario.
Evitò il più possibile la brutalità, che di norma si accompagnava alle operazioni militari, e al contrario si sforzò di alleviare i disagi delle popolazioni civili.
Rendendosi conto, inoltre, che i peggiori nemici dei goti erano gli aristocratici romani, naturali alleati di Bisanzio, concepì un progetto per stroncarne il potere con uan nuova politica agraria volta all’esproprio dei latifondi, che costituivano al principale base economica dell’aristocrazia.
Nei territori riconquistati dai goti, infatti, passarono al fisco regio non solo le imposte ordinarie ma anche le rendite dei latifondi e, per di più, i servi vennero sistematicamente affrancati per entrare nell’esercito ostrogoto.
Non furono, come spesso idealisticamente si è voluto credere, provvedimenti rivoluzionari sotto il profilo sociale, ma più probabilmente si trattò di un calcolo utilitaristico per rafforzare il suo esercito dissanguato.
Pag. 23-24

Narsete ebbe i pieni poteri di generalissimo e un’ampia italiana: disponibilità di denaro, utile per approntare un esercito e per saldare gli arretrati della paga all’armata italiana; partì quindi da Salona nella primavera del 552,  con circa trentamila uomini, dei quali una buona parte erano ausiliari barbarici.
La condotta delle operazioni fu del tutto opposta a quella di Belisario, che si muoveva con grande prudenza, poiché Narsete puntò allo scontro risolutore con l’avversario.
Raggiunse l’Italia via terra, non avendo una flotta sufficiente per le sue truppe, passò lungo la costa veneta e arrivò a Ravenna all’inizio di giugno; di qui, senza curarsi di assediare Rimini e altre piazze in mano ai goti, proseguì incontro a Totila.
Il re goto si mosse da Roma verso il nemico e lo scontro ebbe luogo a Busta Gallorum (o Tagina), in prossimità di Gualdo Tadino, terminando con la completa disfatta dei goti.
I barbari furono messi in fuga, con il loro stesso re, che venne raggiunto e ucciso da un ufficiale bizantino.
La vittoria imperiale non comportò tuttavia la resa dei goti, e i superstiti elessero a Pavia un altro re nella persona di Teia, il quale scese a sud per combattere Narsete, che nel frattempo aveva ripreso Roma, ma venen sconfitto e ucciso nel corso dello stesso anno ai monti Lattari; con la sua morte ebbe fine il regno ostrogoto.
Gli sconfitti si sottomisero e, a quanto pare, ebbero dai vincitori il permesso di tornare nelle loro sedi.
Pag. 26-27

Il collasso demografico, a seguito della guerra, carestie ed epidemie, doveva infine avere assunto una dimensione massiccia e gli stessi ostrogoti avevano subito un ridimensionamento tale che nell’arco di pochi anni scomparvero come componente demica.
Il volto dell’Italia romana, mantenutosi brillante fino all’inizio della guerra soprattutto grazie all’opera di Teodorico, si era modificato irreparabilmente, annunciando i secoli bui che sarebbero seguiti fino alla ripresa in età comunale.
Pag. 29

Cap. 2 L’Italia esarcale

L’invasione longobarda

Giustiniano morì nel 565.
Fu sicuramente un uomo straordinario, di quelli che, come Cesare, Napoleone o altri, hanno lasciato un’impronta duratura delle propria attività.
Ancora oggi il Corpus Iuris Civilis resta alla base della nostra cultura giuridica e allo stesso modo la chiesa di Santa Sofia a Istanbul, anche se danneggiata dal tempo e dagli uomini, è un monumento imperituro alla sua grandezza.
Ma per chi dovette subentrargli al governo le cose furono meno semplici.
I suoi sogni di gloria avevano si portato alla riconquista più o meno di un terzo dell’ex Impero di Occidente, ma le devastazioni nei paesi riportati all’Impero erano state imponenti e, soprattutto, la forza militare di Bisanzio, perennemente in crisi, si rivelava insufficiente a coprire un territorio così ampliato.
I nemici erano in agguato e gli attacchi all’impero furono concentrici.
La prima grande guerra si accese con i persiani a causa della politica sconsiderata del successore di Giustiniano, il nipote Giustino 2., che nel 572 li attaccò infrangendo la pace faticosamente stipulata dieci anni prima.
L’esito, dopo qualche successo iniziale, fu disastroso e il conflitto si trascinò per un ventennio, sottraendo da altri fronti le migliori energie dell’Impero.
Altrove furono invece i bizantini a essere attaccati e a doversi difendere.
In Spagna la controffensiva visigota mise in difficoltà l’Impero, che continuò a perdere terreno finché negli anni Venti del 7. secolo dovette abbandonare la regione.
L’Africa, cronicamente agitata da rivolte indigene, andò interamente perduta con l’irruzione degli arabi e la conquista islamica di Cartagine nel 698.
Pag. 31

I rapporti con Narsete e la coincidenza fra la sua rimozione e l’invasione longobarda hanno fatto sorgere nel Medioevo la cosiddetta “leggenda di Narsete”, secondo la quale gli invasori sarebbero stati chiamati in Italia dall’eunuco che voleva così vendicarsi dei torti subiti da Costantinopoli.
La leggenda, peraltro assai tarda rispetto agli avvenimenti, potrebbe tra l’altro spiegare la mancata reazione degli imperiali che, almeno apparentemente, vennero travolti dai longobardi senza opporre resistenza.
In realtà l’inerzia dei bizantini, malgrado la scarsità di fonti storiche, può essere spiegata diversamente e attribuita a cause concomitanti, come lo spopolamento dovuto a una pestilenza che aveva imperversato in alta Italia poco prima dell’invasione longobarda, l’impegno delle truppe mobili di Bisanzio su altri fronti, l’assenza di un comando militare centralizzato a seguito della rimozione di Narsete, che potrebbe aver paralizzato la risposta degli imperiali, o anche un possibile accordo iniziale con le autorità bizantine per utilizzar ei nuovi arrivati contro i franchi, accordo reso poi nullo dall’aggressività longobarda.
Non va infine sottovalutata la tradizionale strategia difensiva dei bizantini per cui, data la scarsità di soldati normalmente disponibili, si preferiva evitare lo scontro campale con gli invasori, attendendo che si ritirassero spontaneamente dal territorio imperiale o che fosse possibile allontanarli in altro modo.
Pag. 34

La riforma amministrativa fu attuata attraverso l’introduzione di un nuovo funzionario, con sede a Ravenna, che aveva il titolo di esarca.
Su questa innovazione, tradizionalmente attribuita a Maurizio, a dire il vero i pareri degli storici non sono concordi: è vista infatti sia come una intenzionale come una semplice riproposizione del “generalissimo con pieni poteri, già esistente con un nome diverso”.
L’esarca ripristinava infatti la figura dello strategos autokrator (così definito nelle fonti erudite) creata nel 535 da Giustiniano al fine di conferire a Belisario la suprema autorità per la riconquista dell’Italia; la novità consisteva semmai nel fatto che la critica diveniva permanente, da provvisoria quale era nata, e che l’esarca si trovava ora in uan situazione ben diversa, con i nemici insediati stabilmente in Italia e l’impossibilità già ampiamente provata di cacciarli.
L’esarca era essenzialmente un governatore militare che esercitava nello stesso tempo un potere molto ampio anche nelle competenze civili, per cui si disse di lui che aveva il regno e il principato dell’Italia intera (regnum et principatus totius Italiae).
Coem già nell’epoca precedente, l’autorità civile non fu abolita, ma nella pratica quanto ne restava assunse un ruolo sempre più secondario di fronte all’elemento militare, la cui importanza andò crescendo nel corso del tempo fino a divenire predominante.
Il prefetto d’Italia, in particolare, si mantenne fino almeno alla metà del 7. secolo e, accanto a lui, si hanno isolate testimonianze sul funzionamento delle vecchie strutture dell’amministrazione civile.
La preminenza delle necessità difensive, in un’Italia che di fatto si era trasformata in una cittadella assediata, rovesciò tuttavia le tradizionali divisioni di competenze, in linea d’altronde con un generale processo di militarizzazione che in seguito si sarebbe esteso a tutto l’impero, ma che per il momento trovò espressione nell’esarcato d’Italia e in quello costituito negli stessi anni in Africa.
Le autorità civili si trovarono in una posizione subordinata rispetto ai capi militari, che esercitavano il loro potere più o meno legittimo in tutti i rami dell’amministrazione pubblica.
Pag. 44-45

Dopo la disastrosa spedizione di Baduario, i bizantini non affrontarono più i loro nemici in campo aperto.
Lo stato di guerra fu pressoché continuo, salvo occasionali remissioni, ma sembra più che altro essersi risolto in operazioni locali di non grande respiro; sta di fatto comunque che, con una lenta azione di logoramento, i longobardi sottrassero all’Impero sempre più territori fino a portarlo al collasso nell’8. secolo.
Alle carenze dell’apparato militare supplivano un’attività diplomatica efficace, spesso coronata da successo, volta a cercare alleanze esterne o a corrompere i duchi longobardi, nonché la militarizzazione delle strutture amministrative, che bene o male permise la sopravvivenza dell’esarcato per più di un secolo e mezzo.
I longobardi, per parte loro, attuarono per lo più una guerra per bande, volta a conquistare singoli punti e a praticare un saccheggio sfrenato.
Pag. 49

Il 590 e il successivo furono anni di svolta per la storia dell’Italia bizantina.
L’Impero rinunciò alle velleità aggressive, mentre il re Autari, morto il 3 settembre del 590, venne sostituito dal duca di Torino Agilulfo, che ne sposò la vedova Teodolinda e ottenne nel maggio del 591 l’investitura dai capi longobardi.
Morì anche papa Pelagio 2. e il papato passò al più energico Gregorio 1. (3 settembre 590), destinato a lasciare una forte impronta di sé.
I grandi ducati longobardi di Spoleto e di Benevento infine passarono in mano a forti personalità: Ariulfo a Spoleto e, probabilmente nel 591, Arichis a Benevento.
Pag. 54

San Gregorio magno si rendeva conto dell’impossibilità di contenere la guerra per bande de i longobardi con le esigue forze dell’Impero e aspirava a concludere uan pace duratura con i nemici.
Di tutt’altra opinione era l’esarca Romano, per il quale il papa aveva una decisa antipatia, che ragionava come un militare era intenzionato a mantenere le posizioni strategiche in Italia.
Verso la fine del 592, senza avvertire il papa, Romano partì da Ravenna con le sue forze, raggiunse via mare Roma e di qui, prelevando i soldati che vi trovò, andò a sbloccare il corridoio viario interrotto dai longobardi di Spoleto.
Il suo intervento sospese le trattative avviate da Gregorio 1. e provocò a tal punto i nemici che nel 593 il re Agilulfo in persona si mosse da Pavia per riprendere Perugia, il cui duca era passato dalla parte dell’Impero, e andare ad assediare Roma.
Romano non si mosse da Ravenna e la città fu difesa alla meglio dalle poche forze presenti; ancora una volta però l’onere maggiore ricadde sul papa, che convinse il re a ritirarsi al prezzo di cinquecento libbre d’oro per mettere fine alle devastazioni.
Pag. 55

Nel 744 Liutprando si sentì abbastanza forte per dare il colpo definitivo all’esarcato: ne superò i confini occupando Cesena e apprestandosi ad assediare Ravenna.
Eutichio, imponente a fermarlo, chiese aiuto al papa e Zaccaria, dopo il fallimento della delegazione inviata, andò personalmente a incontrare il re a Pavia, ottenendo di far cessare le ostilità in attesa che l’intera questione fosse trattata a Costantinopoli.
Ma era solo uan breve tregua: il successore di Liutprando, Ratchis, nonostante la pace conclusa con il papa, nel 749 attaccò la Pentapoli.
Il papa intervenne e Ratchis, che era un buon cristiano, lo ascoltò; il fratello e successore Astolfo ebbe però meno scrupoli e nel 750 si impadronì di Ferrara, di Comacchio e dell’Istria.
Nell’estate del 751, se non prima, si ebbe l’epilogo, anche se non si sa in che modo avvenne.
Sappiamo soltanto che il 4 luglio di quell’anno nel palazzo di Ravenna, che già era stato dell’esarca, il re vincitore emise un diploma a favore dell’abbazia laziale di Farfa.
Era così finito in sordina l’esarcato d’Italia e neppure si sa che fine abbia fatto Eutichio, di cui le fonti non fanno più menzione.
Pag. 62

L’antagonismo fra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, e di conseguenza gli imperatori, che della loro chiesa erano il braccio armato, aveva radici profonde e si manifestò in tutta la sua virulenza durante il dominio bizantino.
Nelle grandi controversie teologiche del quinto secolo Roma si era schierata con Costantinopoli sulla questione del nestorianesimo, la dottrina secondo cui in Cristo vi sarebbe stata solo la natura umana, e lo stesso fece poco più tardi sul monofisismo, per cui al contrario in Cristo sarebbe esistita soltanto la natura divina.
Nestorianesimo e monofisismo vennero sconfitti rispettivamente al Concilio di Efeso nel 431 e a quello di Calcedonia del 451 e la cosa per il momento finì lì.
Si trattava comunque di contrasti dottrinali, mentre nel 484 la situazione assunse una piega più preoccupante.
L’imperatore Zenone pubblicò l’Henotikon, un editto in materia di fede, che cercava una conciliazione fra ortodossi ed eretici, ma Roma si oppose e si arrivò a uno scisma fra le due sedi episcopali che fu detto scisma di Acacio, dal nome del patriarca di Costantinopoli, e che durò fino al 519, quando venne ricomposto da Giustino 1.; ma con l’arrivo dei bizantini in Italia le cose andarono ancora peggio.
Pag. 62-63

Il potere effettivo era ormai passato alla sede romana e, una volta scomparso il dominio bizantino a Ravenna, papa Stefano 2. con grande spregiudicatezza ricorse all’alleanza con i franchi contro i longobardi che minacciavano i suoi domini.
Nel 752 arrivò a Roma una ambasceria imperiale al papa e al re Astolfo di restituire i territori usurpati.
Stefano 2., forse stupito di tanta mancanza di realismo, fece proseguire l’ambasciatore fino a Ravenna.
Astolfo a sua volta non aderì, come è ovvio, alla sua richiesta e lo rimandò a Costantinopoli insieme a un proprio inviato, cui si aggiunsero poi messi papali, per portare proposte di cui ignoriamo il contenuto.
Il papa supplicò Costantino 5. di liberare Roma e l’Italia, ma di fronte all’inerzia di Costantinopoli maturò un progetto rivoluzionario, prendendo contatto con il re dei franchi Pipino il Breve e chiedendo il suo aiuto contro i longobardi che premevano su Roma.
La sua determinazione fu rafforzata dal ritorno dell’ambasceria di Costantinopoli con l’ordine per il papa di recarsi presso il re longobardo e ottenere la restituzione di Ravenna e delle città da questa dipendenti.
Il papa si prestò a eseguire la richiesta alquanto bizzarra del sovrano ma, dopo il fallimento dell’incontro con Astolfo, proseguì per la Francia, dove all’inizio del 754 ebbe con Pipino il famoso incontro di Ponthion, in cui riconobbe  il regno da lui stabilito in Francia in cambio dell’impegno del re a intervenire in Italia e a consegnare ampi territori alla sede romana.
Pag. 69

Cap. 3. Bisanzio nell’Italia imperiale

La fine dell’esarcato ebbe come conseguenza la dissoluzione di gran parte dei domini bizantini in Italia, anche se il tracollo non fu immediato.
Nel Nord l’Impero manteneva almeno nominalmente il controllo su Venezia, mentre l’Istria caduta in mano longobarda fu recuperata nel 774 per poi essere perduta di nuovo a vantaggio dei franchi alcuni anni dopo.
Scendendo al Centro-Sud, il ducato di Roma di fatto già da tempo era passato sotto il dominio dei papi, a differenza di quello di Napoli che restò ancora a lungo nell’orbita dell’Impero.
Al momento della caduta di Ravenna era al potere un duca lealista e tali furono anche i suoi immediati successori.
Il processo di diversificazione da Costantinopoli era comunque in atto e anche qui, come sarebbe accaduto a Venezia, il distacco fu graduale e senza scosse violente.
Dopo l’827, quando gli arabi invasero la Sicilia, e di conseguenza il governatore dell’isola non ebbe più la possibilità di intervenire negli affari locali, la città si emancipò sempre più adottando anche una propria politica estera, talvolta in contrasto con l’Impero.
In quegli stessi anni, inoltre, si svincolarono progressivamente dal ducato napoletano, di cui erano stati parte integrante, i centri di Amalfi e di Gaeta, che si diedero governi autonomi.
Pag. 71

L’epilogo della vicenda, di cui ormai i bizantini erano divenuti spettatori, si ebbe nel 774 allorché Carlo Magno, rispondendo all’appello del papa Adriano, scese in Italia per combattere i longobardi che di nuovo si erano fatti minacciosi in spregio ai trattati sottoscritti.
I longobardi furono sconfitti e il re Desiderio fu fatto prigioniero, mentre il figlio Adelchi fuggiva a Costantinopoli.
Finiva così il loro regno, che venne aggregato a quello franco.
Nel 774, a Roma, Carlo Magno depose solennemente sulla tomba di San Pietro un diploma di donazione di località italiane, che ampliava quella già fatta da suo padre Pipino: anche se nella pratica parte dei territori concessi non finì sotto il dominio dei papi, ciò che era stato bizantino nel centro e nel nord della penisola passava definitivamente sotto il controllo della chiesa romana.
Pag. 72

La Sicilia imperiale non ebbe particolari problemi per parecchi anni; nell’827 però entrò nell’occhio del ciclone quando gli arabi provenienti dalla Tunisia sbarcarono in giugno a Mazara.
L’isola a partire dalla metà del 7. secolo aveva già subito incursioni islamiche, ma questa volta si trattava di un’invasione vera e propria.
L’emiro Ziyadat Allah aveva dato seguito alle richieste di un losco ufficiale, il turmarca Eufemio, che mirava a costituirsi un dominio personale con l’appoggio degli arabi, e aveva inviato un corpo di spedizione di circa diecimila uomini nonostante i trattati di pace che legavano gli aghhlabiti a Bisanzio.
 Un mese più tardi gli invasori si scontrarono con i bizantini probabilmente a ovest di Corleone e li misero in fuga.
Nonostante questo successo, tuttavia, la loro conquista si rivelò molto lenta e difficile.
Dopo un fallito assedio a Siracusa, gli arabi si riversarono all’interno conquistando numerosi centri; andarono poi ad assediare Palermo che capitolò nel settembre dell’831 e divenne la loro capitale.
Dopo alcuni anni di relativa inattività, ripresero l’offensiva in grande stile, arrivando nell’839 a dominare l’intera parte occidentale dell’isola.
Le operazioni proseguirono quindi con l’assedio e la conquista di Messina, fra 842 e 843, di Modica nell’845, l’anno successivo di Lentini, i cui difensori vennero sterminati, e di Ragusa che si arrese senza combattere nell’848.
Fu quindi la volta di Enna che fu presa nell’859 dopo più di venticinque anni di tentativi andati a vuoto.
Pag. 74

Una volta liquidato il regno longobardo, le ambizioni di Carlo Magno si estesero anche al ducato di Benevento sino ad allora rimasto indenne.
Il duca Arechi 2., che dopo la caduta del regno longobardo aveva assunto il titolo di principe, cercò di destreggiarsi fra i bizantini, i franchi e la chiesa: così, quando Carlo Magno gli impose la propria sovranità, si rivolse a Bisanzio in cerca di aiuto.
A Costantinopoli regnava allora il giovane Costantino 6., ma di fatto il governo reale era nelle mani della madre Irene, che alcuni anni più tardi si sarebbe sbarazzata del figlio facendolo accecare e diventando così la prima delle tre imperatrici bizantine.
Irene aveva seguito inizialmente una politica di amicizia con i franchi acconsentendo al fidanzamento di Costantino 6. con Rotrude, figlia di Carlo Magno, ma in seguito si risolse a intervenire in favore di Arechi 2. avviando le trattative per un accordo che prevedeva di riportare con le armi sul trono di Pavia Adelchi, figlio di Desiderio e cognato dello stesso Arechi, in cambio del riconoscimento della sovranità imperiale: per parte sua Arechi avrebbe ottenuto la dignità di patrizio e il ducato di Napoli, verso il quale da tempo i longobardi avevano mire espansionistiche.
Quando però nel 787 giunse a Benevento un’ambasceria imperiale per consegnargli le insegne della dignità, Arechi 2. era già morto e, malgrado la tendenza filoimperiale della vedova Adelperga, il figlio e successore Grimoaldo 3. dovette adeguarsi alla politica di Carlo Magno, del quale era stato ostaggio.
Di conseguenza la spedizione promessa da Irene, arrivata troppo tardi in Calabria, non poté più contare sull’appoggio dei longobardi di Benevento.
Le forze imperiali, al comando del sacellario e logoteta dello stratiotikon Giovanni e di Adelchi, che a Bisanzio aveva assunto il nome greco di Teodoto, pur rinforzate dai contingenti messi a disposizione dallo stratego di Sicilia, furono affrontate nel 788 da longobardi e franchi coalizzati e subirono una grave sconfitta perdendo in battaglia anche il loro comandante.
Sebbene fosse stato costretto al vincolo di vassallaggio, Grimoaldo 3. si affrancò presto dalla soggezione a Carlo magno riuscendo a mantenere l’indipendenza del principato, malgrado i tentativi del figlio di Carlo per sottometterlo.
I bizantini furono invece paralizzati dalla sconfitta subita e non ebbero la forza di riprendere l’iniziativa.
Carlo Magno, nell’802, tentò un’impossibile riconciliazione con Bisanzio chiedendo in sposa l’imperatrice Irene, ma le trattative si arenarono per l’improvvisa destituzione di questa e il successore Niceforo 1. adottò una linea politica di chiusura ai franchi, il cui esito fu il conflitto combattuto nelle lagune veneziane.
La pace di Aquisgrana, conclusa nell’812 durante il regno di Michele 1., e il riconoscimento sia pure parziale del nuovo impero franco allentarono tuttavia le tensioni e le conseguenze si fecero avvertire anche in Meridione con un breve periodo di stabilità.
Pag. 75-76

La controffensiva iniziò nell’976, quando il governatore imperiale di Otranto si impossessò di Bari, e proseguì decisamente nell’880 quando i bizantini sbarcarono in Calabria un consistente esercito.
L’armata imperiale, muovendosi di conserva con la flotta, che sconfisse in prossimità di Punta Stilo le navi saracene, marciò lungo la costa della Calabria orientale per raggiungere la valle dei Crati e proseguire alla volta di Taranto, riconquistando quasi tutte le fortezze in mano al nemico in Calabria e nella Puglia meridionale.
Si scontrò poi con gli arabi vicino a Taranto, subendo una parziale sconfitta con la morte di uno dei generali, ma ciò non impedì la conquista della città e la cattura della guarnigione musulmana.
L’offensiva riprese nell’882 o 883 con l’invio di un nuovo esercito dall’Oriente, che non ottenne grandi risultati, e ancora nell’885 facendo affluire altri rinforzi.
Il comando dell’esercito imperiale in questa circostanza fu assunto da Niceforo Foca, esponente dell’aristocrazia militare che si andava affermando a quell’epoca e uno dei più valenti generali del tempo.
Niceforo Foca eliminò le ultime sacche di resistenza araba in Calabria e, più con la diplomazia che con la forza, arrivò anche all’obiettivo di ricongiungere i domini in Calabria alle conquiste pugliesi sottomettendo i longobardi che vi erano stanziati.
L’accorta politica del generale imperiale e la moderazione da lui dimostrata gli valsero la riconoscenza delle popolazioni locali, da lui liberate dal dominio arabo, al punto che edificarono una chiesa dedicata a san Foca in ricordi dei suoi meriti.
Pag. 79-80

I bizantini davano grande importanza al dominio sull’Italia meridionale; l’impegno militare messo in campo fino a quel momento iniziò tuttavia ad affievolirsi sotto i successori di Basilio 1., a causa soprattutto dell’impegno bellico preminente su altri fronti.
Le regioni del Sud dovettero così per lo più contare sulle forze militari locali e andarono soggette a nuove e ripetute incursioni arabe e a ribellioni dei longobardi riottosi alla sottomissione.
Ai nemici tradizionali si aggiunsero poi i pirati slavi che nel 926 saccheggiarono Siponto, disperdendo in prossimità di Termoli una flottiglia imperiale, e, nel 947, una scorreria degli ungari, che già qualche anno prima avevano devastato la Campania.
I territori del meridione in sostanza furono come una cittadella assediata da più parti: nonostante le numerose sconfitte subite da arabi o da longobardi, i bizantini riuscirono però a mantenere intatto il proprio dominio.
Pag. 82

La disfatta di Ottone 2. avvantaggiò il governo bizantino nel secolare confronto con gli arabi.
La morte dell’emiro nella stessa battaglia in cui su sconfitto l’imperatore germanico, e il conseguente ritiro in Sicilia delle forze arabe, concessero infatti qualche anno di respiro ai temi italiani.
Fu comunque una tregua di breve durata e già nel 986 ripresero le incursioni, la più clamorosa delle quali si ebbe nel 1002 con l’assedio di Bari per terra e per mare da parte di un consistente esercito musulmano.
L’assedio durò dai primi giorni di maggio al 20 settembre, quando arrivò uan flotta veneziana comandata dal doge Pietro 2. Orseolo, che rifornì la popolazione affamata e in pochi giorni contribuì a liberare la città.
L’intervento a Bari offrì al doge Orseolo una buona occasione per un salto di qualità nei rapporti con la corte imperiale: oltre ai vantaggi politici che Venezia ricavò dalla sconfitta degli arabi, infatti, la città lagunare venen ricompensata con un importante matrimonio diplomatico e la dignità nobiliare di patrizio per Giovanni Orseolo, figlio del doge in carica e da lui associato al potere.
Pag. 85

La politica conciliante di Costantinopoli non fermò i normanni, che mantennero le conquiste fatte e iniziarono a espandersi sistematicamente in Puglia e in Lucania, avvicinandosi alla Calabria dove, a nord delle valli del Crati, si stanziò con il suo seguito uno dei numerosi figli di Tancredi d’Altavilla, quel Roberto il Guiscardo che negli anni a venire sarebbe divenuto il capo riconosciuto della sua gente.
Argiro, che era stato chiamato nel 1045 a Costantinopoli e qui era rimasto per alcuni anni, fu rimandato in patria dal governo bizantino con l’ordine di usare ogni mezzo diplomatico a disposizione per risollevare le sorti dell’impero.
Sbarcò quindi ad Otranto nel 1051, prendendo poi possesso di Bari, con fatica per l’ostilità della fazione filo normanna, ma non arrivò ad alcun risultato e si decise quindi a giocare la carta estrema inviando un’ambasceria a papa Leone al fine di concordare un’azione contro il nemico comune.
Pag. 90

L’ascesa del Guiscardo, che si stava affermando fra i capi normanni, divenne poi irresistibile quando nel 1059, con un trattato concluso a Melfi, ottenne da papa Niccolò 2. l'investitura a duca di Puglia, Calabria e Sicilia in cambio del giuramento di fedeltà alla chiesa romana.
Si stava infatti profilando lo scontro fr ail papato e l’impero germanico e, con la consueta spregiudicatezza, la politica papale si orientò verso l’unica potenza in grado di sostenere le proprie aspirazioni, abbandonando al suo destino il meridione imperiale.
Pag. 91

Nelle regioni del nord e del centro Italia i bizantini hanno lasciato scarsi ricordi della loro presenza, mentre al sud questi sono in numero di gran lunga maggiore.
I motivi della diversità sono essenzialmente due: la maggiore permanenza in termini di tempo dei dominatori al sud e le condizioni degradate di vita in cui si trovò l’esarcato, stretto in una situazione di assedio permanente, che non consentì il dispiegarsi di forme evolute di civiltà.
Bisogna inoltre distinguere, quando si parla di testimonianze bizantine in Italia, fra la presenza nei nostri istituti culturali di numerosissimi oggetti arrivati dall’impero (come monete, sigilli, miniature, marmi, icone o altri ancora), di cui spesso si ignorano la provenienza esatta e le modalità di acquisizione, e i manufatti direttamente prodotti dai bizantini in Italia, che sono in quantità di gran lunga inferiore.
Lo stesso poi vale per le altrettante numerose opere d’arte di imitazione bizantina, di cui il patrimonio culturale italiano è molto ricco.
Pag. 92

A Iesolo infine un’iscrizione di produzione locale, incisa nella fronte superstite di un sarcofago, ricorda un Antonino tribuno sepolto insieme alla moglie.
Pag. 93

Nel meridione e nelle isole le testimonianze, lo si è visto, sono più ampie e varie: ne basta un breve panorama per rendere l’idea.
Il dominio bizantino nelle regioni del sud, si è detto, fu più solido e duraturo di quanto non sia stato nelle altre parti della penisola; più forte fu inoltre il legame culturale che, se si eccettua il caso anomalo di Venezia, si mantenne spesso anche al di là dell’effettivo controllo sul territorio.
Il rapporto particolare che soprattutto la Puglia e la Calabria ebbero con Bisanzio è determinato, in termini di memoria visiva, in primo luogo dai numerosi edifici di culto ancora esistenti, ma anche dalla sopravvivenza di minoranze linguistiche greche, legate probabilmente in gran parte all’immigrazione di popolazioni ellenofone provenienti da Bisanzio.
Attualmente esistono infatti isole linguistiche greche, riconosciute dallo Stato italiano con le disposizioni a tutela delle minoranze linguistiche, ubicate in Puglia (nove comuni), in Calabria (quindici comuni) e in Sicilia (uno soltanto).
Vi si parla un’idioma che ha forti caratteri di affinità con il neogreco e viene comunemente definito grecanico per l’area calabrese e griko i grico per quella salentina, ovvero “italiano meridionale”.
Pag. 97

La presenza di Costantinopoli trovò espressione per secoli nelle numerose chiese dell’Italia meridionale, in particolare nel Salento, edificate per lo più a opera di monaci orientali che popolarono la regione.
Il ricordo di Bisanzio in questo caso è ora rimasto soprattutto nelle cripte e negli ipogei, poiché nel corso dei secoli le chiese sono state modificate o sostituite da altre soluzioni che ne hanno alterato l’aspetto iniziale.
Un esempio tangibile di sopravvivenza della forma originaria è dato dalla chiesa di san Pietro di Otranto, databile a quando sembra al 9.-10. secolo, che si presenta nei caratteri dell’architettura religiosa dell’Impero d’Oriente e nelle tre absidi mostra affreschi in stile bizantino.
A Carpignano Salentino (provincia di Lecce) si ha un caso particolare con la cripta di Santa Cristina (o della Madonna delle Grazie) ubicata in piazza Madonna delle Grazie e scavata nella roccia.
Santa Cristina risale al 10. secolo e fu probabilmente la chiesa più importante dell’antico centro.
La cripta conserva gli affreschi più antichi del Salento e, cosa singolare, le iscrizioni ivi presenti tramandano i nomi dei committenti, dei pittori e le date di esecuzione.
Nell’intero ciclo pittorico, uno dei più cospicui e dei meglio conservati del Salento, spiccano per importanza l’Annunciazione e il Cristo Pantokrator del pittore Teofilatto, cha data al mese di maggio del 959, il trittico del pittore Eustazio, del mese di maggio del 1020; l’affresco del pittore Costantino, del 1054-55; i dipinti della tomba ad arcosolio (datati tra il 1055 e il 1075, quindi agli ultimi tempi della dominazione bizantina in Puglia), in cui si conserva un epitaffio in versi dodecasillabi, , noto come iscrizione di Stratigulis, fatto eseguire dal padre del giovane defunto.
La Calabria ebbe un rapporto molto stretto con il mondo bizantino e ortodosso.
In questa regione non solo fu determinante la componente demografica di lingua e di cultura greca, ma vi si radicò anche un’intensa spiritualità, alimentata da monasteri e chiese sparsi nel suo territorio.
Tra queste ultime merita una menzione particolare per la sua singolarità la Cattolica di Stilo (ubicata sulle falde del monte Consolino), così chiamata secondo la nomenclatura bizantina perché appartenente al rango delle chiese munite di battistero.
La Cattolica, destinata al culto greco e convertita nel 577 al quello latino, presenza un’architettura tipica del periodo medio bizantino, con pianta a croce greca inscritta in un quadrato, e mostra una caratteristica forma cubica con all’interno tre absidi destinate alla preparazione e alla realizzazione della liturgia.
I muri dell’edificio erano ricoperti interamente di affreschi, di cui restano avanzi.
Assai simile alla Cattolica di Stilo, per forma e per la presenza di tre absidi, è la chiesa di San Marco che sorge all’interno della città di Rossano, edificata introno al 10. secolo per servire come luogo di culto a uso dei monaci che vivevano nelle sottostanti grotte di tufo.
Presenta lo schema tipicamente bizantino della croce greca inscritta in un quadrato e sormontata da cinque cupole; all’interno è particolarmente rilevante un affresco superstite dell’originaria decorazione con la Vergine e il Bambino.
Pag. 99-102

Il fenomeno dell’insediamento rupestre legato alla presenza bizantina, attestato in Puglia e in Basilicata, si verifica anche nella Sicilia sud-orientale e il riferimento più importante in questo caso è a Pantalica (in provincia di Siracusa), dove la presenza di abitati è attestata da gruppi di villaggi scavati nella roccia e dove si trovano i santuari di San Micidiario, san Nicolicchio e del Crocifisso.
Il primo, parte di un villaggio bizantino di circa centocinquanta abitazioni, mostra all’interno tracce di affreschi e iscrizioni, fra cui meglio visibili un Pantokrator fiancheggiato da due angeli e un’altra figura che dovrebbe essere san Mercurio.
San Nicolicchio è un villaggio più piccolo che ha al suo centro l’oratorio, anch’esso con tracce di affreschi in cui si riconoscono sant’Elena e santo Stefano, databili pare al 7. secolo.
La grotta del Crocifisso, utilizzata come chiesa, mostra i resti di una Crocifissione e le figure di san Nicola e santa Barbara.
A questi si aggiungono la grotta di San Pietro presso Buscemi, il cui primo utilizzo potrebbe datare al 5.-7. secolo, le rovine del monastero rupestre di San Marco a Noto e l’oratorio delle catacombe si Santa Lucia a Siracusa, quest’ultimo fondamentale per la conoscenza della pittura bizantina in Sicilia.
La chiesa di Santa Lucia extra moenia, nel cui portico è collocato l’accesso alle catacombe, venne infatti edificata in età bizantina sul luogo del martirio della santa, ma fu poi ricostruita al tempo dei normanni e completamente rifatta a fine Seicento.
Gli affreschi dell’8. secolo a loro volta furono coperti da malta nel Quattrocento allorché gran parte dell’oratorio venne distrutta per far posto a uan cisterna: grazie però a un recente intervento di restauro oggi sono ancora visibili nella volta, nella parete sud-est e nell’abside.
Pag. 102

La Sicilia orientale offre ugualmente numerose testimonianze di epoca bizantina.
A Cava d’Ispica, la valle fluviale nell’altopiano ibleo fra Modica e Ispica, sono presenti testimonianze di civiltà rupestre, tra cui la grotta dei Santi, in cui si vedono tracce di pitture di trentasei santi e di iscrizioni greche (con una santa abbigliata da imperatrice); il santuario di San Nicola, detto anche della Madonna, con altri affreschi; i ruderi della chiesa di San Pancrati, l’unico esempio di costruzione non rupestre della Cava; il complesso di Santa Alessandra, comunemente ritenuto un monastero, e altri minori, in parte anche franati, utilizzati dagli asceti d’epoca bizantina.
A Kaukana, località del comune di Santa Croce Camerina in provincia di Ragusa, l’area archeologica mostra i ruderi dell’abitato di epoca tardo romana e bizantina, mentre la Cittadella dei Maccari, località a sud dell’area naturalistica di Vendicari presso Noto, è un villaggio bizantino sorto nel 6. secolo, dove si trovano fra l’altro le rovine di una grande basilica detta “Trigona”, perché possiede tre absidi, che si presenta come un caseggiato agricolo; vicino a questa sorgono diverse catacombe dello stesso periodo, resti di abitazioni e altri edifici, segno anche della vitalità dell’antico centro commerciale.
Pag. 102-3

Nell’altra grande isola infine l’archeologia ha conseguito rilevanti risultati nell’esplorazione del passato bizantino, ancorché in genere piuttosto specialistici: si segnala a questo proposito il recupero di un’ottantina di sigilli nel sito di San Giorgio (comune di Cabras), dove sorgeva una chiesa dedicata al santo, pertinenti a cancellerie ecclesiastiche e non, con scritte sia greche sia latine.
Tra i sigilli di ambito non ecclesiastico se ne trova uno di Anastasia, correggente l’Impero con Costante 2. e Costantino 4., sul trono dal 654 al 668; vi sono poi una bulla di un tal Giorgio cubicolario imperiale nel 7. Secolo, un sigillo di Pantaleone, mandatario imperiale vissuto nel 7. -8. secolo, e sigilli di altri dignitari, fra cui consoli, ex prefetti e generali.
L’epigrafia ci offre infine due testimonianze interessanti per la storia universale dell’isola.
La prima iscrizione, oggi conservata nella basilica di San Saturno o Saturnino a Cagliari e riportabile al 6. secolo, presenta un testo latino di difficile lettura, ma che può essere ricomposto riconducendolo alla tomba di un tal Gaudiosus, sottufficiale del reparto dei dromonarii, ossia  della marina da guerra imperiale.
La seconda, latina anch’essa e databile a epoca più tarda (7. od 8. secolo), fa invece riferimento alle vittorie sui longobardi e altri barbari di un imperatore di nome Costantino (quindi Costantino 4. o Costantino 5.) e fu fatta apporre da un altro Costantino, di cui nulla si sa, ypatos e dux di Sardegna, cioè governatore imperiale dell’isola.
Pag. 103-4


Cap. 4. Venezia e Bisanzio

Venezia è ancora oggi una città sotto molti aspetti complicata e tale è anche la storia delle sue origini.
Il motivo è essenzialmente tecnico: le testimonianze materiali che consentono di ricostruirle sono poche, le fonti documentarie assai scarse e gli storici locali scrivono molto tardi rispetto agli avvenimenti.
La più antica fonte narrativa di cui disponiamo, l’Istoria Veneticorum di Giovanni Diacono, risale infatti a poco dopo il Mille, mentre la composizione del testo cronachistico noto come Origo civitatum Italiae seu Venetiarum si data  fra 11. e 12. Secolo.
Più tarda ancora è inoltre la Chronica extensa del doge Andrea Dandolo, composta nel Trecento, che rappresenta la prima storia ufficiale di Venezia e, di conseguenza, è uno strumento indispensabile per le vicende dei secoli delle origini.
Le opere storiche di provenienza veneziana presentano inoltre una caratteristica del tutto peculiare che consiste nella mitizzazione dell’origine della città, legandola a eventi leggendari e in particolare tacendo sulla dipendenza da Bisanzio, che feriva l’orgoglio civico al tempo in cui vennero scritte.
A ciò si aggiunge infine un ulteriore problema costituito dalla difficoltà di utilizzare l’Origo, in cui non solo si ha mescolanza di realtà e leggenda, ma anche un incredibile disordine espositivo, con continue confusioni cronologiche, e, almeno in apparenza, la mancanza di un qualsiasi filo logico nella narrazione.
Pag. 105

Le isole veneziane restarono sotto il dominio imperiale anche dopo che i longobardi misero fine all’esarcato, ma i rapporti con Costantinopoli cominciarono ad allentarsi, al punto che nell’804 andò al potere a Malamocco (dove nel 742 era stata spostata la capitale) il doge Obelerio, rappresentante del partito filo franco e, quindi, avverso a Bisanzio.
La situazione territoriale in terraferma si era infatti profondamente modificata: Carlo Magno nel 774 aveva messo fine al regno dei longobardi conquistando dopo qualche tempo anche l’Istria.
Nell’800 si era inoltre fatto proclamare imperatore, contrapponendo così a Bisanzio una nuova potenza con una decisa volontà di supremazia in Occidente.
In questo modo Venezia passava di fatto nell’orbita carolingia senza un’apparente reazione da parte di Bisanzio; quando però nell’806 Carlo Magno assegnò Venezia, l’Istria e la Dalmazia al figlio Pipino, nella sua qualità di re d’Italia, l’imperatore Niceforo 1., per riaffermare i diritti di Bisanzio, inviò una flotta che andò a gettare le ancore nella laguna veneta.
Ne seguì una guerra bizantino-franco-venetica, con l’arrivo di un’altra flotta bizantina a Venezia, un tentativo apparentemente fallito da parte di Pipino di conquistare le isole e, infine, una pace conclusa ad Aquisgrana nell’812 con cui Costantinopoli riconosceva a Carlo Magno il titolo di imperatore, ma in cambio otteneva il dominio su Venezia, ma in cambio otteneva il dominio su Venezia.
L’inviato imperiale che aveva trattato con Carlo Magno, lo spatario Arsafio, nell’811 a nome del suo signore dichiarò deposti il doge filo franco Obelerio e i due suoi fratelli associati al trono, sostituendoli con il duca lealista Agnello Partecipazio e riportando così decisamente il governo cittadino sotto l’influenza di Costantinopoli.
Pag. 112-13

Venezia fu nel Medioevo la città più legata a Bisanzio e, anche al di là della sua indipendenza, mantenne un vincolo di sostanziale alleanza con l’Impero fino al 12. secolo, quando sotto i sovrani Comneni i rapporti cominciarono a incrinarsi.
La coincidenza di interessi nel far sì che le rotte adriatiche e le regioni che su queste si affacciano fossero sgombre da nemici comuni spinse infatti a più riprese il governo veneziano a intervenire in favore dei bizantini.
Pag. 114

Dal punto di vista istituzionale, per esempio, possiamo ravvisare una chiara influenza bizantina nel sistema di coreggenza, che in alcuni occasioni consentì la successione dei dogi veneziani al potere.
Era consuetudine a Bisanzio, infatti, che il sovrano in carica si associasse uno o più colleghi formalmente di pari grado.
Questo sistema da un lato poneva rimedio alla tradizionale instabilità del potere supremo, dall’altro consentiva il formarsi di dinastie più o meno durature.
A Venezia la coreggenza venne introdotta da Maurizio Galbaio, doge dal 764 al 787, che si associò al potere il figlio, e venne conservata fino all’abolizione del 1032.
Il doge del primo periodo aveva un’autorità di tipo regale, che venne limitata molto più tardi fino a trasformarlo in un semplice magistrato cittadino.
Al di là dei meccanismi istituzionali, inoltre, anche il rituale della corte bizantina influenzò la Venezia delle origini.
La trasmissione del potere comportava, alla maniera bizantina, una consegna delle insegne da parte del collega più anziano, di cui si ha notizia per la prima volta a Venezia nell’997 al momento del passaggio dei poteri fra Giovanni Partecipazio e Pietro 1. Candiano.
La cerimonia avvenne con al consegna di tre emblemi, la “spada, il bastone e il seggio”, che erano forse anche antiche insegne in qualche modo venute da Bisanzio.
Pag. 114-15

Il privilegio concesso a Venezia nel 1082 segnò l’inizio della loro straordinaria fortuna in Levante.
Venne attribuito attraverso l’emissione di una “crisobolla” (chrysoboullos logos, come si chiamava tecnicamente l’atto imperiale), ossia un documento all’apparenza unilaterale con cui veniva accordata una concessione sovrana, espressa come tale nella forma solenne dell’editto munito di sigillo aureo, ma che in realtà, in questo come in altri casi, era piuttosto il risultato di un accordo bilaterale conclusi a seguito di trattative.
Nel maggio del 1082, durante il soggiorno a Costantinopoli, Alessio Comneno emise infatti una crisobolla con la quale concedeva ampi privilegi alla città alleata in cambio dell’aiuto prestato e dell’impegno a mantenere l’alleanza anche in futuro, sulla base di quanto concordato qualche tempo prima nelle trattative svolte dai suoi ambasciatori a Venezia.
L’aiuto era quanto mai necessario per far fronte all’aggressione dei normanni e l’imperatore largheggiò in concessioni, come d’altronde si era impegnato a fare chiamando in soccorso i veneziani.
Concesse loro pertanto titoli nobiliari, elargizioni in denaro, proprietà fondiarie e privilegi di natura commerciale.
Questi ultimi furono senza dubbio i più importanti, perché le esenzioni attribuite fecero ottenere una posizione di preminenza nel commercio orientale.
I veneziani avevano già ottenuto vantaggi di questo genere nel 992, con una crisobolla di Basilio 2., ma si era trattato di una semplice riduzione di imposte per le navi che arrivavano a Costantinopoli.
Ora al contrario furono autorizzati a commerciare in pressoché tutto l’impero senza pagare tasse né andare soggetti a controlli.
Un notevole salto di qualità, tale da determinare inevitabilmente il predominio di Venezia, che sarebbe stato gravido di conseguenze negative per Bisanzio.
Al momento, tuttavia, non se ne valutò appieno la pericolosità, sia per lo stato di necessità sia perché, probabilmente, il volume dei traffici veneziani non era tale da destare preoccupazioni.
L’importanza dell’avvenimento non sfuggì però a una osservatrice attenta come Anna Comnena, figlia e biografa di Alessio 1.
Pag. 117-18

Cap. 5. L’invadenza dell’Occidente

Il secolare dissidio con la chiesa di Roma si avvicinò allo scisma nel 9. secolo con l’avvento al trono patriarcale di Costantinopoli dell’erudito Fozio.
Imparentato con la famiglia imperiale e nato a Costantinopoli verso l’820, fu un uomo di grande erudizione e scrittore fecondo: la sua opera principale, preziosa fonte di informazione per i moderni, è la Biblioteca, una serie di epitomi, riassunti o commenti di duecentosettantanove testi greci di vario argomento, che in alcuni casi ci dà notizie su scritti oggi scomparsi.
Nell’858, dopo la deposizione di Ignazio Fozio fu scelto come un nuovo patriarca di Costantinopoli da Teodora, reggente dell’impero per conto del minore Michele 3., nonostante fosse un laico: un fatto peraltro non insolito a Bisanzio.
L’ex patriarca Ignazio andò a Roma per lamentare il trattamento subito: papa Niccolò 1. gli diede ascolto e convocò un sinodo che non riconobbe l’elezione di Fozio dichiarandola illegittima, dato che era stato di fatto imposto da Barda, l’onnipotente zio dell’imperatore, che aveva costretto alla rinuncia il precedente patriarca.
Fozio, con l’appoggio di Barda e del suo sovrano, entrò in conflitto con il papa Niccolò e convinse gli ambasciatori a lui inviati da Roma  a ritenere legittima la sua elezione.
Il papa dichiarò deposto Fozio nell’863, ma Michele 3. Si schierò a favore del patriarca, respingendo la pretesa romana al primato religioso.
Fozio a sua volta attaccò la chiesa di Roma sul piano dottrinale: un sinodo riunito a Costantinopoli nell’867 scomunicò il papa, condannò come eretica la dottrina romana della duplice processione dello Spirito Santo e respinse come illegali le intrusioni romane nelle questioni della chiesa bizantina.
Si sarebbe probabilmente arrivati allo scisma, ma improvvisamente Michele 3. fu deposto e il nuovo imperatore Basilio 1. Cambiò politica religiosa.
Il sovrano fece rinchiudere Fozio in un monastero e richiamò Ignazio, rappacificandosi così con Roma.
In seguito tuttavia, deluso dalla sua precedente politica ecclesiastica, Basilio 1. fece tornare a corte Fozio che nell’887, alla morte di Ignazio, salì di nuovo sul trono patriarcale e questa volta venne anche riconosciuto da Roma.
Pag. 121-22

A più riprese infine Liutprando mette l’accento su uno dei principali temi di polemica fra Oriente e Occidente, che sarebbe durato anche in seguito, ossia la pretesa dei sovrani di Bisanzio di essere gli unici ad aver diritto al titolo di imperatore, basileus in lingua greca, e di essere considerati gli unici eredi diretti dei cesari romani.
“Voi non siete romani ma longobardi”, sembra aver esclamato alla presenza dell’ambasciatore d’Occidente Niceforo Foca, che considerava il sovrano, Ottone 1., nient’altro che un re; a sua volta Liutprando definisce con disprezzo i bizantini semplicemente “greci”, cosa che ai loro orecchi suonava alquanto offensiva.
Non si trattava d’altronde di una novità: nell’812 i bizantini con la pace di Aquisgrana avevano riconosciuto senza entusiasmo a Carlo Magno il titolo di imperatore, ma non di imperatore dei romani, che riservavano al loro sovrano.
Questa condiscendenza non era comunque durata molto: dodici anni più tardi Michele 1. scrivendo a Ludovico Pio lo qualificava come “glorioso re dei franchi e dei longobardi e chiamato loro imperatore”.
Allo stesso modo Basilio 1. rifiutava a Ludovico 2. il titolo di imperatore dei romani, concedendogli soltanto quello di imperatore dei franchi.
Durante l’ambasceria di Liutprando, con la tensione generata dalla guerra in corso, si ebbe poi un incidente diplomatico che andava al di là del semplice conflitto protocollare: arrivarono infatti a Costantinopoli legati a papa Giovanni 13. con lettere in cui Niceforo Foca veniva definito “imperatore dei greci” mentre Ottone 1. era “imperatore augusto dei romani”, e vennero incarcerati per l’intollerabile oltraggio.
Pag. 128-29

Nella seconda metà dell’11. secolo le distanze fra Oriente e Occidente iniziarono ad accorciarsi e quest’ultimo divenne sempre più aggressivo.
Entrarono in gioco infatti due fattori nuovi: la generale rinascita dell’Europa occidentale dopo il Mille, con le effervescenze sociali e politiche che essa comportò, e la progressiva crisi dell’Impero di Bisanzio.
Nel generale quadro di rinnovati movimenti delle persone, l’Impero iniziò a presentarsi come una meta appetibile per chi era attirato dalle prospettive di guadagno o anche per gli Stati che avevano intenzioni aggressive.
I bizantini stessi, dopo secoli di un sostanziale cambiamento, si aprirono sempre più all’Occidente e questo fenomeno si fece avvertire soprattutto sotto la dinastia dei Comneni, sul trono dal 1081 al 1185.
Manuele 1. Comneno, il terzo sovrano della dinastia,  amava le usanze occidentali e le introdusse a corte modificando la mentalità e le tradizioni della sua gente.
Si fecero strada così i tornei cavallereschi accanto alle tradizionali corse di carri, per secoli il divertimento preferito dai bizantini, e anche nella scelta dell’imperatrice si fece avvertire il cambiamento: mentre per secoli i sovrani avevano sposato le loro suddite, salvo rare eccezioni ora iniziano a preferire le straniere, e la prassi in seguito sarebbe divenuta la regola.
L’influsso massiccio di occidentali fece tuttavia maturare, come naturale evoluzione, anche un processo di ostilità crescente, rivolta a contenerne sia la pressione militare sia la presenza ingombrante nella vita sociale ed economica dell’Impero.
Pag. 129-30

Le crociate risvegliarono gli entusiasmi e i desideri di conquista degli occidentali e segnarono nello stesso tempo l’inizio di una crisi irreversibile per Bisanzio.
Il movimento crociatistico – come è noto – ebbe inizio nel 1095, quando papa Urbano 2. al Concilio di Clermont fece appello ai fedeli per condurre la “guerra santa”, e divenne in seguito un aspetto caratteristico della cristianità occidentale.
La definizione di crociata si adattò progressivamente a ogni guerra contro i nemici della fede, ivi compresi gli eretici, ma come crociate più importanti sono in genere ricordate sette od otto spedizioni, che ebbero luogo fra 11. e 13. secolo.
Di queste, le prime quattro coinvolsero direttamente l’Impero d’Oriente, generandovi riflessi pesanti e del tutto negativi.
L’appello di papa Urbano 2. suscitò un grande entusiasmo nella cristianità occidentale: l’adesione all’impresa andò al di là delle aspettative e l’idea di combattere per la fede colpì profondamente l’immaginazione dei contemporanei.
Il richiamo mistico di Gerusalemme e il miraggio di grandi avventure infiammarono i cuori dell’uomo medievale eccitando gli animi di tutti, dai grandi signori feudali agli umili popolani.
Pag. 135

Il fallimento delle operazioni in Asia Minore, di cui i maggiori responsabili furono i capi della spedizione, venne propagandisticamente attribuito ai bizantini: come già al tempo della prima crociata si era parlato di un tradimento bizantino, ora Luigi 7. lamentò lo stesso motivo fra le cause della sconfitta.
Il cronista ufficiale della spedizione, Oddone di Deuil, fu ancora più esplicito e rimproverò all’Impero l’insufficiente appoggio logistico, il costo eccessivo delle vettovaglie, l’inefficienza delle guide e, cosa ancora più grave, un’alleanza con i turchi contro i cristiani.
Vere o false che fossero le accuse, contribuirono a inasprire i rapporti fra Oriente e Occidente, che negli anni successivi si fecero sempre più tesi.
Da parte occidentale si guardava con sospetto crescente all’Impero, visto come una potenza inaffidabile e pericolosa e, viceversa, a Bisanzio cresceva di giorno in giorno l’animosità contro i latini.
Pag. 147

L’intesa con il re di Germania non venne tuttavia meno e l’inizio della campagna in Italia fu fissato per il 1152, ma Corrado 3. morì  il 15 febbraio di quell’anno senza che nulla fosse stato fatto.
Il nuovo sovrano tedesco, Federico 1. Barbarossa, si mostrò molto più tiepido di fronte a un accordo con i bizantini, da cui li divideva la sua pretesa all’egemonia, e il progetto di guerra comune sfumò.
Ciò malgrado, nel giugno del 1155, quando il Barbarossa si trovava in Italia, le forze imperiali attaccarono la Puglia giungendo in poco tempo alle porte di Taranto.
Fu però una vittoria di Pirro: l’anno successivo il nuovo re di Sicilia, Guglielmo 1., sconfisse i bizantini in prossimità di Brindisi, procedendo quindi alla riconquista del territorio che gli era stato sottratto.
Nella primavera del 1158, infine, con la mediazione di papa Adriano 4., venne concluso un trattato in forza del quale i bizantini abbandonarono la penisola.
L’impresa non fu soltanto un insuccesso militare, ma ebbe anche pesanti conseguenze politiche: creò infatti un contrasto insanabile fra l’imperatore di Bisanzio e il collega germanico, e segnò l’inizio di una progressiva frattura nelle relazioni con Venezia.
Il timore di una riaffermata presenza bizantina in Italia aveva spinto la repubblica a concludere un trattato con Guglielmo 1. Nel 1154, così che al momento delle ostilità Venezia restò neutrale.
Per aggirare l’ostacolo, Manuele Comneno nel 1155 si rivolse a Genova, gettando le basi di un accordo, ma la diplomazia normanna vanificò la sua opera ottenendo che anche questa città restasse neutrale.
Pag. 148

La questione centrale del disaccordo fra Venezia e Bisanzio, cioè il risarcimento dei danni, non venne ufficialmente definita, sebbene gli ambasciatori fossero stati incaricati di farlo, ma è possibile che essa sia stata comunque regolata.
In compenso furono determinati altri punti la riconferma dei privilegi commerciali e una serie di provvedimenti relativi allo stato giuridico dei veneziani che vivevano a Bisanzio.
Il resto dell’accordo del 1187 venne integralmente riproposto nella nuova crisobolla, sia pure con le modifiche dovute alla mutata situazione politica, che identificavano nuovi amici e nuovi avversari.
Alessio 3. riconfermò i privilegi commerciali sanciti dalle crisobolle dei suoi predecessori e a sua volta dichiarò solennemente la completa libertà di commercio per i veneziani con l’esenzione da tutte le imposte.
Per sgombrare il campo da possibili equivoci, inoltre, fece elencare nella crisobolla tutte le città o regioni in cui essi avrebbero potuto esercitare il commercio.
Erano infatti sorte controversie a motivo dell’incompletezza delle precedenti concessioni, che non indicavano esattamente tutte le zone aperte ai traffici veneziani; gli ambasciatori se ne erano lamentati con il sovrano ed egli volle così definire una volta per tutte la questione.
La lista comprendeva pressoché tutto l’impero, come si configurava a quel tempo, e anche alcune località che non ne facevano più parte, come Antiochia o Laodicea in Siria.
Ne restavano però escluse le zone costiere del mar Nero, mantenendo la decisione già adottata al tempo di Alessio 1. Comneno.
Su richiesta degli ambasciatori venne infine definita la condizione dei veneziani residenti a Bisanzio, ai quali furono date alcune garanzie giurisdizionali per meglio tutelarli.
Questo accordo solenne concludeva la serie dei patti fra Venezia e l’Impero iniziata oltre un secolo prima.
Fu l’ultimo tentativo di definire su base pacifica un rapporto divenuto sempre più difficile: agli umori oscillanti dei sovrani di Bisanzio corrispondeva da tempo il desiderio veneziano di una sicurezza che salvaguardasse i loro interessi in Oriente.
Bisanzio, minacciata da ogni parte e senza più una politica coerente, non offriva le necessarie garanzie al comune veneziano, per il quale il mantenimento della regolarità dei traffici in Levante era di capitale importanza.
Pag. 163-64

Cap. 6. La quarta crociata e l’Impero latino

La battaglia di Adrianopoli salvò Nicea dalla probabile sottomissione e gli occidentali dovettero temporaneamente evacuare l’Asia Minore, permettendo così al nuovo impero di consolidarsi e raccogliere l’eredità di Costantinopoli.
Teodoro Lescaris organizzò il nuovo Stato sul modello di Bisanzio facendovi rivivere sia l’impero sia il patriarcato.
Egli e i suoi successori entrano nella storia dei sovrani di Costantinopoli come una sorta di governo imperiale in esilio: si considera infatti la serie dei sovrani di Nicea quale legittima successione di Alessio 5. dopo la presa della capitale.
All’Impero latino e al patriarca latino si vennero perciò contrapponendo un patriarca ortodosso e un imperatore greco a Nicea.
Nicea rappresentava un pericolo per l’Impero latino e il nuovo titolare di questo, Enrico di Fiandra, fratello di Baldovino, riprese il progetto di sottometterla dopo aver arrestato l’espansione dei bulgari.
La guerra si trascinò per alcuni anni senza risultati notevoli, finché, nel 1214,  venne concluso il trattato di Ninfeo che definì i confini dei due imperi: allo Stato latino sarebbe rimasta la costa nord-occidentale dell’Asia Minore, mentre il resto fino alla frontiera con i Selgiuchidi sarebbe andato a Nicea.
I latino riconoscevano così l’esistenza dell’Impero greco in Asia Minore, non essendo riusciti a eliminarlo con le armi.
Pag. 177-78

L’Impero latino aveva subito un colpo terribile con la disfatta di Adrianopoli e negli anni che seguirono si trasformò sempre più in un morto vivente, privo di ogni energia, e mantenuto in vita soltanto perché sostenuto dalla flotta veneziana, con la quale le forze nicene non erano in grado di confrontarsi a motivo delle sua superiorità tecnica.
Lo stato di cronica debolezza dell’Impero latino fu aggravato da una pesante crisi finanziaria.
Baldovino 2., sul trono dal 1228, trascorse lunghi anni in Occidente nella disperata quanto inutile ricerca di sostegno, vendendo i possedimenti aviti e rivolgendosi in varie direzioni per far sopravvivere la dominazione latina  a Costantinopoli: una dopo l’altra vennero anche cedute le reliquie più preziose in possesso dell’Impero latino e giunsero così a Parigi la corona di spine e altre reliquie della passione, per accogliere le quali re Luigi il Santo fece costruire la Saint-Chapelle.
A causa del continuo bisogno di denaro, infine, Baldovino 2. Finì per dare in pegno ai mercanti veneziani il figlio Filippo e per vendere il piombo che ricopriva i tetti dei suoi palazzi.
Ogni sforzo fu però inutile e l’Occidente abbandonò Costantinopoli latina al suo destino, con la sola eccezione dei veneziani, che fino all’ultimo cercarono di preservarla per il loro tornaconto.
Pag. 180

I genovesi inviarono qualche nave in oriente, ma il loro aiuto non fu necessario, perché Costantinopoli cadde in modo imprevisto.
La città venne infatti occupata quasi per caso da un generale di Nicea di nome Alessio Strategopulo, che era stato inviato in missione in Tracia con circa ottocento uomini e l’ordine di passare vicino alla capitale per spaventare i latini.
Quando egli giunse in prossimità di Costantinopoli, venne a sapere che era pressoché priva di difensori e decise di approfittarne.
L’intera flotta, costituita da trenta navi veneziane e una siciliana, era infatti partita al comando del podestà Marco Gradenigo per attaccare un’isola del Mar Nero appartenente a Nicea; su di essa si era inoltre imbarcata quasi tutta la guarnigione latina, lasciando in città soltanto l’imperatore Baldovino 2. con il suo seguito.
Con l’aiuto di alcuni residenti, i Niceni entrarono in Costantinopoli nella notte tra il 24 e il 25 luglio: al mattino seguente i latini cercarono di resistere, ma vennero dispersi e Baldovino 2., vista inutile ogni difesa, si preparò a fuggire.
Nel corso della stessa giornata fece ritorno la flotta veneziana e Alessio Strategopulo ordinò di dare fuoco alle case dei latini lungo la riva, cominciando da quelle veneziane, in modo che questi pensassero alel loro famiglie e non al contrattacco.
Lo stratagemma fu efficace e gli occidentali non poterono far altro che provvedere all’evacuazione, ammassandosi sulle loro navi in numero di circa tremila.
Fuggirono anche l’imperatore, ferito nell’ultima battaglia, il podestà veneziano e il patriarca latino Pantaleone Giustiniani.
I profughi raggiunsero la veneziana Negroponte, ma molti morirono di fame e di stenti durante il viaggio.
Finì così quella brutta pagina di storia che fu l’Impero latino di Costantinopoli e l’Impero di Bisanzio venen restaurato, anche se nella pratica era divenuto l’ombra di sé stesso: si affermava inoltre la nuova dinastia dei Paleologi, la più duratura di Bisanzio, che sarebbe stata sul trono fino alla fine.
Pag. 181-82

Cap. 7. Il declino di Bisanzio

L’epoca dei Paleologi rappresenta l’ultima fase della storia di Bisanzio.
L’Impero, ricostruito nel 1261, riuscì a sopravvivere per circa due secoli, anche se riducendosi progressivamente nell’estensione e in preda a un continuo processo di disfacimento.
L’opera di erosione del territorio residuo venne attuata dai tradizionali nemici balcanici e orientali, che approfittarono della debolezza di Bisanzio per espandersi, nonché dalle repubbliche marinare di Genova e di Venezia, la cui ipoteca sul secondo impero si fece sempre più pesante.
Il colpo definitivo fu tuttavia assestato dai Turchi ottomani, la stirpe guerriera che iniziò a imporsi nel 14. secolo, la cui incontestabile potenza finì per travolgere ciò che restava di Bisanzio e gran parte dei possedimenti occidentali costituitisi dopo la quarta crociata, espandendosi anche ai danni degli Stati balcanici tradizionalmente nemici dell’Impero.
La crisi politica dell’epoca paleologa ebbe anche pesanti ripercussioni sul piano interno, che si fecero drammaticamente avvertire nel corso del Trecento, con un generale impoverimento della popolazione, eccezion fatta per una classe ristretta di grandi proprietari terrieri, una forte contrazione delle attività economiche e la perdita del controllo dei mercati, passato in gran parte in mano alle repubbliche marinare italiane.
In stridente contrasto con la decadenza di Bisanzio, tuttavia, la cultura letteraria e la produzione artistica ebbero un periodo di rigogliosa fioritura.
Pag. 183

L’Occidente, brutalmente cacciato da Costantinopoli, non stava intanto a guardare.
I veneziani attuarono velleitari tentativi per promuovere una coalizione antibizantina all’indomani della caduta di Costantinopoli, ma qualche cosa di concreto si ebbe soltanto quando sulla scena politica si affermò Carlo d’Angiò.
L’eliminazione del dominio svevo in Italia meridionale (nel 1266) e l’avvento al trono di Sicilia di Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, diedero infatti un nuovo impulso ai piani espansionistici ai danni di Bisanzio.
Intenzionato a conquistare l’Impero, Carlo d’Angiò si assicurò l’appoggio papale e, in forza di accordi diplomatici che ne facevano l’alleato del deposto sovrano latino, rivendicò il diritto alla sovranità su Costantinopoli, iniziando nello stesso tempo i preparativi per una grande spedizione militare.
Privo delle forze per contrastarlo, Michele 8. cercò di ritardare l’impresa e, nello stesso tempo, di giocare la carta diplomatica dell’unione religiosa con Roma, che avrebbe tolto la spinta propagandistica per l’attacco alla scismatica Bisanzio.
La sua diplomazia convinse il re di Francia, Luigi 9., a portare con sé il fratello nella crociata di Tunisi nel 1270 e l’anno successivo vennero avviati i contatti con Roma, resi possibili dall’elezione del papa italiano Gregorio 10., ben disposto nei confronti di Costantinopoli e nello stesso tempo avverso alla politica angioina.
Le trattative andarono a buon fine: nel 1274 fu convocato un concilio a Lione, dove il dissidio fra le due chiese venen formalmente ricomposto con la proclamazione dell’unione religiosa e i delegati bizantini giurarono di accettare la fede romana nonché il primato di Roma.
I vantaggi politici furono immediati: Carlo d’Angiò dovette rinunciare ai piani di conquista e Michele 8. poté avviare una controffensiva su vari fronti.
L’unione però ebbe gravi contraccolpi interni a Bisanzio per l’opposizione pressoché compatta del clero, del monachesimo e di buona parte della popolazione, così da spingere Michele 8. a mettere in atto pesanti persecuzioni dei dissidenti.
L’unione inoltre non fu duratura e con l’avvento al seggio papale nel 1281 del francese Martino 4., strumento di Carlo d’Angiò, si tornò alla rottura aperta: il papa condannò Michele 8. come scismatico e l’Angiò (che già nel 1280 aveva attaccato senza successo l’Albania imperiale) poté riprendere i suoi piani di conquista, promuovendo uan coalizione antibizantina formata dall’erede al trono latino Filippo di Courtenay, Venezia, Tessaglia (che nel 1271 si era staccata dell’Epiro), Serbia e Bulgaria.
I serbi e il despota di Tessaglia irruppero in Macedonia nel 1282 e l’Angiò, con l’aiuto navale di Venezia, si apprestò a dare il colpo definitivo al nemico; la situazione fu però salvata all’ultimo momento dalla rivolta dei Vespri siciliani, scoppiata a Palermo nel marzo del 1282, alla quale non fu estranea la diplomazia di Costantinopoli.
A seguito di questa rivolta, infatti, la Sicilia si liberò del dominio francese e il tentativo dell’Angiò di rientrarne in possesso fu ostacolato dalla potenza rivale degli aragonesi, con cui si accese un violento conflitto (destinato a trascinarsi fino al 1302, oltrepassando la vita stessa dei primi protagonisti) a seguito del quale naufragò ogni progetto di spedizione in Oriente.
Pag. 185-86

Di fronte a una situazione del genere, il governo della città lagunare perse interesse per quanto stabilito a Capua, che neppure fu messo in pratica, e pensò piuttosto a un accordo di più ampia portata: ciò ebbe come esito, il 3 luglio del 1281, il trattato concluso a Orvieto, dove papa Martino 4. aveva messo la propria residenza.
L’alleanza fu presentata come una crociata anti scismatica “a esaltazione della fede ortodossa” ma, al di là delle motivazioni di principio, lo scopo consisteva nell’insediare sul trono di Costantinopoli Filippo di Courtenay e restituire a Venezia tutti i privilegi di cui aveva goduto nell’Impero latino.
L’inizio delle operazioni era previsto entro aprile del 1283 e doveva essere preceduto da un’azione preliminare probabilmente contro Negroponte.
Vennero iniziati i preparativi, ma i Vespri siciliani tutto sconvolsero: a parte una breve puntata degli alleati a Negroponte, che a nulla servì, Venezia si defilò abbandonando l’Angiò al proprio destino e riprese le trattative con Bisanzio, con cui nel 285 avrebbe concluso un nuovo trattato.
Pag. 188

La rinuncia al mantenimento di una forza militare e la nuova linea politica ebbero un pesante contraccolpo sull’impero.
La potenza ancora esistente sotto il predecessore subì un rapido processo di contrazione, avviando Bisanzio a divenire un piccolo Stato incapace di esprimere una propria politica estera e in preda a una sempre più accentuata disgregazione interna.
La moneta andò soggetta a una forte svalutazione e nello stesso tempo si diffuse in modo sempre più massiccio la grande proprietà fondiaria, inutilmente contrastata da un tentativo imperiale di aumentare l’imposizione fiscale per i ricchi.
Sui mercati prevalsero le monete d’oro delle repubbliche italiane, portando come conseguenza un forte rincaro dei prezzi e un generale impoverimento, da cui si salvava soltanto una ricca classe dei proprietari fondiari.
Analogamente disastrose furono le ripercussioni della politica seguita nei confronti delle repubbliche marinare, la cui alleanza o neutralità gravò ulteriormente sull’erario imperiale con uan serie di concessioni o privilegi per mantenerne l’amicizia.
Pag. 189

Anche la tregua faticosamente raggiunta con Venezia era molto fragile e questa, nel 1306, si associò al progetto di crociata contro Bisanzio di Carlo di Valois, fratello di Filippo Quarto di Francia, che aveva ereditato i diritti sul trono latino e godeva dell’appoggio di papa Clemente Quinto, da cui Andronico secondo era stato scomunicato.
La spedizione comunque non ebbe mai luogo e, nel 1310, la città lagunare cambiò rotta accordandosi con il sovrano di Costantinopoli, con cui concluse un nuovo trattato.
Pag. 190

Nel 1352 si era aperta, infatti, uan nuova guerra civile fra Giovanni 6. e Giovanni 5., risolta con l’intervento dei turchi ottomani (l’etnia emergente nella galassia delle tribù turche dell’Asia Minore) a vantaggio del reggente.
L’amicizia con i turchi – che fu un cardine della politica di Giovanni 6. -  alla lunga finì tuttavia per rivelarsi un’arma a doppio taglio e ne causò la caduta.
Gli ottomani nel 1354 penetrarono infatti in territorio europeo, impossessandosi di Gallipoli, che non abbandonarono malgrado le pressanti richieste dell’imperatore.
Per Cantacuzeno fu uno scacco di ampie dimensioni, perché Gallipoli era una testa di ponte per la conquista dell’Europa, e su di lui ricadde la responsabilità di aver aperto le vie del continente ai nuovi invasori.
La sua posizione si indebolì, a vantaggio di una congiura promossa da Giovanni 5. con l’appoggio del corsaro genovese Francesco Gattilusio, cui fu promessa come ricompensa l’isola di Lesbo.
Questa ebbe successo e l’usurpatore du deposto nel novembre del 1354 e costretto a divenire monaco; visse ancora per un trentennio, partecipando alla vita pubblica e attendendo alla composizione delle opere letterarie, fra cui una monumentale storia degli avvenimenti del tempo che ancora si conserva.
Il governo dei Cantacuzeno sopravvisse tuttavia in Morea, dove nel 1348 era stato istituito un despotato, retto fino al 1380 dal figlio dell’ex imperatore per poi passare ai  Paleologi.
Pag. 194

Il pericolo rappresentato dalla espansione ottomana cominciò a essere seriamente avvertito anche in Occidente (dove già dagli anni Trenta Venezia di era adoperata per promuovere alleanze antiturche), ma le continue rivalità fra le potenze rendevano assai problematica un’azione comune.
Il tradizionale antagonismo tra Venezia e Genova, in particolare, rendeva improponibile un progetto politico indipendente dagli interessi particolari delle due repubbliche, sebbene la conservazione delle posizioni in Levante fosse preminente per entrambe.
L’atteggiamento nei confronti di Bisanzio, a ogni modo, cominciò a modificarsi al tempo di Giovanni 5. e, dalla consueta ostilità, si passò a una sempre maggiore consapevolezza del ruolo di frontiera cristiana svolto da Bisanzio, valutando le ricadute negative che la sua scomparsa avrebbe prodotto anche in Occidente.
Pag. 195

Le residue sopravvivenze bizantine rappresentavano un ostacolo per i suoi piani di dominio a Costantinopoli, in particolare, era un assurdo ricordo di una potenza ormai scomparsa, pericolosamente incuneata però nell’Impero ottomano.
Maometto 2. preparò con cura l’accerchiamento della città imperiale, che con le sue forti mura rappresentava ancora un ostacolo formidabile.
Prese dapprima una serie di iniziative volte a intercettare l’arrivo di qualsiasi aiuto esterno alla città, poi fece costruire nel punto più stretto del Bosforo la fortezza di Rumeli Hisari, aggiungendola a quella di Anadolu Hisari fatta edificare da Bayazid sulla sponda asiatica, e dotandola di un imponente spiegamento di artiglieria in grado di impedire a chiunque la navigazione.
Quando l’accerchiamento fu completato, ebbe inizio l’assedio vero e proprio.
Pag. 203

Una volta in più le potenze occidentali non erano accorse in difesa di Costantinopoli, malgrado gli appelli disperati di Costantino 9. e i pericoli connessi alla perdita della città, che avrebbe offerto ai turchi una posizione strategica di prim’ordine per proseguire il loro attacco al mondo cristiano.
La flotta veneziana inviata in aiuto degli assediati partì con incredibile ritardo e non arrivò mai sul teatro operativo, perché fu preceduta dalla notizia della caduta di Costantinopoli in mano turca.
Nell’inutile tentativo di ottenere l’aiuto dell’Occidente, l’imperatore bizantino aveva fatto proclamare di nuovo l’unione religiosa in Santa Sofia (12 dicembre 1452), suscitando l’indignata reazione dei suoi sudditi, in grande maggioranza determinati a sopportare il dominio turco che la soggezione a Roma.
I turchi vincitori proseguirono negli anni immediatamente seguenti l’assoggettamento di ciò che restava dell’Impero di Bisanzio: la Morea nel 1460 e Trebisonda l’anno successivo.
Molti bizantini fuggirono riparando soprattutto in Italia e, fra questi, un buon numero di eruditi che contribuirono alla diffusione in Occidente della cultura greca.
Il ducato di Atene, residuo della conquista latina, fu ugualmente travolto nel 1456, mentre alcune delle colonie genovesi e veneziane costituite nel corpo dell’Impero avrebbero resistito più o meno a lungo alla marea turca.
Con la conquista di Costantinopoli, a ogni modo, finiva la storia di Bisanzio, ma la sua tradizione fu portata avanti attraverso la cultura greca, che nel corso del 15. secolo si affermò decisamente in Occidente e attraverso la chiesa ortodossa che ne raccolse l’eredità.
L’Occidente, che per secoli aveva avuto un rapporto travagliato con Bisanzio, era rimasto politicamente a guardare senza essere in grado di elaborare un progetto comune per soccorrere l’Impero, nonostante il vantaggio che ne avrebbe ricavato.
In questo quadro desolante fecero eccezione i veneziani residenti a Costantinopoli, che contribuirono  valorosamente alla difesa.
Il bailo Gerolamo Minotto, eroe della battaglia per Costantinopoli, pagò con la vita assieme ad altri nobili la sua dedizione.
Fu catturato dai turchi e il giorno successivo, il 30 maggio 1453, venne decapitato per ordine del sultano insieme a uno dei suoi figli e ad altri sette nobili veneziani, mentre la moglie andò incontro alla prigionia e un altro figlio riuscì probabilmente a fuggire.
Venezia infine fece da ponte per molti eruditi greci fuggiti in Occidente e ospitò una folta comunità greca, alla quale nel Cinquecento sarebbe stato dato anche il riconoscimento ufficiale.

Cronologia

535         I bizantini sbarcano in Sicilia

552         Fine del regno ostrogoto in Italia

552         Intervento bizantino in Spagna

568         Invasione dei longobardi

584 ca.   Istituzione dell’esarcato in Italia

751         Caduta dell’esarcato

827         Inizio della conquista araba della Sicilia

880         Inizio della controffensiva bizantina in Italia meridionale

968         Ottone 1. invade l’Italia meridionale bizantina

970 ca.   Istituzione del catepano d’Italia

1009      I normanni compaiono in Italia meridionale

1071      Aprile: Bari si arrende ai normanni

1082      Trattato tra Bisanzio e Venezia       

1082-85 I normanni invadono l’Impero

1095      Viene bandita la prima crociata

1147-49 Seconda crociata

1155      I bizantini sbarcano in Italia meridionale

1171      12 marzo: arresto dei veneziani nell’impero

1182      Strage di occidentali a Costantinopoli

1189-90 Terza crociata

1195      L’imperatore Enrico 6. Minaccia Bisanzio

1202-4   Quarta crociata   

1204      Aprile: conquista latina di Costantinopoli

1204      Formazione dell’Impero latino di Oriente

1261      I bizantini riconquistano Costantinopoli

1261-82 Michele 8. Paleopago cerca di ricostruire l’Impero

1268      Inizio dei nuovi trattati fra Venezia e Bisanzio

1274      Concilio di Lione. Unione religiosa con Roma

1282      I Vespri siciliani mettono fine ai progetti i Carlo d’Angiò

1294-99 Guerra veneto-genovese combattuta in Oriente

1306      Carlo di Valois organizza la crociata contro Bisanzio

1352      Battaglia del Bosforo. Giovanni 6. alleato di Venezia

1366      Amedeo 6. conte di Savoia riconquista Gallipoli

1369       Giovanni 5. Paleologo si reca in Italia

1396      I crociati sconfitti dai turchi a Nicopoli

1399-1403    Manuele 2. Paleologo in Occidente

1438      Febbraio: Giovanni 8. Paleologo arriva a Venezia

1438-29 Concilio di Ferrara-Firenze

1438      Viene proclamata la riunificazione religiosa

1443-44 Crociata di Varna e sconfitta cristiana

1451       Maometto 2. sultano dei turchi

1453       Maometto 2. assedia Costantinopoli

1453      29 maggio: caduta di Costantinopoli in mano turca

1456      I turchi sottomettono il ducato di Atene

1460      Fine del despotato di Morea

1461      Caduta di Trebisonda

Bibliografia

Storia di Bisanzio / P. Lemerle. – 2004
L’Impero bizantino / N. H. Baynes. – 1971
Bisanzio: vita e morte di un impero / L. Brehier. – 1995
L’eredità di Bisanzio / N. H. Bayner e L. B. Moss (a cura di). – 1961
La civiltà bizantina / S. Runciman. – 1960
Storia e cultura di Bisanzio / H. W. Haussig. – 1964
I bizantini / D. Talbot Rice. – 1963
Storia dell’Impero bizantino / G. Ostrogorsky. – Einaudi, 1968
Storia del mondo medievale: l’Impero bizantino. – Garzanti, 1978
Bisanzio e la sua civiltà / A. P. Kazhdan. – 1983
L’Impero bizantino / F. G. Mayer (a cura di). – 1974
Bisanzio: società e Stato / J. Ferluga. – 1974
Bisanzio: storia di una civiltà / F. Cognasso. – 1976
Il dramma di Bisanzio: ideali e fallimento d’una società cristiana / A. Ducellier. – 1980
La teocrazia bizantina / S. Runciman. – 2003
Il millennio bizantino / H.-G. Beck. – 1981
La civiltà bizantina / C. Mango. – 1991
Bisanzio / A. Ducellier (a cura di). – 1988
Il pensiero politico bizantino / A. Pertusi. – 1990
L’uomo bizantino / G. Cavallo (a cura di). – 1992
Materiali di storia bizantina / A. Carile. – 1994
Bisanzio: storia e civiltà / F. Conca…et al. – 1994
Guida allo studio della civiltà bizantina / E. Pinto. – 1994
Potere e società a Bisanzio dalla fondazione di Costantinopoli al 1204 / M. Gallina. – 1995
La chiesa ortodossa: storia, disciplina, culto / E. Morini. – 1996
Bisanzio: splendore e decadenza di un impero, 330-1453 /J.-J. Norwich. – 2000
La civiltà bizantina: donne, uomini, cultura e società / a cura di G. Passarelli. – 2000
La civiltà bizantina / C. Capizzi. – 2001
Storia di Bisanzio / W. Treadgold. – 2005
Lo Stato bizantino / S. Ronchey. – 2002
Bisanzio: la seconda Roma / R.-J. Lilie. – 2005
La storia di Bisanzio / G. Ravegnani. – 2004
Introduzione alla storia bizantina / G. Ravegnani. – 2006
Lo scisma di Fozio: storia e leggenda / F. Dvornik. – 1953
Storia delle crociate / S. Runciman. – 1966
Comneni e Staufer: ricerche sui rapporti fra Bisanzio e l’Occidente nel secolo 12. / P. Lamma. – 1955-57
L’imperatore Michele Paleologo e l’Occidente / D. J. Geanakoplos. – 1985
Il Concilio di Firenze / J. Gill. – 1967
Bisanzio e il Rinascimento: umanisti greci a Venezia e la diffusione del greco in Occidente, 1440-1535 / D. J. Geanakoplos. – 1967
Il tardo Impero romano, 284-602 / A. H. M. Jones. – 1973-81
La caduta di Costantinopoli, 1453 / S. Runciman. – 2001
Gli ultimi giorni di Costantinopoli / S. Runciman. – 1997
Studi sulle colonie veneziane in Romania nel 13. secolo / S. Borsari. – 1966
Maometto il conquistatore e il suo tempo / F. Babinger. – 1967
La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal 9. all'11. secolo V. von Falkenhausen. – 1978
Il Commonwealth bizantino: l’Europa orientale dal 500 al 1453 / D. Obolensky. – 1974
Costantino Porfirogenito e il suo mondo / A. Toynbee. – 1987
Costantinopoli: nascita di una capitale, 350-451 / G. Dragon. – 1991
Per una storia dell’Impero latino di Costantinopoli, 1204-1261 / A. Carile. – 1978
L’amministrazione bizantina in Dalmazia / J. Ferluga. – 1978
L’Impero bizantino e l’islamismo / A. Guillou…et al. – 1997
I bizantini in Italia / G. Cavallo…et al. – 1982
La spedizione italiana di Costante 2. / P. Corsi. – 1983
L’Impero bizantino, 1025-1204: una storia politica / M. Angold. – 1992
L’Impero di Trebisonda, Venezia, Genova e Roma, 1204-1461: rapporti politici, diplomatici e commerciali / S. P. Karpov. – 1986
L’Italia bizantina: dall’esarcato di Ravenna al tema di Sicilia / A. Guillou e F. Bulgarella. – 1988
Venezia e Bisanzio / D. M. Micol. – 1990
Il crepuscolo di Bisanzio, 1392-1448 / I. Djuric. – 1989
Un impero, due destini: Roma e Costantinopoli fra il 395 e il 600 d. C. / A. Cameron. – 1996
I trattati con Bisanzio, 992-1198 / M. Pozza e G. Ravegnani (a cura di). – 1993
I trattati con Bisanzio, 1265-1285 / M. Pozza e G. Ravegnani (a cura di). – 1996
Bisanzio e Genova / S. Origone. – 1997
La Sardegna bizantina tra 6. e 7. secolo / P. Spanu. – 1998
Giovanna di Savoia alias Anna Paleogina, latina a Bisanzio, c. 1306-c. 1365 / S. Origone. – 1999
Theofano: una bizantina sul trono del Sacro romano impero, 958-991 / R. Gregoire. – 2000
Costantino hypatos e doux di Sardegna / F. Fiori. – 2001
Storia della marineria bizantina / A. Carile e S. Cosentino (a cura di). – 2004
L’impero perduto: vita di Anna di Bisanzio, una sovrana tra Oriente e Occidente / P. Cesaretti. – 2006
Quarta crociata: Venezia-Bisanzio-Impero latino / G. Ortalli…et al (a cura di). – 2006
Epigrafi greche dell’Italia bizantina, 7.-11. secolo / F. Fiori. – 2008
Bisanzio e le crociate / G. Ravegnani. – 2011
Gli esarchi d’Italia / G. Ravegnani. – 2011
Roma bizantina: opere d’arte dall’Impero di Costantinopoli nelle collezioni romane / S. Moretti. – 2014
Andare per l’Italia bizantina / G. Ravegnani. – 2016
Il diario dell’assedio di Costantinopoli di nicolò Barbaro / A. Codato. – 2017
Storia degli arabi in Calabria / A. M. Loiacono. – 2017
Carlo 1. d’Angiò re di Sicilia: biografia politicamente scorretta di un “parigino” a Napoli / G. Iorio. – 2018
I bizantini in Italia / G. Ravegnani. – 2018

 


Introduzione

Chi erano i “normanni”?
In tedesco tale denominazione si riferisce tradizionalmente tanto ai vichinghi – quindi agli abitanti della Scandinavia in un’epoca compresa tra la fine dell’8. secolo e la metà dell’11. – quanto ai loro discendenti che nel 10. secolo si stabilirono nel nord della Francia, adottando il cristianesimo e una lingua romanza (antico francese) e dando alla regione che occuparono il nome di Normandia.
Il duplice uso linguistico tedesco affonda le sue radici nella terminologia degli autori franchi d’età carolingia i quali appellarono “uomini del nord” i vichinghi che nel 9. secolo rendevano insicure le coste.
In inglese e in francese, ma anche nella ricerca storica, si distingue invece fra vichinghi scandinavi e abitanti della Normandia, ovvero i normanni.
D’ora in avanti si seguirà tale uso.
Nell’11. secolo un gruppo di abitanti della Normandia salpò per lidi lontani con conseguenze storiche di vasta portata: quando nell’anno 1066 il duca normanno Guglielmo, grazie alla vittoria nella battaglia di Hastings, ottenne la corona reale inglese, l’Inghilterra allentò i legami politici e culturali con la Scandinavia e si fece più prossima alla Francia.
All’incirca nello stesso periodo altri cavalieri normanni si diressero a sud conquistando gran parte dell’Italia meridionale.
Nel 1130 un loro discendente, Ruggero 2. – figlio di Ruggero 1. d'Altavilla (Hauteville) -, riunì in un nuovo regno il Mezzogiorno continentale e la Sicilia, per lungo tempo soggetti rispettivamente alla dominazione bizantina e a quella araba.
Con ciò il sud Italia entrò a far parte della cristianità latina occidentale.
Durante la prima crociata (1098) Boemondo 1., un cugino di Ruggero 2., creò un principato normanno nell’allora siriana Antiochia (oggi Antakya, Turchia).
Nel corso del 12. secolo i normanni fondarono dunque tre regni: la monarchia di Sicilia, la monarchia d’Inghilterra e il principato di Antiochia; ciò ha fatto sì che storici del 19. e del 20. secolo abbiano attribuito loro un particolare talento nell’istituzione di nuovi “Stati”.
Dal punto di vista inglese, i normanni del Medioevo anticiparono il moderno impero britannico:

intorno al 1100 i normanni avevano costituito uan sorta di Commonwealth con una loro diretta egemonia territoriale che si estendeva su di una lunga catena di Stati, dalla marca gallese lungo i fiumi Severn e Dee, attraverso la Normandia, l’Italia meridionale e la Sicilia, fino ad Antiochia e al fiume Oronte.
A ciò si aggiungano la partecipazione normanna alla liberazione della Spagna dalla dominazione islamica (reconquista) (…) e la campagna militare contro l’Impero bizantino, condotta attraverso l’Adriatico (Brown)

Con la fine del 20. secolo, l’unificazione politica dell’Europa ha fatto apparire i normanni del Medioevo sotto una nuova luce.
Ora essi venivano salutati come “popolo d’Europa”: questo il titolo di una mostra organizzata a Roma (Palazzo Venezia) nel 1994.
I normanni – così si legge nel catalogo della mostra -, grazie ai contatti creati fra il nord e il sud dell’Europa, avrebbero dato un importante contributo alla formazione di una coscienza europea.
La loro propensione all’assimilazione e all’integrazione di popoli e culture differenti rappresenterebbe un possibile modello per la creazione di una nuova identità europea, multiculturale e priva di barriere etniche (Marin).
I normanni giocarono un ruolo non secondario anche nella storia del Medioevo tedesco.
Nella cosiddetta lotta per le investiture, i papi poterono affermare l’indipendenza della Chiesa romana dall’Impero romano-germanico solo grazie all’appoggio militare offerto loro dai normanni stanziati nel sud Italia.
Nel regno di Sicilia, creato da Ruggero 2., il papato trovò infatti un importante sostegno; ogni tentativo imperiale di assoggettare il giovane regno si rivelò infruttuoso.
Alla fine Federico Barbarossa si decise a concludere una pace con i normanni dando in sposo il figlio e suo successore Enrico 6. a Costanza in Sicilia.
Quando, nel 1189, il re Guglielmo 2. di Sicilia, nipote di Costanza, morì senza figli, lei ne ereditò il regno che in tal modo venne associato all’Impero svevo.
Federico 2., figlio di Costanza ed Enrico 6., regnò su un territorio che si estendeva dal Mare del Nord al Mediterraneo.
Tuttavia la resistenza del papato, insofferente nei confronti di una situazione che avvertiva come una sorta di accerchiamento territoriale, portò infine al tramonto degli svevi (1268).
La storia dei normanni è piena di metamorfosi: i pirati scandinavi sarebbero diventati cavalieri normanni; il duca di Normandia Guglielmo il bastardo si sarebbe trasformato in Guglielmo il Conquistatore, re d’Inghilterra; in Italia, i figli di un piccolo signore si Normandia (Tancredi di Altavilla) sarebbero stati conti e duchi, e i nipoti di costoro principi e re.
Altre avventure normanne furono meno fortunate e non lasciarono traccia.
Il libro si apre con una descrizione delle origini dei normanni e della Normandia (cap. 1.), prosegue con al conquista dell’Inghilterra e le sue conseguenze (cap. 2.) e si sofferma infine sull’espansione normanna nel bacino del Mediterraneo (cap. 3.).
Accanto agli eventi politici e alle loro principali conseguenze vengono presi in esame anche i processi di acculturazione e integrazione, di stretta attualità in un mondo, come quello attuale, sempre più globalizzato e caratterizzato da migrazioni e contatti oltre che da conflitti fra religioni e culture differenti: che condotta assunsero i migranti-conquistatori normanni nel loro nuovo ambiente?
Coem reagirono gli autoctoni alla lingua, alla religione e alla cultura dei nuovi arrivati normanni?
Gli storici moderni hanno spiegato il successo dei normanni soprattutto con la loro capacità di adattamento.
Ma come ebbe luogo l’integrazione dei migranti normanni?
Quali conseguenze essa ebbe per la loro identità?
L’importanza di tali interrogativi, indubbiamente do non facile soluzione, ha suggerito di dedicare ad essi le considerazioni conclusive di questo volume.
Pag. 7-9

Cap. 1. La nascita di una regione e di un popolo

La Normandia prende il suo nome dai vichinghi (“uomini del nord”) che nei secoli 9. e 10. Si stabilirono fra la Senna e la Loira in un territorio che sarebbe diventato appunto il ducato di Normandia.
Ad eccezione del mare del Nord, tale regione era priva di confini naturali.
Incerti erano il confine occidentale con la Bretagna e quello orientale con la Piccardia, controverse le frontiere meridionali con le contee del Maine e del Perche.
Dal punto di vista politico la regione apparteneva al regno dei franchi occidentali, risultato dalla divisione dell’impero romano-franco fondato da Carlo magno (morto nell’814).
Una delle ragioni del crollo dell’impero carolingio furono proprio le incursioni dei vichinghi che, a partire dalla fine dell’8. secolo, avevano colpito l’intera Europa.
Pag. 11

Siamo così giunti alla non semplice questione della cosiddetta etnogenesi dei normanni.
In senso etnico, con popoli si intende una comunità di individui che condivide lingua, cultura e origini.
Nel 19. secolo si concepivano i popoli come unità naturali, come comunità biologiche con origine comune; ciò poté condurre a quelle teorie etnico-razziali che nel 20. secolo furono fatte proprie dal nazionalsocialismo.
Oggi gli storici concordano nel ritenere che i popoli non sono entità univocamente definibili, ma piuttosto costruzioni, comunità immaginarie fondate sulla rivendicazione di caratteristiche attraverso cui tali comunità si autodefiniscono.
In un’età contrassegnata da processi di migrazione e integrazione come fu l’alto Medioevo, le storie di celebri antenati, i cosiddetti miti d’origine, dovettero sicuramente contribuire alla creazione dell’identità concreta di un popolo.
Pag. 15

Gli scandinavi divennero il popolo dei normanni allorché, insediatisi stabilmente nella Francia settentrionale,  si fusero con i nativi – discendenti da galli, romani, bretoni e franchi – acquisendone lingua e religione; il fatto poi, che i nuovi arrivati fossero soprattutto uomini agevolò l’assimilazione dei discendenti.
L’etnogenesi dei normanni e la creazione della Normandia come regione coinvolsero numerose generazioni e giunsero a compimento intorno all’anno 1000, quando per la prima volta compare la denominazione di Normandia.
Pag. 16

La scelta del cristianesimo greco-ortodosso da parte di Vladimir – che sulle prime non deve aver escluso neanche una conversione all’islam – fu un evento storico di portata universale.
La fantasia degli storici moderni ha provato a immaginare cosa sarebbe accaduti se i rus’ avessero abbracciato l’islam: se la dottrina del Profeta si fosse diffusa presso di loro si sarebbe verificato un accerchiamento della Mitteleuropa cristiana da sud, est e perfino da nord
Pag. 17

Così come il padre, anche Riccardo 1. fu chiamato “principe dei normanni” dal cronista Flodoardo di Reims; tuttavia, in un primo momenti pare che egli si sia accontentato del titolo di comitale o di quello di margraviale, tant’è che ottenne il più prestigioso titolo di duca solo dopo che la corona dei franchi occidentali, nell’anno 987, passò definitivamente dai carolingi ai robertiningi (così chiamati per il già citato Roberto, margravio di Neustria e padrino di battesimo di Rollone) in seguito detti, per Ugo Capeto (987-996), capetingi, la dinastia che regnò in Francia fino al 1848.
Non è possibile dire con esattezza quando ciò sia accaduto; i più antichi documenti in cui il titolo di conte è riferito a Riccardo 1. sono dei falsi d’età posteriore.
Il primo documento autentico a noi giunto in cui si menziona un “duca di Normandia” risale all’anno 1006, quando Riccardo 2. (996-1026) era già succeduto al padre Riccardo 1.
Il fatto però che a quel tempo non esistesse alcuna definizione esatta dei titoli di conte, margravio, principe e duca, fa ritenere plausibile alla ricerca storica che già verso la fine del 10. secolo egli utilizzasse occasionalmente il titolo di duca.
Pag. 19-20

La romanizzazione dei normanni che seguì alla loro cristianizzazione ebbe inizio nel settore orientale del ducato già intorno alla metà del 10. secolo, mentre in quello occidentale, dove gli scandinavi continuarono ad arrivare fino al 966 circa, tardò di qualche decennio.
La presenza di uno scaldo (poeta e scrittore) scandinavo alla corte ducale di Rouen è attestata per l’ultima volta nel maggio del 1021.
Se le prime generazioni di normanni erano ancora bilingui, le successive parlavano solamente l’antico francese.
Pag. 22

I primi duchi di Normandia

Rollone (conte)    911-927/33 ca.
Guglielmo Lungaspada (conte/margravio)    927 ca.-942
Riccardo 1.    942-996
Riccardo 2.    996-1026
Riccardo 3.    1026-1027
Roberto 1.     1027-1035
Guglielmo il Conquistatore (dal 1066 anche re d’Inghilterra)        1035-1087

Cap. 2. Oltre la Manica

L’anno 1066 è di cruciale importanza per la storia inglese. La battaglia di Hastings, in cui re Aroldo del Wessex perse la vita e il trono, segna la fine dell’era anglosassone (5. -11. secc.).
A partire dal normanno Guglielmo il Conquistatore il paese fu retto da sovrani di origine francese.
Con Enrico 2., nel 1154, saliva sul trono d’Inghilterra la dinastia plantageneta, nativa dell’Angiò, che per via matrimoniale aveva acquisito il ducato d’Aquitania (nel sud della Francia).
Ciò determinò una situazione ricca di sviluppi futuri: solo il re d’Inghilterra si ritrovava ora a controllare un territorio pari ai due terzi della Francia, il signore feudale di questo immenso dominio rimaneva comunque il sovrano francese.
Tale stato di cose avrebbe generato continue tensioni fra le monarchie di Francia e Inghilterra che sarebbero poi sfociate nella cosiddetta guerra dei Cent’anni (1337-1453 ca.); alla fine, i re inglesi avrebbero perso praticamente ogni loro possedimento in terraferma.
Pag. 29

Il nuovo re normanno volle fortemente che l’intera popolazione lo riconoscesse quale legittimo erede dei sovrani anglosassoni: durante la cerimonia di incoronazione nell’abazia di Westminster egli si fece acclamare tanto dagli anglosassoni quanto dai normanni nelle rispettive lingue.
Strumento di legittimazione dovette essere anche il già citato arazzo di Bayeux dove la sconfitta e la morte di Aroldo vennero rappresentate come castigo divino per non aver osservato il giuramento di riconoscere Guglielmo come l’erede scelto da re Edoardo.
Naturalmente gli anglosassoni vedevano la cosa in modo diverso, ma come spesso accade nella storia a imporsi fu la versione dei vincitori.
Pag. 37

Dal lungo regno di Enrico 1. (1100-1135) la posizione della monarchia anglo-normanna uscì rafforzata grazie all’introduzione di importanti riforme in materia di diritto e amministrazione.
Il ricorso alla scrittura si fece sempre più frequente: si è calcolato che la cancelleria regia rilasciasse circa 4500 documenti all’anno, cioè un numero di gran lunga superiore a quello di altre monarchie del tempo.
Secondo l’esempio normanno, Enrico fece istituire presso la corte inglese una tesoreria, detta exchequer, che sarebbe poi divenuta una sorta di erario centrale.
Si trattava di un ufficio inconsueto per quei tempi, comparabile, per livello, solo col suo omologo del regno “normanno” di Sicilia, quest’ultimo però ispirato a modelli arabi.
Il nome exchequer deriva dal latino scaccarium (scacchiera): gli sceriffi, amministratori delle terre del re, tenevano il conto di entrate e uscite disponendo su di un panno con motivo a scacchiera dei gettoni di conto.
Il risultato di tali conteggi veniva annotato per iscritto su rotoli di pergamena, i cosiddetti pipe rolls: per la prima volta nella storia d’Europa diveniva chiaro il potere del denaro.
Pag. 43

La guerra civile per la successione di Enrico 1., durata più di tre lustri, portò a un considerevole indebolimento della corona e a un rafforzamento della nobiltà e della Chiesa.
E’ indicativo al riguardo il fatto che in questi anni il numero dei ducati inglesi passò da sei a ventidue.
Eppure i problemi della monarchia anglo-normanna erano iniziati già con la successione di Guglielmo 1. e avevano costituito un fardello per i suoi figli Guglielmo 2. ed Enrico 1. succedutigli sul trono inglese.
Con mezzi diplomatici e militari, nonché con riforme amministrative, nel corso dei suoi trentacinque anni di regno Enrico 1. era però riuscito a rafforzare la monarchia e a darle prestigio in Europa.
Pag. 47

Mentre nei primi decenni successivi alla conquista dell’Inghilterra era ancora possibile distinguere chiaramente i franci (normanni) dagli angli (anglosassoni/inglesi), nella prima metà del 12. secolo  tale distinzione divenne sempre più difficile poiché molti dei conquistatori avevano sposato donne del luogo.
Il fatto che a quel tempo, presso la nobiltà, accanto all’inglese si parlasse soprattutto il francese, laddove negli strati medi e bassi della società l’unica lingua era l’inglese, fece sì che gli etnonimi passassero a indicare categorie sociali: i normanni erano i membri del ceto dominante discendente dai conquistatori, gli inglesi del resto della popolazione.
Solo sotto Enrico 2. si sviluppò gradualmente un’autonoma coscienza collettiva inglese che includeva tutti gli strati sociali e gli elementi normanni arretrarono a favore dell’influenza plantageneto-angioina.
Sotto la nuova dinastia regnante, originaria della regione francese dell’Angiò, la Normandia giocò solo un ruolo secondario.
Pag. 48

I re normanni d’Inghilterra

Guglielmo 1. il Conquistatore           1066-1087
Guglielmo 2. Rufus                             1087-1100
Enrico 1. Beauclerc                             1100-1135
Stefano di Blois                                   1135-1154

In tal modo si chiarisce il significato del complesso titolo di Enrico 2.: rex Anglorum, dux Normannorum et Aquitanorum et comes Andegavorum (re degli anglosassoni, duca dei normanni e degli aquitani e conte degli angioini).
Diversamente da quanto tale titolo lascerebbe presumere, al primo posto nei favori di Enrico 2., che si considerava anzitutto signore dell’Angiò, era per l’appunto l’Angiò e non certo l’Inghilterra.
La dinastia plantageneta da egli fondata traeva il nome – introdotto per la prima volta nel 1460 – dal ramo di ginestra (planta genista)  che aveva per stemma.
L’idea che con Enrico 2. Si fosse insediata uan nuova dinastia nacque solo più tardi sulla base di considerazioni fatte a posteriori.
Enrico stesso, in qualità di figlio di Matilde e dunque di pronipote del normanno Guglielmo il Conquistatore, si considerava il legittimo prosecutore della casa reale anglo-normanna.
Pag. 49

Nel corso di un banchetto, il sovrano inglese chiese irato se non vi fosse nessuno capace di liberarlo dal molesto chierico.
Alcuni cavalieri del suo seguito presero tale dichiarazione più seriamente di quanto il re avesse immaginato; probabilmente egli aveva solo voluto sfogare la propria rabbia.
Tale fraintendimento ebbe conseguenze fatali: i cavalieri, convinti di agire per volere di Enrico, il 29 dicembre del 1170 uccisero Becket nella cattedrale di Canterbury.
Pag. 51

Le difficoltà non trovavano però la soluzione e così Enrico, nel 1182, decise di mettere in chiaro le cose: egli pose alle dipendenze dell’erede al trono i fratelli più giovani i quali avrebbero anche dovuto riconoscerlo quale loro signore feudale.
Con ciò costoro avrebbero perso il legame feudale diretto con il re di Francia e quindi la loro parità di rango.
Riccardo Cuor di Leone protestò energicamente e si oppose senza mezzi termini.
Il principe ereditario – che comunque none ra stato ancora chiamato dal padre a condividere il potere – aderì alla rivolta che trovò il sostegno di Filippo 2. di Francia (1180-1223).
Fu solo la repentina scomparsa di Enrico il Giovane l’11 giugno del 1183 a salvare il vecchio re.
La situazione si infiammò nuovamente quando questi si rifiutò di nominare uso successore Riccardo Cuor di Leone, pregandolo inoltre di consegnare l’Aquitania al fratello minore Giovanni Senzaterra.
Alla fine Enrico 2. fu costretto a riconoscere la sovranità del re di Francia, alleato di Riccardo, sui propri possedimenti continentali (1189).
Pag. 53

L’Impero plantageneto alla fine si dissolse non per l’inadeguatezza di sovrani come Riccardo Cuor di Leone o Giovanni Senzaterra, bensì per problemi strutturali: il suo territorio, che si estendeva dall’Irlanda ai Pirenei, era troppo vasto ed eterogeneo per i limitati strumenti della sovranità medievale.
Esso mancava inoltre di un centro, di un’aristocrazia angioina in grado di integrarsi, di un proprio nome e di una coscienza “statale”.
Negli anni del regno di Enrico 2. la tradizione anglo-normanna fu ancora presente e i legami personali e culturali fra Francia e Inghilterra si consolidarono.
Parallelamente, in Inghilterra andò avanti il processo di assimilazione fra le famiglie di origine normanna e quelle locali.
Intorno al 1178 Richard FitzNigel scriveva che a vausa dei tanti matrimoni misti celebrati nei ceti medi e alti era assai difficile distinguere gli anglici dai normanni.
Era sorta una nuova identità inglese in cui erano confluite la tradizione normanna e quella anglosassone.
In tale processo di integrazione svolsero un ruolo di primo piano le affinità culturali, la comune religione, nonché la forza coesiva della Chiesa allineata con Roma.
Sotto Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senzaterra si rafforzò la consapevolezza di una specifica identità inglese (englishness); l’elemento normanno era a quel punto solo una reminiscenza storica.
Decisivo per il definitivo dissolvimento dell’unione normanno-inglese – iniziata nel 1066 – fu non solo il passaggio dalla Normandia sotto il diretto controllo del re di Francia nel 1204, ma anche, e soprattutto, il divieto di possedere beni fondiari al di là della Manica che nello stesso anno Giovanni impose alla nobiltà inglese.
Con tale misura egli reagiva a un’analoga disposizione di Filippo 2. in base alla quale tutti i nobili normanni residenti in Inghilterra che desideravano conservare i propri beni in patria avrebbero dovuto farvi ritorno.
Ciò rappresentò la fine di quella classe dirigente transfrontaliera che era stata la nobiltà anglo-normanna.
Il cordone ombelicale tra Normandia e Inghilterra era dunque reciso: da allora in poi il canale della Manica piuttosto che unire avrebbe diviso.
Se con l’inserimento nei domini della corona francese la Normandia perse il suo status, di dicato, essa tuttavia conservò la propria identità ragionale.
Inoltre, a differenza di altri territori dell’Angevin Empire – come le contee di Angiò, Maine e Poitou che andarono spesso a costituire la dote dei figli minori dei re di Francia -, nei secoli successivi la regione rimase sotto il diretto controllo della monarchia e sino alla Rivoluzione francese (1789), grazie ad antichi privilegi nell’amministrazione della finanza e della giustizia, mantenne una posizione speciale.
Il conflitto tra i nativi anglosassoni e i conquistatori normanni fornì la materia al romanzo storico Ivanhoe di Walter Scott (1820): al tempo della crociata di Riccardo Cuor di Leone, il valoroso cavaliere anglosassone Wilfred di Ivanhoe combatte contro gli oppressori normanni.
Nella sua lotta trova il sostegno di un bandito, anch’esso anglosassone, di nome Robin di Locksley (Robin Hood).
Soprattutto attraverso le sue riduzioni cinematografiche, la mescolanza di finzione letteraria, saga e fatti storici presente nel romanzo di Scott ha contribuito a formare l’immagine del Medioevo presso un vasto pubblico.
Pag. 55-56

I primi re plantageneti d’Inghilterra

Enrico 2.                                1154-1189
Riccardo 1. Cuor di Leone  1189-1199
Giovanni Senzaterra           1199-1216

Cap. 3. Il fascino del Sud

Il sud Italia stesso presentava un quadro politico decisamente confuso, tant’è che tre potenze ne rivendicavano il dominio: i sovrani tedeschi, che si consideravano gli eredi degli imperatori romani d’Occidente; gli imperatori bizantini, che non riconoscevano tali pretese ritenendosi gli unici eredi di Roma, i papi, che si richiamavano alla celebre donazione di Costantino da cui facevano discendere una supremazia papale sul Mezzogiorno.
Nessuno di loro era comunque in grado di imporsi.
Nel 6. secolo i longobardi, fino ad allora stanziati a nord delle Alpi, avevano conquistato gran parte dell’Italia: solo alcune aree costiere e il sud della penisola erano rimasti sotto il dominio di Bisanzio.
Nell’anno 774 il re franco Carlo Magno aveva assoggettato il regno longobardo con la capitale Pavia e lo aveva associato al regno dei franchi.
Solo il meridionale ducato longobardo di Benevento era riuscito a preservare la propria autonomia riconoscendo, nel 787, la sovranità di Carlo; in seguito esso si scisse nei tre principati di Benevento, Capua e Salerno.
Nella tarda età carolingia, lungo il litorale campano si erano costituite piccole città-Stato, ufficialmente denominate ducati – Gaeta, Napoli, Amalfi e Sorrento -, che sebbene riconoscessero la sovranità degli imperatori bizantini erano di fatto indipendenti.
Puglia e Calabria erano invece province bizantine come la Sicilia, che però nei secoli 9. e 19. fu conquistata dagli arabi.
Tuttavia i confini politici non sempre corrispondevano a quelli culturali e religiosi.
Le genti della Campania e della Puglia settentrionale e centrale parlavano una lingua romanza e sentivano di appartenere al cristianesimo romano-cattolico; al contrario, le popolazioni della Puglia meridionale e della Calabria erano in prevalenza  di lingua greca e celebravano una liturgia di rito ortodosso.
Nell’Ovest e nel Sud della Sicilia vivevano soprattutto immigrati arabi e berberi, nonché autoctoni che avevano accolto la lingua araba e l’islam; nel Nord-Est dell’isola gran parte della popolazione aveva invece preservato la lingua greca e il cristianesimo ortodosso.
Inoltre, in tutto il Mezzogiorno, soprattutto nelle città, erano presenti rilevanti comunità ebraiche.
I normanni irruppero in questo mosaico di genti, culture e religioni e nel giro di un secolo lo assoggettarono al loro controllo.
Pag. 59-60

Intorno al 1050 egli riuscì a conquistare la fiducia di un suo conterraneo di nome Gerardo, che si era stabilito a Buonalbergo nei dintorni di Benevento, il quale gli dette in sposa la zia Alberada e mise a sua disposizione 200 cavalieri.
Con ciò ebbe inizio la folgorante ascesa di Roberto il Guiscardo il quale, dopo essere divenuto in breve tempo l’uomo più potente del Mezzogiorno, sul finire della sua esistenza osò persino muovere guerra all’Impero bizantino.
Pag. 63

I figli di Tancredi di Hauteville (Altavilla)

Dal primo matrimonio (con Muriella):

Guglielmo Braccio di Ferro, conte di Puglia (m.1046)

Dragone, conte di Puglia (m. 1051)

Umfredo, conte di Puglia (m. 1057)

Goffredo, conte di Capitanata (m. 1063)

Serlone (erede dei beni paterni di Normandia)

Dal secondo matrimonio (con Fresenda)

Roberto il Guiscardo, duca di Puglia, Calabria e Sicilia (m. 1085)

Malgerio, conte di Capitanata (m. prima del 1059)

Guglielmo, conte di Principato (m. 1180 ca.)

Alfredo (non menzionato in Italia)

Uberto (non menzionato in Italia)

Tancredi (non menzionato in Italia)

Ruggero 1., conte di Sicilia (m. 1101)

La conquista della Puglia si concluse con la prese di Bari che, nella primavera del 1071, capitolò dopo quasi tre anni di assedio.
Per la popolazione locale inizialmente cambiò ben poco: anziché rispondere all’imperatore bizantino essa si ritrovava ora alle dipendenze dal duca normanno.
Nella presa del capoluogo pugliese il Guiscardo poté contare sulla collaborazione del minore dei suoi fratelli, Ruggero, a quel tempo impegnato nella conquista della Sicilia.
In cambio Roberto successivamente lo aiutò nella presa di Palermo che avvenne nel gennaio del 1072.
Pag. 66

In questa difficile situazione Michele 7. Ducas (1071-78) – proclamato imperatore di Bisanzio dopo l’imprigionamento di Romano 4. – propose un’alleanza matrimoniale a Roberto il Guiscardo.
Il normanno accettò l’offerta solo nel 1074, allorché parve che la posizione di Michele fosse consolidata.
Olimpia, la figlia di Roberto che dopo il suo arrivo a Bisanzio (1076) prese il nome di Elena, fu promessa in sposa a Costantino, figlio dell’imperatore ancora in fasce.
Grazie a ciò il Guiscardo stabiliva un’unione familiare con la casa imperiale bizantina, la qual cosa contribuiva ad accrescere il suo prestigio personale.
Pag. 66-67

Il bilancio delle imprese di Roberto il Guiscardo risulta contrastante.
Inizialmente vi furono importanti successi coem la sua pressoché straordinaria ascesa da immigrato normanno privo di mezzi a conte di Puglia e infine a duca dell’intero sud Italia dal cui aiuto dipendevano i papi.
Inoltre egli riuscì a conquistare le province, fino ad allora bizantine, di Puglia e Calabria; il suo dominio fu però costantemente minacciato dalle sollevazioni dei signori normanni che, in quelle regioni, avevano accumulato beni e potere.
Verso la fine della sua vita – probabilmente nel convincimento che l’Impero bizantino fosse prossimo al crollo – attaccando le province balcaniche il duca normanno sfidò l’imperatore Alessio 1. che come prevedibile oppose una tenace resistenza.
Le rivolte pugliesi, sovvenzionate col denaro bizantino, alla fine costrinsero il Guiscardo a fare ritorno in Italia dove egli per di più dovette accorrere in soccorso di papa Giovanni 7., assediato a Roma.
La morte del quasi settantenne condottiero nel corso della sua ultima, poco promettente campagna militare contro Bisanzio mostra chiaramente che questi  fu un carismatico capo militare ma non un accorto politico.
Pag. 72

Per la maggioranza musulmana della Sicilia inizialmente cambiò poco.
La presa delle principali città era avvenuta solo grazie a trattative in cui alle popolazioni si era concessa la conservazione tanto della libertà religiosa, quanto dell’autonomia amministrativa.
Agli islamici toccava ora pagare quel testatico (arabo jizya) che sotto la dominazione musulmana era stato versato da ebrei e cristiani: conseguenza di ciò fu un loro declassamento sociale.
Ruggero 1. affidò la riscossione delle imposte a cristiani greci di Sicilia che avevano padronanza della lingua araba.
Sebbene il conte tollerasse la fede della popolazione islamica, allo stesso tempo favorì l’immigrazione di cristiani greci dalla Calabria e soprattutto, da altre parti d’Italia, di cristiani latini che dal punto di vista linguistico e culturale erano più affini ai normanni.
Con la (ri)fondazione di sedi vescovili latine a Palermo, Troina, Catania, Siracusa, Agrigento e Mazara, il conte creò le premesse per una graduale latinizzazione o, per meglio dire, romanizzazione dell’isola in seguito alla quale, nel corso del 12. secolo, diminuirono le componenti araba e greca della popolazione.
Nella struttura sociale della Sicilia non intervennero per il momento particolari cambiamenti ad eccezione di due fenomeni: da un lato, un ristretto gruppo di normanni si era impadronito della maggior parte della terra; dall’altro, numerosi intellettuali islamici, non disposti a vivere sotto il dominio dei cristiani, all’isola preferirono il Maghreb e la Spagna araba.
Pag. 74-75

Antiochia normanna, con la sua popolazione multiculturale in cui dominavano la religione cristiana e le lingue greca e araba, giocò un ruolo a lungo sottovalutato nel transfer culturale arabo-occidentale: qui, probabilmente attorno al 1120, il matematico inglese Adelardo di Bath – che aveva già visitato la Sicilia – imparò l’arabo ed acquisì le prime nozioni di scienze naturali arabe, prima di fare ritorno in patria.
Un altro dotto occidentale, che per  analoghi motivi in quel torno di tempo (intorno al 1125/27) si recò ad Antiochia, decise perfino di restarvi.
Si tratta di Stefano di Pisa (noto anche come Stefano d’Antiochia) che dall’arabo tradusse in latino opere di medicina, astronomia e matematica e le trasmise all’Europa.
Diversamente da quanto finora supposto, non fu Leonardo Fibonacci a importare in Europa, introno al 1200, le cifre arabo-indiane (e le operazioni di calcolo grazie ad esse più semplici), bensì Stefano, già oltre cinquant’anni prima.
Degno di nota è infine l’immagine della pacifica convivenza tra cristiani e musulmani di Antiochia che emerge dall’opera del poeta siriani Ibn al-Qaysarani (m. 1153).
Pag. 91

Dopo aver duramente punito i suoi avversari dell’Italia meridionale, Ruggero s’impegnò a dotare il nuovo regno di una struttura centralizzata.
Fece pertanto redigere da giuristi di scuola bolognese un corpo di leggi che in larga misura si basava sul diritto romano antico da poco riscoperto.
In esso si sottolineava la posizione straordinaria del sovrano che, a differenza dei monarchi europei del tempo, non doveva riservare ai principi alcun riguardo: le discussioni in merito alle sue scelte erano considerate un sacrilegio, le insurrezioni, delitto di lesa maestà da punirsi con la morte.
Non si dovrebbero più definire Assise di Ariano le costituzioni di Ruggero promulgate introno al 1140, poiché il concetto di assise (leggi) nasce assai più tardi e l’opinione della ricerca più datata secondo cui esse erano state proclamate ad Ariano (presso Avellino, ad est di Napoli) si è rivelata infondata.
Pag. 96-97

Dopo aver duramente punito i suoi avversari dell’Italia meridionale, Ruggero s’impegnò a dotare il nuovo regno di una struttura centralizzata.
Fece pertanto redigere da giuristi di scuola bolognese un corpo di leggi che in larga misura si basava sul diritto romano antico da poco riscoperto.
In esso si sottolineava la posizione straordinaria del sovrano che, a differenza dei monarchi europei del tempo, non doveva riservare ai principi alcun riguardo: le discussioni in merito alle sue scelte erano considerate un sacrilegio, le insurrezioni, delitto di lesa maestà da punirsi con la morte.
Non si dovrebbero più definire Assise di Ariano le costituzioni di Ruggero promulgate intorno al 1140, poiché il concetto di assise (leggi) nasce assai più tardi e l’opinione della ricerca più datata secondo cui esse erano state proclamate ad Ariano (presso Avellino, ad est di Napoli), si è rivelata infondata.
Pag. 96-97

Che il regno fondato da Ruggero avesse acquisito solide basi lo dimostrano gli eventi successivi alla morte di Guglielmo 1. (1166).
Per il suo successore Guglielmo 2., al tempo dodicenne, esercitò la reggenza la madre Margherita finché questi non raggiunse la maggiore età nel 11171.
Il temuto attacco di Federico Barbarossa al regno non si verificò perché lo Svevo era impegnato nel conflitto con le città lombarde e con papa Alessandro 3.
Quando infine il Barbarossa prese atto di non poter avere il meglio sui suoi avversari italiani con mezzi militari,  raggiunse un accordo col papa e col re di Sicilia nella pace di Venezia (1177) e con la Lega lombarda nella pace di Costanza (1183).
Si apriva ora la via ad un’alleanza matrimoniale svevo-siciliana: Enrico 6., figlio ed erede del Barbarossa, nel 1186 sposò infatti Costanza, figlia postuma di Ruggero 2., che Guglielmo 2. aveva designato erede al trono nel caso in cui fosse morto senza figli.
Sembrava improbabile che tale eventualità potesse effettivamente realizzarsi, data la giovane età del re di Sicilia e della sua consorte.
Pag. 100

Solo tre anni più tardi Enrico 6. poté entrare a Palermo e farsi incoronare re di Sicilia.
Egli dovette tale successo ad una circostanza a lui favorevole: qualche mese prima erano morti Tancredi e suo figlio Ruggero, quest’ultimo associato al trono e incoronato re di Sicilia nel 1192, e sposo della principessa bizantina Irene.
Guglielmo 3. – il figlio minorenne di Tancredi per il quale la madre Sibilla aveva esercitato la reggenza – fu fatto arrestare da Enrico 6. che, dopo averlo reso inadatto al governo con l’accecamento e l’evirazione, lo fece condurre in un castello del Vorarlberg (Austria) dove morì pochi anni dopo.
Pag. 101

I re “normanni” di Sicilia

Ruggero 2.                            1130-1154

Guglielmo 1. (il Malo)        1154-1166

Guglielmo 2. (il Buono)      1166-1189

Tancredi di Lecce                1190-1194

Guglielmo 3.                        1194

Per esprimere il loro dominio, i re di Sicilia ricorrevano a simboli arabi, bizantini e latino-occidentali.
Così, sul modello dei califfi fatimidi d’Egitto, Ruggero 2. esibiva un parasole quale insegna del potere; nelle udienze indossava un mantello adorno di immagini e caratteri arabi che più tardi, sotto Enrico 6., sarebbe passato agli Svevi e che oggi è custodito nella viennese Holfburg.
In ambiente greco egli si presentava in foggia di imperatore bizantino, come appare nei mosaici della chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio di Palermo, fondata da Giorgio di Antiochia; nella basilica latina di San Nicola di Bari veniva rappresentato piuttosto secondo l’immagine di un sovrano occidentale che meglio si adattava al pubblico locale.
Pag. 103

Se consideriamo il regno di Sicilia, che a nord si estendeva fino a Montecassino, nella sua ampiezza complessiva, è possibile riscontrare la dominanza della cultura latina, che sempre più relegava ai margini le altre culture.
Verso la fine del 12. secolo diventano dunque sempre più rare le personalità in gradi di parlare più lingue: un personaggio come Eugenio da Palermo (m- 1202), che traduceva dall’arabo in greco, sua lingua madre, ma anche direttamente in latino, rappresentava ora un’eccezione.
Pag. 105

La storiografia ritiene che una sorta di sentimento nazionale siciliano si sia sviluppato solo nel 1282, durante la rivolta contro la dinastia degli Angiò succeduta agli svevi (i cosiddetti Vespri siciliani).
Il valore dei normanni per la storia italiana risiede nel fatto che grazie ad essi le regioni del Meridione, che fino ad allora guardavano a Bisanzio, e la Sicilia araba furono integrate nella sfera culturale latino-occidentale, alla quale appartengono tuttora.
Pag. 106

Conclusioni: Migrazione, integrazione e identità

Le migrazioni sono un fenomeno costante della storia umana.
La fase di transizione dall’antichità al Medioevo fu contrassegnata dall’immigrazione di genti germaniche nell’area del Mediterraneo: così, solo per citare due esempi,  sotto Genserico (m. 477) giunsero nell’Africa romana circa 80000 vandali, mentre, come già menzionato, nel 6. Secolo si insediarono in Italia dai 100000 ai 150000 longobardi.
Per tale fenomeno, in Germania si è impiegato da lungo tempo il concetto di migrazione dei popoli (tedesco Völkereanderung).
Oggi si preferisce parlare di migrazione di masse (Massenmigration), poiché i popoli di cui parlano gli storici medievali non erano entità etniche chiuse bensì ampi gruppi che grazie all’assimilazione di altri gruppi mutavano di continuo.
Nel caso delle migrazioni normanne dell’11. e dell’inizio del 12. secolo, la situazione si presenta in termini differenti: nel sud Italia, in Inghilterra e ad Antiochia i conquistatori normanni erano, al confronto della popolazione locale, solo una piccola minoranza; ciò vale in misura anche maggiore per quei tentativi non riusciti di creare dominazioni normanne in Spagna e in Anatolia, di cui si è parlato.
Solo in Inghilterra, facilmente raggiungibile dalla vicina Normandia, i conquistatori furono seguiti da coloni (probabilmente da 8000 a 10000).
Membri di famiglie normanne emigrarono tanto in Inghilterra quanto e in Italia e nel Vicino Oriente.
Dalla famiglia Grandmesnil, espressione della nobiltà della regione di Falaise (a sud di Caen), Ugo, un fratello del menzionato abate Roberto di Saint-Evroult, fuggito intorno al 1060 alla volta dell’Italia, prese parte alla conquista dell’Inghilterra e ottenne ampi possedimenti nella regione di Leicester.
Suo figlio maggiore, Ivo, perse tali beni in seguito a uno scontro con il re Guglielmo 2. e partì per la Terrasanta, dove morì nel 1102.
Il fratello di Ivo, Guglielmo (m. 1114), verso il 1075/80 emigrò nel Mezzogiorno, dove sposò una figlia di Roberto il Guiscardo e ricevette terre in Calabria; però, quando partecipò a una rivolta contro il suocero, questi lo costrinse all’esilio.
Guglielmo, a cui in seguito fu consentito di far ritorno in Calabria da Bisanzio, dovette accettare un ridimensionamento dei suoi possedimenti.
Non tutti i migranti normanni partivano di propria iniziativa: Ugo Bunel, figlio di Roberto di Igé, nel 1077 assassinò la contessa Mabel di Belleme e in seguito a ciò lasciò con i fratelli la Normandia per sottrarsi alla pena.
Fuggì inizialmente nel sud Italia, poi in Sicilia e da ultimo a Bisanzio.
Poiché anche lì non si sentiva al sicuro dalla vendetta dei parenti della defunta contessa – così riporta il cronista Orderico Vitale – il normanno cercò rifugio presso gli infedeli (presumibilmente i Selgiuchidi).
Nei vent’anni che trascorse presso di loro, egli familiarizzò con i costumi e la lingua dei suoi ospiti.
Nel 1099 Ugo si alleò con i crociati che assediavano Gerusalemme e divenne di grande utilità per il duca normanno Roberto, grazie alla sua conoscenza della tecnica bellica musulmana.
Come si posero le popolazioni locali nei confronti degli immigrati e conquistatori normanni?
Per rispondere a tale domanda è opportuno distinguere tra l’Inghilterra e le regioni mediterranee.
Nel primo caso, di fronte agli invasori che si apprestavano a conquistare un regno già esistente si trovava una popolazione relativamente omogenea sotto il profilo culturale, il cui ceto dominante fu poi spodestato quasi del tutto.
La conseguenza fu un atteggiamento ostile che perdurò per più decenni da parte degli autoctoni, i quali dovettero assistere al modo in cui i conquistatori si spartivano le posizioni di comando nello Stato e nella Chiesa.
Un elemento divisivo fu inizialmente la lingua francese dei conquistatori e degli immigrati normanni; con effetto unificante operarono invece la comune religione cristiano-latina e le affinità culturali fra Normandia e Inghilterra, che si fondavano tanto sulle comuni radici scandinave quanto sui loro contatti di vicinato esistenti da lungo tempo.
Nelle regioni del Mediterraneo la situazione era più complessa: dall’area settentrionale del Mezzogiorno (Campania e nord della Puglia) caratterizzata dalla cultura latina, nella prima metà dell’11. secolo si levarono rimostranze nei confronti di gruppi di cavalieri normanni immigrati che saccheggiavano i beni ecclesiastici e commettevano violenze nei confronti della popolazione civile.
Tali proteste cessarono però allorché i normanni, trasformatisi da immigrati in conquistatori, vennero legittimati dall’investitura papale (1059) e a loro volta si impegnarono a proteggere la Chiesa e la popolazione.
Anche nell’estrema propaggine del sud Italia di cultura greca (Calabria, sud della Puglia e parte della Basilicata) la piccola minoranza dei signori normanni si intese presto con la popolazione locale, sostenendo i monasteri greco-ortodossi e sostituendo i vescovi greci con vescovi latini solo quando ciò non provocava alcuna opposizione.
Diversa situazione si presentava in Sicilia, dove solo la minoranza cristiana accolse i conquistatori a braccia aperte, mentre la maggioranza musulmana oppose resistenza.
I normanni, anche in questo ambiente culturale estraneo a loro, procedettero in modo pragmatico e consentirono ai siciliani musulmani di conservare la loro religione e alle città uan certa autonomia amministrativa.
Tuttavia, numerosi musulmani, soprattutto delle classi elevate, non accettarono di vivere sotto il dominio dell’infedele ed emigrarono nel Maghreb o nella Spagna moresca.
Nell’Antiochia conquistata da Beomondo la popolazione cittadina, per lo più composta da cristiani greci, siriani e armeni, guardava al ristretto ceto dominante franco-normanno come ai liberatori dalla dominazione dei Selgiuchidi.
Conflitti sorsero solo a seguito della creazione di una nuova organizzazione ecclesiastica con al vertice un patriarca latino, la quale provocò la resistenza del clero ortodosso legato a Bisanzio.
Però, considerata la molteplicità già esistente di confessioni cristiane, il cambiamento del vertice politico ed ecclesiastico probabilmente fu poco percepito dalla maggioranza della popolazione.
L’integrazione di migranti è un problema che, a partire dalla fine del 20. secolo, ha assunto nuova attualità.
Se e come integrare e assimilare gli immigrati dipende da fattori diversi: dal loro numero, dalla loro composizione (gruppi di famiglie o singoli individui), dalla loro posizione sociale, dalla loro cultura e religione, così come dalle loro modalità di insediamento, in grossi gruppi o frammentariamente in piccole unità.
Tale processo, nel quale un effetto fortemente integrativo deriva dai matrimoni misti, viene influenzato altresì dalla volontà di integrarsi dell’immigrato e dalla reazione degli autoctoni e delle istituzioni che consapevolmente o inconsapevolmente incentivano l’immigrazione.
Ciò è dimostrato dagli esempi da noi menzionati nei capitoli precedenti: i vichinghi, che si stabilirono nel nord della Francia, erano disposti ad integrarsi nel regno franco cristiano, accettandone la religione e la lingua; matrimoni misti potevano precedere e facilitare tale passo, ma anche esserne semplicemente la conseguenza.
I sovrani franchi favorirono l’integrazione al fine di rendere sicuro il confine settentrionale del loro regno.
L’esito fu l’etnogenesi dei normanni, nonché la nascita di un nuovo popolo che, pur abbandonando la religione e la lingua dei suoi avi, coltivò la memoria delle radici scandinave, grazie alla quale si distingueva dagli altri franchi/francesi.
Nell’integrazione e creazione di un’identità specificamente normanna, un ruolo importante giocò, come abbiamo visto, la Chiesa latina.
Stesso discorso vale per l’integrazione dei normanni in Inghilterra e nel sud Italia.
Come già detto, in Inghilterra la comune religione e l’affinità culturale facilitarono le relazioni tra conquistatori e popolazione locale.
Il normanno-francese sostituì l’anglosassone/antico inglese nella lingua scritta, non però in quella parlata.
La conseguenza fu che la letteratura e la documentazione amministrativa furono redatte solo in latino, come già accadeva, e/o in francese.
D’altro canto, a partire dalla fine del 12. secolo, anche per la nobiltà l’inglese divenne la lingua madre, mentre il francese rimase solo coem seconda lingua.
Il ritorno in letteratura dell’uso dell’inglese – che aveva subito significative influenze del francese ma solo nel lessico – data prima del 14. secolo.
Il fatto a prima vista sorprendente che in Inghilterra i conquistatori avessero assunto nella quotidianità la lingua dei conquistati dipese non soltanto dal loro essere una minoranza.
Importante fu che i normanni, nella Chiesa inglese, riuscirono a occupare con chierici provenienti dalla Francia solamente le posizioni di primaria importanza.
Nel clero autoctono, numericamente preminente, la memoria del passato anglosassone rimase viva, in ciò giocando un ruolo non trascurabile la venerazione dei santi inglesi e la grande diffusione della Storia ecclesiastica degli Angli di Beda il Venerabile (m. 735).
Inoltre, i re normanni d’Inghilterra non mancavano di enfatizzare la continuità con la precedente casa regnante anglosassone, cui li legavano rapporti di parentela.
Così, i discendenti dei conquistatori normanni, a partire dalla seconda metà del 12. secolo, iniziarono a considerarsi inglesi.
Anche nella parte settentrionale del sud Italia, appartenente alla sfera culturale latina, i normanni riuscirono, grazie ai matrimoni, ad integrarsi in poche generazioni.
Qui, all’inizio del 12. secolo, l’alta nobiltà era dominata da discendenti di immigrati e conquistatori normanni; al contrario, nella media e piccola nobiltà, numerose famiglie di origine longobarda erano riuscite a difendere il loro status.
Nel sud della Puglia e in Calabria, contrassegnate dalla cultura bizantina, l’integrazione dei normanni procedette in modo decisamente più lento.
Grazie all’espansione verso nord del regno di Sicilia – fino ai confini del futuro Stato pontificio – compiuta presso Ruggero 2., l’elemento latino divenne però sempre più forte mentre persero d’importanza la cultura greca e quella araba.
Si può presumere che tanto in Inghilterra quanto nel sud Italia il processo di integrazione sia durato al massimo cent’anni, la qual cosa concorda con el acquisizioni, secondo cui gli immigrati, di regole, vengono assimilati e integrati nel nuovo ambiente al più tardi entro la quarta generazione.
In particolari condizioni, tale processo può svolgersi anche più rapidamente:  nel principato crociato di Antiochia la ristretta élite normanna già nel 1119 era stata a tal punto decimata dalla disastrosa disfatta del “Campo di sangue”, che i pochi normanni superstiti si integrarono in campi brevi nell’aristocrazia francese residente in Terra santa, che subentrava nelle posizioni liberatesi ad Antiochia.
E quanto fortemente tale aristocrazia crociata fosse influenzata dalla cultura orientale già nel 1127 lo si è visto al principio di queste considerazioni conclusive nelle parole di Fulcherio di Chartres.
La ricerca ritiene che il prezzo per la disponibilità e la capacità dei normanni di integrarsi in nuovi contesti stranieri sia stata la perdita della loro identità normanna in favore di una nuova: da normanni essi divennero inglesi e italiani del sud.
Tale approccio presuppone però un concetto di identità statico e trascura che – a prescindere dal fatto che le identità, come le culture e i popoli, sono in continua evoluzione – vi sono anche identità multiple e mobili (shifting identities).
Così, tra i contadini siciliani del 12. secolo ritroviamo musulmani con nomi greco-cristiani e cristiani con nomi arabo-musulmani, come Mohammed (Mercalfe).
E giacché non vi sono testimonianze che Ruggero 2., pur essendo figlio di un immigrato normanno, si considerasse a sua volta normanno, in ultima analisi è poco opportuno parlare di un regno normanno di Sicilia come si fa d’abitudine.
Infatti, quei documenti di Ruggero che parlano di “nostri normanni” sono tarde falsificazioni e pertanto non rappresentano alcun indizio di cui sia possibile desumere un’identità “normanna” del re di Sicilia.
Per concludere, rimane da chiarire la questione del perché i normanni, pur essendo dappertutto in minoranza, in Inghilterra e nel sud Italia ebbero successo, mentre in altri luoghi no.
Sicuramente contarono il loro spirito di adattamento, il loro pragmatismo e la loro capacità militare; a ciò si aggiunga che in Inghilterra e nel sud Italia essi erano sì una minoranza, ma non tanto esigua come ad Antiochia o nei falliti tentativi di dominio in Anatolia e a Tarragona.
Pure il caso giocò il suo ruolo, cosa che diviene particolarmente evidente per quel che riguarda Antiochia, dove l’elemento normanno perse rapidamente di valore a causa delle pesanti perdite subite nella già menzionata sconfitta del 1119, a soli vent’anni dalla creazione del principato.
La conquista del sud Italia e della Sicilia, come pure la successiva creazione e il consolidamento del regno di Sicilia, furono dovuti a una serie di circostanze favorevoli: l’Impero bizantino e quello romano-germanico erano alle prese con problemi che non consentivano loro di opporti ai conquistatori normanni; le forze islamiche erano troppo divise e occupate dalla lotta contro i crociati per poter pensare a una riconquista della Sicilia; il papato, attraversato da violente crisi, aveva bisogno dell’appoggio militare dei normanni.
Con la loro espansione in Inghilterra e con le conquiste nel sud, i normanni, nell’11. e nel 12. secolo, modificarono la carta politica e il profilo culturale dell’Europa.
Altri conquistatori ed avventurieri normanni, che non lasciarono tracce profonde, sono però interessate in qualità di uomini di frontiera tra Oriente e Occidente.
Il durevole successo dei normanni nel nord e nel sud dell’Europa si spiega dunque, come abbiamo visto, con la loro capacità di adattarsi ad ambienti geograficamente, politicamente e culturalmente differenti e di integrarsi in essi.

Cronologia

876 ca.                   Il vichingo Rollone si insedia nella regione della bassa Senna
890 ca.                   Rollone sposa Poppa, figlia del conte Berengario di Bayeux
911                         Accordo di Sainte-Claire-sur-Epte tra re Carlo 3. e Rollone
927-942 ca.           Guglielmo Lungaspada, conte/margravio di Normandia
942-996                Riccardo 1. Duca di Normandia
996-1026              Riccardo 2. Duca di Normandia
1000 ca.                Primi normanni nell’Italia meridionale
1002                      Etelredo 2. re d’Inghilterra (978-1016) sposa Emma, figlia di Riccardo 1.
1016                      Emma sposa Canuto, re d’Inghilterra e Danimarca
1026-1027            Riccardo 3. Duca di Normandia
1027-1035            Roberto 1. Duca di Normandia
1035-1087            Guglielmo il Conquistatore duca di Normandia
1038                      L’imperatore Corrado 2. assegna ai normanni Rainolfo  e Dragone le contee di Aversa e Puglia
1041                      Edoardo, figlio di Etelredo e di Emma, viene associato al trono inglese
1053                      Battaglia di Civitate: vittoria normanna sull’esercito di papa Leone 9.
1059                      Papa Niccolò 2. concede a Riccardo, conte di Aversa, il principato di Capua e a Roberto il Guiscardo il ducato di Puglia, Calabria e Sicilia
1066 gennaio       Morte di re Edoardo ed elezione di Aroldo del Wessex a re d’Inghilterra
1066 ottobre        Battaglia di Hastings: vittoria di Guglielmo il Conquistatore su Aroldo
1066-1087            Guglielmo (1.) il Conquistatore re d’Inghilterra
1087-1100            Guglielmo 2. Rufus re d’Inghilterra
1098                      Beomondo 1., figlio di Roberto il Guiscardo, fonda il principato di Antiochia
1100-1135            Enrico 1. Beauclerc re d’Inghilterra
1112                      Ruggero 2. Conte di Sicilia, dal 1127 duca di Puglia, Calabria e Sicilia
1126-1130            Beomondo 2. principe di Antiochia
1129-1155            Roberto Burdet principe di Tarragona
1130                      Ruggero 2. re di Sicilia (unificazione politica dell’Italia meridionale e della Sicilia)
1135-1154            Stefano di Blois re d’Inghilterra
1154-1189            Enrico 2. Plantageneto re d’Inghilterra
1154-1166            Guglielmo 1. (il Malo) re di Sicilia
1166-1189            Guglielmo 2. (il Buono) re di Sicilia
1186                      Nozze tra Costanza di Sicilia ed Enrico 6, figlio di Federico 1. Barbarossa
1189-1199            Riccardo Cuor di Leone re d’Inghilterra
1190-1194            Tancredi re di Sicilia
1194-1197            Enrico 6. (di Svevia), imperatore romano-germanico, re di Sicilia
1198-1250            Federico 2. Re di Sicilia (dal 1220 imperatore romano-germanico)
1199-1216            Giovanni Senzaterra re d’Inghilterra

Bibliografia

La Sicilia e i normanni: le fonti del mito / G. M. Cantarella. – Patron, 1989
Quei maledetti normanni: cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno / E. Cuozzo. – Guida, 1989
I normanni in Italia: cronache di conquista e del regno / P. Delogu. – Liguori, 1984
I normanni: popolo d’europa, 1030-1200 / a cura di M. D’Onofrio. – Marsilio, 1994
Mezzogiorno normanno-svevo: monasteri e castelli, ebrei e musulmani / H. Houben. – Liguori, 1996
Ruggero 2. di Sicilia: un sovrano tra Oriente e Occidente / H. Houben. – Laterza, 1999
Normanni tra nord e sud: immigrazione e acculturazione nel Medioevo / H. Houben. – Di Renzo, 2003
I caratteri originari della conquista normanna: diversità e identità nel mezzogiorno, 1030-1130 / a cura di R. Licinio e F. Violante. – Adda, 2006
Nascita di un regno: poteri signorili, istituzioni feudali e strutture sociali nel Mezzogiorno normanno, 1130-1194 / R. Licinio. – Adda, 2008
La vita quotidiana nell’Italia meridionale al tempo dei normanni / J.-M. Martin. – Rizzoli, 1997
I normanni in Italia / D. Matthew. – Laterza, 1997

 

Parte prima: L’impero romano e il suo smembramento, 400-550

Cap. 2. La forza dell’impero

Roma e Costantinopoli ospitavano entrambe una plebe urbana che era sostentata da regolari distribuzioni da parte dello Stato di grano e olio d’oliva, prodotti provenienti dall’Africa settentrionale (odierna Tunisia) nel caso di Roma, e dall’Egitto, e probabilmente dalla Siria, nel caso di Costantinopoli, Africa ed Egitto essendo le principali regioni esportatrici di tutto l’impero. Tali distribuzioni gratuite di cibo (annoma in latino) rappresentavano una spesa considerevole per il sistema fiscale imperiale, costituendo un quarto e più dell’intero budget. Lo Stato deve avere avuto un interesse molto forte a che le sue città importanti fossero mantenute artificialmente grandi e la loro popolazione felice, con “panem et circenses”, come recitava la citazione – quantunque i “circenses” (compresi i giochi negli anfiteatri di Roma) fossero pagati in molti casi personalmente dai ricchi. L’importanza simbolica di queste città era tale che quando i Visigoti, nel 410, saccheggiarono Roma, lo shock investì tutto l’impero.
P. 8

Quando i “barbari” divennero meglio organizzati, si fecero anche più pericolosi e i Romani dovettero di fendersene. Ai confini settentrionali dell’impero prese a svilupparsi una lunga regione di frontiera la cui militarizzazione, che incise su ampi strati della società come mai era avvenuto altrove, fu capillare; il nord della Gallia e i Balcani furono le più vaste di tali regioni, ma ve ne erano di più piccole. Poiché i “barbari”, che venivano utilizzati nell’esercito spesso si insediavano nell’impero, e poiché oltre frontiera veniva allo stesso tempo sviluppandosi sotto l’influenza romana una nuova gerarchia, le società di ambedue le parti della frontiera divennero più simili: a un certo livello, può non esservi stata una così grande  differenza tra Valentiniano, egli stesso proveniente dalla frontiera della Pannonia, nell’odierna Ungheria, e i capi dei vicini Quadi la cui audace risposta calse ad ucciderlo.
P. 35

Questa sorta di osmosi divenne sempre più comune, in particolare dopo che un maggior numero di gruppi “barbari” invase l’impero nel 405-06, probabilmente a seguito del costante sviluppo della potenza unna. Non v’era in ciò una ostilità preconcetta verso le strutture del potere romane e in Oriente non fu mai così; ma gli errori politici nel trattare con i “barbari”, come quelli commessi da Valente, continuarono dopo la sua morte e avrebbero avuto conseguenze più problematiche. Vedremo nel capitolo 4 quanto l’inettitudine strategica di fronte ad una situazione politica continuamente mutevole contribuì alla fine ad affondare la metà occidentale dell’impero. Ma la stabilità oggetto di questo capitolo non era affatto illusoria, e molti dei modelli politici e sociali qui descritti avrebbero avuto una lunga posterità nel mondo altomedievale.
P. 37

Bibliografia

Il mondo tardo antico: da Marco Aurelio a Maometto / Peter Brown. – Torino, 1987
Il tardo impero romano / Averil Cameron. – Bologna, 1995
Il tardo impero romano / A. H. M. Jones. – Milano, 1981
La società dell’Alto Medioevo: Europa e Mediterraneo, secoli 5.-8. / C. Wickham. – Roma, 2009
Società romana e impero tardo antico / Bowersock … et al. – Laterza, 1986
Storia di Roma / A. Carandini … et al. – Einaudi, 1992
L’impero romano di Ammiano / J. E. Matthews. – Napoli, 2006
Religione e società nell’età di Sant’Agostino / P. Brown. – Torino, 1975
Terre, proprietari e contadini dell’impero romano / E. Lo Cascio … et al. – Roma, 1997
Potere e cristianesimo nella tarda antichità / P. Brown. – Laterza, 1995 

Cap. 3. Fede e cultura nel mondo romano cristiano

Il cristianesimo venne effettivamente assorbito nei tradizionali valori romani ma non interamente.
P. 39

All’altezza del 400, vocabolario, simbolismo e pratica pubblica cristiani erano dunque politicamente dominanti nell’impero, una preponderanza che in seguito non avrebbe fatto che accrescersi e nelle città, che costituivano il centro di ogni attività politica i cristiani erano numericamente superiori. Occorre tuttavia chiedersi di che tipo di cristianesimo si trattasse, quale fosse il suo effettivo contenuto, in che misura avesse assorbito i valori tradizionali romani (persino le pratiche religiose), quanto li avesse cambiati e quali fossero le divisioni che lo attraversavano, dato che ve n0erano parecchie. La prima parte di questo capitolo sarà dedicata a tali temi, in specie quelli relativi alla pratica e alla fede religiose; la seconda parte amplierà il quadro della ricerca considerando altri rituali della sfera pubblica e valori più profondamente radicati tra i quali i presupposti relativi ai ruoli di genere.
P. 41

Il fatto che questa struttura tradizionale non dipendesse dall’impero, e avesse soprattutto un finanziamento autonomo significò che poté sopravvivere alla frammentazione politica del 5. secolo e la chiesa in realtà, ben dentro all’alto Medioevo, fu l’istituzione romana che andò incontro a minori cambiamenti; i legami tra le regioni divennero più deboli, ma il resto rimase intatto. Il problema della relazione tra la chiesa come istituzione e il potere politico secolare si è posto alle società cristiane sin dall’inizio, ed è stato spesso causa di notevoli conflitti, come era già accaduto nel 4.-5. secolo e sarebbe di nuovo accaduto nell’11., con la Riforma e negli stati post-illuministi del 19 e 20. secolo.
P. 49

In Oriente il tema che più divideva era piuttosto diverso: si trattava della natura del Cristo.
P. 51

La vittoria di Nicea significò che il Cristo, sebbene umano e soggetto a sofferenza, veniva anche considerato pienamente divino; ma come si combinavano umanità e divinità? Fu questo il principale punto di discussione delle dispute del 5° secolo, che furono per molti aspetti lotte di potere tra Alessandria ed Antiochia, con Costantinopoli schierata in genera dalla parte di Antiochia. Il patriarca di Alessandria, Cirillo (412-44) sosteneva che gli elementi umani e divini della natura di Cristo non potessero essere separati; antiocheni quali Nestorio, patriarca di Costantinopoli (428-31), li consideravano invece distinti. Il pericolo della posizione di Cirillo, che chiamiamo “monofisita”, era che Cristo avrebbe perso del tutto la sua umanità; il pericolo nella posizione di Nestorio era che si sarebbe mutato in due persone. Né l’uno né l’altro pericolo si erano ancora materializzati, ma gli antagonisti di entrambe le parti credevano al contrario. Il terzo concilio ecumenico, tenutosi ad Efeso nel 431, teatro di una gestione assai spregiudicata da parte di Cirillo, condannò e depose Nestorio. Efeso legittimò anche il culto della Vergine Maria in quanto Theotokos, “madre di Dio”, formulazione particolarmente avversata da Nestorio, ma che da allora ha dominato molte chiese cristiane, nel complesso.
P. 52

In conclusione, questo capitolo e il precedente hanno presentato un mondo tardoromano stabile, certo non esente da cambiamenti (fu questo un periodo di considerevoli innovazioni religiose) né, naturalmente, da conflitti, ma tuttavia in nessun modo votato alla dissoluzione. Nel capitolo successivo prenderemo in considerazione come sia accaduto che nell’Occidente del 4° secolo, nonostante questa stabilità interna, il potere politico romano si sia sfaldato. Ma è anche opportuno chiedersi a questo punto cosa, dei modelli politici, sociali e culturali sinora descritti, sarebbe rimasto, andando a formare l’eredità di Roma per i secoli futuri. Per questo capitolo la risposta è semplice: la maggior parte dei modelli qui descritti è sopravvissuta. Le strutture della Chiesa furono l’istituzione che cambiò meno alla caduta dell’Occidente romano: esse divennero politicamente marginali solo nel Mediterraneo sud-orientale e meridionale, con le conquiste musulmane del 7° secolo. La conformità della fede, quale punto irrinunciabile, sopravvisse a Bisanzio e in alcune zone dell’Occidente, come vedremo nei capitoli successivi. L’impegno ascetico e le critiche di stampo religioso alla società secolare non persero mai di forza nei secoli successivi, e li vedremo ripresentarsi costantemente. Si tratta, in questo caso, di una specifica eredità romano-cristiana. Le istituzioni pubbliche dell’Impero romano sopravvissero quale fondamentale struttura politica tanto per Bisanzio che per il califfato arabo, basati ancora sul sistema mai interrottosi dell’imposta fondiaria. La tassazione, tuttavia, venne meno nell’Occidente post-romano e le istituzioni politiche subirono una radicale semplificazione. Ciononostante, l’intelaiatura politica e istituzionale dell’Impero romano era così complessa che queste nuove versioni più semplici furono ancora in grado, nei regni “romano-germanici”, in particolare quelli dei Franchi in Gallia, dei Visigoti in Spagna e dei Longobardi in Italia – i principali stati dei due secoli successivi al 550 – di dar vita a un sistema di governo di stile fondamentalmente romano. Al quale si accompagnò un senso del potere pubblico, e dello spazio pubblico come arena per l’agone politico, che era in gran parte eredità romana. La rilevanza dell’arena pubblica per l apolitica durò  in Occidente sin dopo la fine del periodo carolingio, almeno sino al 10° secolo, e spesso oltre; il suo esaurimento, , dove si manifestò (in modo particolare in Francia), fu un fatto di massimo rilievo. Un fatto che segnerà la fine del libro perché, almeno in Occidente, esso rappresenta la fine dell’Alto Medioevo.
L’Alto Medioevo ha conosciuto molti cambiamenti. La continuità religiosa e culturale non può nascondere l’importanza del crollo delle strutture statali; l’economia di scambio divenne anch’essa più circoscritta, tanto in Oriente che in Occidente e, almeno in Occidente, tecnicamente meno complessa. La società aristocratica acquisì un’impronta più militare, e in specie in Occidente una formazione letteraria laica perse d’importanza; di conseguenza le nostre fonti scritte, tanto per l’Oriente che per l’occidente, diventano in maggioranza di matrice religiosa. Con i cambiamenti politici del 5° secolo in Occidente e del 7° secolo in Oriente, l’identità aristocratica ebbe a mutare anch’essa ovunque; in numerosi luoghi la ricchezza complessiva dell’aristocrazia diminuì, mentre la ricchissima élite senatoria di Roma scomparve. Non si deve tuttavia esagerare la contrazione, perché gli aristocratici con antenati romani continuarono a svolgere un ruolo di primo piano, ma, dati i mutamenti culturali di cui si è detto, il loro affondare le radici nell’esperienza romana risulta molto più difficile da osservare. I contadini, con il globale decrescere della proprietà terriera aristocratica e l’indebolirsi in Occidente del potere dello Stato, divennero anch’essi più autonomi; per contro, le costrizioni sulle donne aumentarono certamente. E, soprattutto, ciascuna regione dell’Impero romano ebbe da qui in avanti uno sviluppo politico, sociale, economico e culturale separato. Prima del 550, Oriente e Occidente vengono considerati congiuntamente in questo libro, ma per il seguito saranno esaminati separatamente e le storie delle terre franche, della Spagna, dell’Italia, della Britannia, di Bisanzio e del mondo arabo saranno trattate tutte singolarmente, così come i territori non romani del Settentrione. E’ questa regionalizzazione e complessiva semplificazione a caratterizzare in special modo l’Alto Medioevo. Tuttavia, al di sotto di ciascun sistema politico di cui ci occuperemo nel resto del libro, con l’esclusione del lontano Settentrione, troveremo il peso del passato romano, il quale, per quanto frammentato, ha dato vita alle componenti di base dell’azione politica, sociale e culturale di tutte le società post-romane per i secoli a venire.
P. 66-67

Bibliografia

Potere e cristianesimo nella tarda antichità / P. Brown. – Laterza,1995
La fine della cristianità antica / R. Markus. – Roma, 1996
L’ellenismo nel mondo tardoantico / G. W. Bowersock. – Laterza, 1992
Roma: profilo di una città, 312-1308 / R. Krautheimer. – Roma, 2009
Sorvegliare il potere: nascita della prigione / M. Foucault. – Einaudi, 2008
La società ed il sacro nella tarda antichità / P. Brown. – Einaudi, 1988
Arte e cerimoniale nell’antichità / S. G. MacCormack. – Einaudi, 1995
Vittoria eterna: sovranità trionfale nella tarda antichità, a Bisanzio e nell’Occidente altomedievale / S. G. MacCormack. – Milano, 1993

Cap. 4. Crisi e continuità, 400-550

Come ha scritto di recente Walter Pohl, “il nocciolo di tradizioni” che faceva di qualcuno un Ostrogoto o un Visigoto era probabilmente una rete di credenze e convinzioni contraddittorie e mutevoli. Nel processo che lo vedeva passare la frontiera, porsi al servizio discontinuo dell’esercito romano, e poi insediarsi in una provincia romana, non necessariamente ciascun gruppo deve aver presentato un insieme omogeneo di tradizioni. Entro il 650 ogni regno “barbarico” ha tradizioni proprie, alcune delle quali si vogliono antiche di secoli, e quelle rappresentarono senza dubbio da allora gli elementi essenziali dei miti fondatori di molti dei loro abitanti; nondimeno, non soltanto non è necessario che i miti fondatori siano veri, ma non è neppure necessario che siano antichi. Ciascuno dei regni “normanno-germanici” aveva un insieme disparato di credenze e identità le cui radici variavano grandemente, e queste, lo ripeto, potevano cambiare, e venire riconfigurate, ad ogni generazione, per andare incontro alle nuove necessità.
P. 95

In realtà, a differenza che nel 20° o 21° secolo, la lingua, nel periodo di cui ci stiamo occupando, non era da nessuna parte, per quanto è dato vedere, un elemento forte dell’identità etnica. Nel 600 numerosi Franchi, per dire, parlavano ancora franco (una versione di quello che adesso chiamiamo “antico alto tedesco”), ma con ogni probabilità non tutti, e di certo molti erano pienamente bilingui. Gregorio di Tours, il più prolifico scrittore della Gallia del 6° secolo, che parlava unicamente latino, non ci ha mai fornito la benché minima indicazione del fatto che avesse problemi a comunicare con chiunque altro nei regni franchi. In realtà, sino al 9° secolo, né lui né nessun altro nel mondo franco accenna a difficoltà di comunicazione tra parlanti la cui prima lingua fosse il latino o il franco: dev’essere accaduto, ma non costituiva un problema in relazione alla “franchità”.
P. 96

Si trattò di un cambiamento cruciale. Gli stati che si fondano sulla riscossione delle tasse sono molto più ricchi della maggior parte degli stati che si fondano sul possesso della terra, perché le tasse sulla proprietà vengono in genere riscosse da molti più individui rispetto al pagamento del canone del terreno demaniale a un sovrano. Probabilmente solo ir e franchi all’apice del loro potere, nel secolo successivo al 540 e nel secolo dopo il 770, poterono gareggiare in ricchezza con gli stati del Mediterraneo orientale, l’impero bizantino e il califfato arabo, che mantenevano ancora le tradizioni romane in materia di tasse. Gli stati che si fondano sulla riscossione delle tasse hanno un controllo complessivo di gran lunga maggiore sui loro territori, in parte a causa della costante presenza degli ispettori del fisco e degli esattori delle imposte, in parte perché i dipendenti dello Stato (tanto funzionari che soldati) sono salariati. Se i sovrani hanno il potere di interrompere il pagamento del salario, aumenta di conseguenza il loro potere sul personale. Ma se gli eserciti si fondano sulla proprietà terriera, sono più difficili da controllare. I generali possono avere la tentazione di essere sleali a meno che non si dia loro più terra, il che riduce la quantità di terra posseduta dal sovrano; e, se sono sleali, mantengono il controllo della propria terra a meno che non ne vengano scacciati con la forza, compito spesso non facile. Gli stati che si fondano sulla terra rischiano in realtà la frammentazione, perché i territori lontani sono difficili da controllare in profondità e nei fatti possono rendersi autonomi. Situazione diffusa dopo il tardo 9° secolo ed oltre. Molte cose sarebbero dovute cambiare perché ciò su verificasse, come vedremo nei capitoli successivi. Ma alla fine, soprattutto nei vasti territori governati dai Franchi, ciò avvenne.
P. 100-1

Perché l’Impero Romano sia scomparso ad Occidente e non in Oriente è un problema che ha stimolato, e continuerà a stimolare, folle di studiosi. Non mi sembra che in ciò si riflettano differenze di ordine sociale tra Occidente ed Oriente, o la divisione dell’impero. Probabilmente, fu in parte il risultato della maggiore esposizione delle aree centrali dell’Occidente, l’Italia e specialmente la Gallia centrale e meridionale, all’invasione delle frontiere; ad Oriente era raro che gli attacchi portati ai Balcani oltrepassassero Costantinopoli per riversarsi nel resto dell’impero, mentre quelli sferrati nelle regioni militari occidentali, la Gallia settentrionale e le province del Danubio, potevano spingersi oltre con molta maggior facilità. Accettare i gruppi invasori nell’impero occidentale e insediarli come federati era una risposta perfettamente ragionevole a questa situazione, nella misura in cui le aree federate non diventassero a tal punto turbolente che l’esercito romano dovesse rimanervi bloccato per combatterle, o così grandi da minacciare le basi fiscali dell’impero, e quindi le risorse necessarie al mantenimento dello stesso esercito. Sfortunatamente per l’Occidente questo avvenne. Nel 418 i Visigoti poterono essere un sostegno per l’impero, ma 50 anni dopo ne furono i nemici. Come sostenuto in precedenza la conquista delle terre da grano africane da parte dei Vandali nel 439, che i Romani erroneamente non previdero e non respinsero, mi sembra rappresentare il punto di non ritorno, il momento dopo il quale questi potenziali supporti poterono volgersi in pericoli. In seguito, le risorse per l’esercito diminuirono significativamente: l’equilibrio del potere cambiò. All’altezza del 476 persino l’esercito romano in Italia può aver iniziato a ritenere preferibile la ricchezza fondiaria. E, cosa non meno importante, le classi dirigenti locali iniziarono ad avere a che fare con i poteri “barbari” piuttosto che con il governo imperiale, ormai troppo distante e sempre meno importante: la provincializzazione della politica segnò la fine dell’impero occidentale. Ad Oriente, il controllo da parte dell’impero dell’altra enorme regione granaria, la valle del Nilo in Egitto, non venne mai messo in crisi in questo periodo, e di conseguenza la struttura logistica dell’impero rimase immutata. Quando, dopo il 618, i Persiani e quindi gli Arabi sottrassero l’Egitto, e anche il Levante, al controllo romano, l’Oriente andò tuttavia anch’esso incontro ad una fortissima e rapida crisi. L’Impero romano d’Oriente (da questo punto in poi inizieremo a chiamarlo Impero bizantino) sopravvisse, ma si trattò di una lotta senza quartiere in conseguenza della quale subì trasformazioni profonde.
P. 105-6

Bibliografia

La caduta dell’Impero romano: una nuova storia / P. Heather. – Milano, 2008
Il Mediterraneo tar antichità e Medioevo: Roma e Costantinopoli fra il 395 e il 600 d. C. / A. Cameron. – Genova, 2007
La caduta di Roma e la fine della civiltà / B. Ward-Perkins. – Laterza, 2008

Cap. 5. La Gallia e la Germania merovince, 500-751

Bibliografia

I Franchi: agli albori dell’Europa: storia e mito / E. James. – Genova, 1988
La società dell’alto Medioevo: Europa e Mediterraneo, secoli 5.-8. / C. Wickam. – Roma, 2009
L’Europa dopo Roma: una nuova storia culturale / J. M. H. Smith. – Bologna, 2008

Parte seconda: L’Occidente post-romano, 550-750

Cap. 6. I regni mediterranei occidentali: Spagna e Italia, 550-750

In Spagna l’intero periodo 409-569 è caratterizzato dall’instabilità. Forse gli anni tra il 483 ed il 507 conobbero una relativa pace e lo stesso probabilmente accadde tra il 511 e il 526, ma in entrambi i momenti la penisola venne governata dall’esterno, dalla Gallia prima e dall’Italia poi. L’esperienza dell’impero, l’epoca in cui il Mediterraneo occidentale aveva costituito una sola unità, non era poi così lontana nel tempo, ma nelle rare fonti di questo periodo la Spagna sembra costituire un’appendice in senso quasi coloniale, abbandonata in gran parte a se stessa. Come abbiamo visto nel capitolo 4, i siti archeologici relativi al tardo 5° secolo, in particolare riguardanti l’altipiano interno della Spagna, la Meseta, mostrano un indebolimento della proprietà rurale, le villae, e anche una forte contrazione di scala nella produzione ceramica, che divenne più localizzata e semplice. Il primo di questi fenomeni, accentuatosi nel 6° secolo, potrebbe semplicemente riflettere cambiamenti culturali, come accadde nella Gallia settentrionale militarizzata della fine del 4° secolo, ma il secondo mostra una complessiva semplificazione dell’economia che implica un calo della domanda aristocratica. In alcune aree della penisola iberica l’insicurezza del 5° e di gran parte del 6° secolo sembra aver colpito piuttosto duramente molte delle strutture economiche ereditate dal mondo romano.
P. 132

I principali legislatori dell’epoca, Recesvindo, Ervige ed Egica, furono ferocemente ostili al più importante gruppo non cattolico della Spagna, gli ebrei; ripresero, ampliandola significativamente, la legislazione di Sisebuto, mettendo al bando tutte le pratiche religiose ebraiche, limitando i diritti civili degli ebrei e riducendo infine, nel 694, tutti gli ebrei in schiavitù.
P. 137

Una delle ragioni per le quali si è impiegata l’immagine della crisi è che nel 711 il regno visigoto venne rovesciato da un esercito invasore arabo e berbero proveniente dal nord Africa, con la conseguenza che per i successivi cinque secoli e oltre (cfr. cap. 14) gran parte della Spagna entrò nell’orbita di una comunità politica musulmana che guardava a Damasco, a Baghdad e al Cairo. Quando i segni si sfaldano rapidamente, gli storici sono spesso tentati di attribuire loro la colpa della sconfitta: ma la risposta può semplicemente riguardare la sorte di un’unica battaglia, come per il regno anglosassone d’Inghilterra finito ad Hastings nel 1066. È certamente vero che nel 711 la Spagna cadde a pezzi. Gli Arabi furono a lungo potenti solo nell’estremo Sud. Il Nord-Est mantenne un re visigoto, Teodemiro (m. 744), siglare un accordo separato con gli arabi in cambio dell’autonomia; l’estremo Nord ritornò a tradizioni comunitarie e talvolta tribali, e così pure le Asturie, intorno al 720, tornarono a scegliere un re cristiano indipendente, Pelagio, primo di una lunga serie di re indipendenti del Nord (cfr. cap. 20).  Queste differenti scelte riflettono certamente le divergenze socioeconomiche già citate. Ma fu necessaria la conquista violenta per trasformarle in realtà politiche: prima del 711 non v’è segno dello sganciarsi delle regioni esterne, diversamente dalla Francia del tardo 7° secolo. Sino ad allora, per quanto è possibile osservare, i re visigoti mantennero una salda egemonia su di esse.
P. 141

La Spagna visigota e l’Italia longobarda mostrano due coerenti alternative al percorso di distacco dall’Impero Romano e in direzione dell’alto Medioevo intrapreso dai Franchi. Intorno al 700, in realtà, la Spagna sembrava avere maggiore successo della Francia, benché la sua conquista da parte degli Arabi e la riunificazione dei territori franchi ad opera di Carlo martello nel decennio 710-20 e oltre abbiamo spesso portato gli storici moderni a concludere altrimenti. Anche il governo d’Italia dopo il 774 era abbastanza efficace per costituire un modello per i Franchi. Questi tre stati mostrano forti divergenze quanto a stile politico, forza del cerimoniale regio (maggiore in Spagna), importanza della legittimità dinastica e ricchezza delle aristocrazie locali (più intensa in Francia), complessità dei legami tra governo centrale e società provinciale (più forte, senza dubbio, in Italia). Le aspirazioni regie erano anch’esse diverse: solo i re franchi cercarono di ottenere l’egemonia politica sugli altri popoli; solo i re visigoti cercarono di governare come imperatori romani. Ma vi sono altri aspetti in cui il loro sviluppo fu simile. Tutti ruotavano attorno a gerarchie politiche e sociali dominate dall’identità militare: le aristocrazie civili scomparvero. (Ciò accadde pure nell’impero bizantino, dapprima in Italia, ma alla fine persino nel cuore dell’impero). Seppure con diverse velocità, essi persero il controllo della riscossione delle tasse, divenendo per l’essenziale sistemi politici fondati sulla terra, sebbene tutti e tre riuscissero poi a mantenere una prassi, e persino un’identità politica aristocratica, saldamente centrata sulle corti regie. In effetti, anche se tutti e tre sperimentarono periodi di debolezza regia e di frammentazione politica, i sovrani di successo – Leovigildo, dopo il 569, Agilulfo dopo il 590, Carlo martello dopo il 719 – furono in grado di orientare l’aristocrazia a loro favore. Tutti e tre considerarono anche la propria identità politica in termini etnici, come Franchi, Goti e Longobardi, ma il fattore etnico, in pratica, divenne presto di scarsa importanza: già nel 700 molti “Franchi” avevano antenati che erano stati romani e lo stesso è vero per la Spagna e per l’Italia. In realtà, a parte la rinnovata importanza delle assemblee, e il presupposto che il servizio militare, almeno in teorie (mai in pratica), fosse obbligatorio per tutti i maschi liberi, non vi era poi granché di specificamente germanico nei regni romano-germanici. Politica, società e cultura erano cambiate rispetto al mondo romano, ma possono più efficacemente essere comprese come esiti di un’evoluzione che prende le mosse da antecedenti romani.
P. 151-52

Bibliografia

L’Italia nel primo Medioevo: potere centrale e società locale, 400-1000 / C. Wickham. – Milano, 1998
Nobili e re / P. Cammarosano. – Laterza, 1998
Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano / G. Tabacco. – Einaudi, 2000
I Longobardi: storia e archeologia di un popolo / N. Christie. – Genova, 1997
Longobardia / P. Cammarosano, S. Gasparri (a cura di). – Udine, 1990
Le Italie bizantine / E. Zanini. – Laterza, 1998
Le donne nell’Italia medievale, secoli 6.-13. / P. Skinner. – Roma, 2005
La connessione tra potere e possesso nel regno franco e nel regno longobardo / G. Tabacco. – 1972
La città nell’alto medioevo italiano: archeologia e storia / G. P. Brogiolo, S. Gelichi. – Laterza, 1998

Cap. 8. Vocazioni post-romane: cultura, fede ed etichetta politica, 550-750

La frammentazione politica della chiesa occidentale e la mancanza di eresie sono, come già accennato, fenomeni collegati: semplicemente, non si avevano regolari affermazioni su quanto accadeva al di fuori del proprio ambito locale o regionale. Si è conservata una lettera del 613 del fondatore di monasteri irlandesi Colombano a papa Bonifacio 4.: risale al periodo in cui Colombano, dopo aver trascorso più di due decenni in Francia e Alemannia, si trovava nell’Italia longobarda per fondarvi il monastero di Bobbio. Essa esprime grande stupore per il fatto che Bonifacio (Colombano lo ha appreso solo una volta arrivato in Italia) aderisca alla posizione di Costantinopoli sullo scisma dei Tre Capitoli, manifestando al riguardo un severo biasimo. Tuttavia, la posizione papale era rimasta immutata sin dal decennio 550-60 e nell’Italia settentrionale era quanto meno oggetto di discussione. Qualsivoglia conoscenza di un dibattito teologico relativamente complesso sembra essere stata assente al di là delle Alpi, o almeno Colombano poteva affermare che lo fosse. Esistendo un problema di trasmissione delle informazioni, la credenza non ortodossa avrebbe potuto incontrare difficoltà nella sua diffusione, potendo persino rimanere sconosciuta. In queste circostanze, tutte le versioni locali di cristianesimo poterono avere campo libero senza contestazioni di sorta. E’ questo il mondo circoscritto che Peter Brown ha chiamato “micro-cristianità”, termine che in anni recenti ha avuto fortuna: un mondo di costanti divergenze nel rituale, nella regola e nella tradizione, come anche nelle strutture politiche e nelle pratiche socioculturali della società laica.
P. 182

L’Alto Medioevo è stato tradizionalmente considerato come più “germanico” della tarda età romana, il prodotto delle invasioni e anche il momento privilegiato della fusione culturale “romano-germanica” che avrebbe conosciuto evoluzione e apice sotto i Carolingi. Come ho indicato nei precedenti capitoli, non mi sembra trattarsi di una caratterizzazione adeguata. In primo luogo, in Occidente le società altomedievali avevano tratti comuni al di là del fatto che fossero state invase o meno: l’Italia bizantina e il Galles presentavano per molti aspetti dei parallelismi rispetto all’Italia Longobarda e all’Inghilterra. Anche l’Irlanda, i cui contatti con il mondo “germanico” erano stati minimi, mostrava tratti ad esso riferibili (sebbene tra le società che abbiamo considerato fosse per numerosi riguardi la più atipica). All’interno delle province ex-romane il vero contrasto era non tra le società che erano state invase o conquistate e le altre, ma tra il continente e la Britannia; nel continente le strutture di base, sociali e politiche, di stampo romano, sopravvissero (sebbene in molti luoghi in forma fatiscente e sottofinanziata), mentre ciò non avvenne nella Britannia; le società tribali furono una caratteristica della Britannia post-romana sia anglosassone sia gallese. Complessivamente, in realtà, il principale cambiamento nella cultura politica non fu la germanizzazione ma la militarizzazione: l’epoca che avrebbe visto il dominio dell’aristocrazia militare iniziò nel 5. e 6. Secolo proseguendo in tutto l’Occidente per più di un millennio. Come vedremo nella Parte terza, una simile dinamica caratterizza anche l’Impero bizantino e, in minor misura, il califfato.
P. 212

L’ultimo punto che occorre precisare riguarda il fatto che le credenze e le pratiche qui trattate non cambiarono molto dopo il 750. Si sono qui utilizzati per la maggior parte materiali pre-carolingi, ma potrebbero essere facilmente forniti esempi per ogni secolo fino al 1000 e anche oltre. I Carolingi (in particolare Ludovico il Pio) unificarono in larga misura l’ordinamento monastico, mentre la scala del controllo politico da essi esercitato fece si che gli uomini di chiesa di tutto l’Occidente potessero entrare in contatto più regolarmente. Diedero vita anche a un sistema pedagogico più strutturato, in particolar per le élite, che pose fine all’isolamento intellettuale di figure quali Beda e aprì il dibattito teologico e persino alla ricomparsa delle eresie. I presupposti strutturali relative alle pratiche religiose descritte in questo capitolo puntellarono tuttavia anche il progetto riformatore carolingio, sopravvivendo anzi al suo parziale eclissarsi alla fine del 9. secolo. Quanto agli atteggiamenti aristocratici, e ai concetti relativi alla differenza di genere, essi cambiarono molto poco nel periodo carolingio. I mutamenti culturali e politici oggetto della Parte quarta di questo libro si sarebbero innestati su valori rimasti a lungo stabili.
P. 214 

Bibliografia

La formazione dell’Europa cristiana: universalismo e diversità, 200-1000 d. C. / P. Brown. – Laterza, 1995
Gregorio e il suo mondo / R.A. Markus. – Milano, 2001

Cap. 9. Ricchezza, scambio e società contadina

I villaggi, anche se liberi dal giogo di un signore e se i grandi proprietari erano marginali o assenti, non furono mai comunità egualitarie. I contadini erano divisi tra proprietari e affittuari, e tra proprietari più o meno ricchi, in un complesso ordine gerarchico. La linea che divideva i liberi dai non liberi era anch’essa in molti villaggi di cruciale importanza, mantenendo separati quanti avevano diritti legalmente riconosciuti, nei tribunali e nel processo decisionale locale (benché obblighi come il servizio in armi), da quanti ne erano privi. Questa linea divisoria venne risolutamente presidiata dai re, e i matrimoni tra liberi e non liberi erano ovunque vietati, sebbene si sia visto, con Anstruda di Piacenza, come i singoli in pratica tendessero di frequente a ignorarla. L’importanza pratica della divisione tra liberi e non liberi era anche con ogni probabilità estremamente variabile su base regionale. Assumeva maggiore importanza quanto tutti gli affittuari erano giuridicamente non liberi, ad esempio, rispetto a quando gli affitti in regime di non libertà era solo una versione di dipendenza accanto ad altre (come a Palaiseau, dove gli affittuari liberi e non liberi vivevano fianco a fianco, sposandosi regolarmente fra loro). Ma dovunque essa segnava un’importante differenza di status all’interno del villaggio e quindi una breccia nella solidarietà locale: le collettività di villaggio avrebbero acquistato forza e coesione solo quando la condizione di non libertà si fece meno comune, caratteristica, ancora una volta, del 10. e dell’11. secolo più che dei secoli dal 6. all’8.
P. 226

Nell’8. secolo, il Mare del Nord aveva quasi certamente un volume di traffico marittimo superiore a quello del Mediterraneo. Nello stesso periodo Comacchio, sul delta del Po, era il centro dello scambio adriatico a vasto raggio, e anche, come si è visto, di alcuni commerci lungo il fiume. ; ma tra il declino di Marsiglia intorno al 700 e l’affermarsi di Venezia intorno al 780, il Mediterraneo non ebbe porti equivalenti a quelli del Nord. Come vedremo nel capitolo 22, Venezia era un centro per il commercio degli schiavi, frutto delle guerre carolinge, che la città vendeva agli Arabi come servitori domestici in cambio di spezie e altri beni di lusso orientali. Venezia era, cioè, un porto d’ingresso che fondava la sua ricchezza sui generi di lusso diretti ai Franchi e ad altri acquirenti, e rispetto all’economia dell’Italia settentrionale era probabilmente persino più marginale di quanto fossero Dorestad per la Francia Settentrionale e Hamwic per il Wessex. Ma anche qui le cose erano in movimento; in Italia, nel 9. secolo, sarebbero apparsi un maggior numero di porti e Venezia avrebbe sviluppato anch’essa, infine, dopo il 950 circa, una relazione più stretta con il proprio Hinterland. Dopo l’800 le opportunità di sviluppo del commercio furono alla fine maggiori nel Mediterraneo che nel Mare del Nord. Il Mediterraneo collegava infatti diverse economie complesse che dopo la pausa dell’8. secolo avrebbero riscoperto i vantaggi di livelli di scambio apprezzabili. Il problema del Mare del Nord stava nel fatto che pur essendo l’economia franca così attiva, quelle vicine non lo erano altrettanto. Per gli Anglosassoni o i Danesi era importante ottenere merci franche, in larga parte generi di lusso, ma le loro classi dominanti non era ancora abbastanza ricche da poterne acquistare in grandi quantità. Né le economie del Nord erano granché diversificate; la gamma dei prodotti artigianali di Hamwic era simile a quella di Maastricht e Dorestad, e difficilmente può essere stata pensata per la vendita al di fuori del Wessex. La specializzazione e la diversificazione economica si sarebbero sviluppate lentamente nei secoli successivi; il commercio del Mare del Nord nell’8. secolo era quindi più una ricaduta della ricchezza e dell’influenza politica carolingia che un segno del futuro dominio economico dell’Europa nord-occidentale.
P. 248 

Bibliografia

Le origini dell’economia europea: guerrieri e contadini nel Medioevo / G. Duby. – Laterza, 2004
Aristocrazie e campagne nell’Occidente da Costantino a Carlo magno / G. P. Brogiolo, A. chavarria Arnau. – Firenze, 2005

Cap. 10. Il potere dell’immagine: cultura materiale e ostentazione dalla Roma imperiale ai Carolingi

La intervisualità dello stile architettonico è uno dei più potenti trasmettitori di significato ed effetto visivo. Come sottolineato all’inizio del libro, l’archeologia, assieme allo studio della cultura materiale nel suo significato più ampio quale si esprime nella storia dell’arte e nella storia dell’architettura, tende a dirci una diversa specie di cose rispetto allo studio dei testi narrativi e documentali. La cultura materiale ci dice di più rispetto all’uso dello spazio, alla funzione delle relazioni spaziali, come pure, naturalmente, rispetto ai cambiamenti stilistici e tecnologici; la cultura scritta ci dice di più rispetto alle relazioni, alle scelte e alle rappresentazioni coscienti del mondo circostante. Ma la costruzione di significati visivi, da parte di imperatori come di contadini, lega questi due mondi: è la cultura materiale, , non sono le parole, a dirci  delle scelte di al-Walid, Pasquale o Giuliano e Domna a Sergilla. E’ la cultura materiale, quindi, a spiegare la centralità di questo capitolo, che offre un modo per comparare nell’alto Medioevo le strategie di ciascun attore, ricco o povero che fosse, e non – per una volta – solo di quanti avevano accesso alla parola scritta. Edifici come questi avevano inoltre un pubblico di gran lunga più ampio di quello di un qualunque testo scritto, eccettuate le parti della Bibbia e del Corano lette con più frequenza in occasione delle cerimonie religiose, le quali d’altra parte tendevano a non cambiare molto nel tempo e nello spazio. L’intera popolazione d’Europa era dunque coinvolta nel tipo di comunicazione analizzato in questo capitolo, e poteva persino, se sceglieva di farlo, partecipare in qualità di comunicatore, non solo di pubblico. In realtà, poiché l’archeologia sperimenterà immancabilmente dei progressi nel futuro, è questo un settore della conoscenza storica che, tanto per cambiare, si amplierà sempre di più.
P. 271

Bibliografia

Arte islamica: formazione di una civiltà / O. Grabar. – Milano, 1989
La Repubblica di San Pietro: nascita dello Stato Pontificio, 680-825 / T. F. X. Noble. – Genova, 1988

Parte terza: Gli imperi d’Oriente, 550-1000

Cap. 11. La sopravvivenza bizantina, 550-850

Lo spartiacque in questione sarà oggetto del presente capitolo, perché l’Impero bizantino dell’8. secolo, erede diretto dell’Impero romano d’Oriente, era una società diversa, i cui punti di riferimento erano in gran parte cambiati.
La ragione dell’esistenza di un simile spartiacque era semplice: era infatti il risultato dei catastrofici eventi che infransero il controllo romanosu gran parte del Mediterraneo orientale tra il 609 e il 642. Il drastico ridimensionamento e la successiva riorganizzazione dell’impero costituirono per tutto il periodo di cui ci stiamo occupando la più importante frattura nella storia imperiale d’Oriente e, d’accordo con molti storici, chiamo “bizantino” l’impero che sopravvisse da questa data in avanti.
P. 277

Come scrive Michael Hendy, il non poter più disporre della ricchezza agricola e produttiva dell’Egitto, fu un fatto particolarmente grave. Bisanzio si vide ridotta all’altopiano anatolico della moderna Turchia, al mare Egeo e alle terre circostanti e, muovendo da Ovest, a sacche della costa adriatica, a parte dell’Italia (compresa Roma) e della Sicilia, e al Nord Africa. Nei successivi due secoli, i Balcani meridionali sarebbero stati riconquistati, ma l’Italia settentrionale e centrale e l’Africa sarebbero andate perdute, così come, dopo il decennio 820-830, la Sicilia, benché gran parte dell’Italia meridionale continentale sia rimasta bizantina sin dopo il 1050.
P. 280

Dalla metà dell’8. secolo in avanti i papi iniziarono a considerarsi quale parte del mondo longobardo e franco, non più di quello bizantino: è questa, infatti, l’epoca in cui le terre latine andarono perse per Bisanzio, fatto che le fonti greche registrano a stento. Costantino intervenne, anche, più di quanto avessero fatto i suoi predecessori per un secolo, sulle infrastrutture imperiali, ricostruendo l’acquedotto principale di Costantinopoli nel 767, riformando il sistema fiscale e istituendo un corpo di truppe professionali d’assalto senza legami con i temi, i tagmata, che nel 9. secolo sarebbe divenuto il corpo scelto dell’esercito.
P. 290

E’ contro questo atteggiamento che nell’8. secolo si levò la reazione degli iconoclasti: il rivolgere preghiere alle icone sviliva l’omaggio dovuto solo a Dio, e doveva essere considerato come idolatria. Secondo quanto argomentava Costantino 5. nelle Peuesis (752 ca.), le immagini di Cristo evidenziavano soltanto la parte umana della divinità, trascurando quella divina: Cristo viene propriamente rappresentato solo nella eucarestia, come pure, metaforicamente, nella croce.
P. 291

Il secondo concilio di Nicea condannò inflessibilmente l’iconoclastia, confutando punto per punto (e così tramandando) la sua teologia. Fu, in realtà, il secondo concilio di Nicea a dar forma alla teologia delle immagini rimasta quale parte strutturale della chiesa orientale.
P. 293

Va sottolineato come non esista alcuna prova del fatto che gli iconoclasti bizantini fossero influenzati dagli Arabi. Ma Arabi, Bizantini e cristiani di Palestina erano tutti autonomamente interessati al problema della rappresentazione: quali elementi fossero sacri, quali idolatri, come e chi le immagini rappresentassero o dovessero rappresentare. Si trattava di una rottura con la tradizione cristiana terdoromana, nel quale le immagini, persino quelle dei santi, non erano investite di un compito speciale particolarmente rilevante: in Oriente d’ora in poi esse avrebbero avuto, almeno potenzialmente, un potere divino e, in un modo o nell’altro, si doveva trattarle in modo adeguato. E il sistema politico in cui ciò assunse maggiore importanza fu Bisanzio perché gli imperatori stavano diventando un fulcro più decisivo di interesse religioso di quanto non fossero stati gli imperatori romani, o persino, all’epoca, i califfi. L’iconoclastia non ebbe inizio con gli imperatori, ma quando Costantino 5. fu chiamato a decidere al riguardo, essa divenne immediatamente una iniziativa imperiale a lui legata, come mai era avvenuto nel caso dell’”arianesimo” per Valente, e nel caso del monofisismo per Anastasio 1. La rappresentazione, e l’importanza della dimensione visiva, divennero quindi parte della legittimazione imperiale. Dopo l’843 tutto ciò divenne ortodossia; la centralità religiosa delle immagini è stata da allora una caratteristica del cristianesimo ortodosso.
P. 302

Bibliografia

La civiltà bizantina / C. Mango. – Laterza, 2009
I Bizantini / A. Cameron. – Bologna, 2008
Bisanzio / J. Herrin. – Milano, 2008
Il Commonwealth bizantino: l’Europa orientale dal 500 al 1453 / D.Obolensky. – Laterza, 1974

Cap. 12. Il consolidarsi del potere politico arabo, 630-750

E tuttavia il primo periodo arabo è cruciale per il nostro discorso. Il califfato non controllava alcuna parte d’Europa prima dell’invasione arabo-berbera della Spagna, nel 711, ma non può essere escluso da una storia del continente. In primo luogo, nel 7. secolo furono gli Arabi a spezzare in due la parte superstite dell’Impero romano, mettendo fine per sempre al suo sogno di mantenere l’egemonia mediterranea, e obbligandolo a reinventarsi nello stato chiamato (da noi) Bisanzio, come abbiamo visto nel capitolo che precede. In secondo luogo, il califfato fu esso stesso costruito su fondamenta romane (neanche persiano-sasanidi). Nonostante la difficoltà e l’esotismo delle nostre fonti sul punto, si può proporre la tesi che esso mantenesse i parametri della società imperiale romana in maniera più completa di quanto non accadesse in ogni altra parte del mondo post-romano, almeno sino al 750; si tratta di un paradosso che necessita di essere approfondito. In terzo luogo, il califfato fu semplicemente più ricco e più potente di ogni altra società post-romana. Erano gli Arabi, ormai, a dominare nel Mediterraneo. Dopo il 750, sotto gli Abbasidi, il centro del califfato si spostò dalla Siria di Mu’awiya all’Iraq, distanziandosi ulteriormente dalle tradizioni romane, motivo per cui il capitolo 14 prenderà in esame gli Abbasidi secondo un profilo meno puntuale. Ma gli Abbasidi, persino più degli Omayyadi del periodo antecedente al 750, sorpassarono di gran lunga i loro vicini in quanto a ricchezza e ricercatezza della loro cultura intellettuale, e dovremo prestarvi attenzione, tanto nel capitolo 14 che nel capitolo 15, quando considereremo l’economia del Mediterraneo orientale nel suo complesso. Il presente capitolo studierà le conquiste arabe e il califfato omayyade di Mu’awiya e dei suoi successori. Ci concentreremo in queto caso sui problemi interconnessi relativi alla stabilizzazione del sistema politico arabo (o musulmano) e sul tema della continuità e del cambiamento sociale e culturale nel primo dei molti secoli di dominio arabo sul Mediterraneo orientale e meridionale, e al di là di esso.
P. 306-7

Si è anche proposto che l’Islam omayyade debba considerarsi più “arabo” rispetto a quello, più universalista, che gli è succeduto. Muhammad era forse un profeta solo per gli Arabi, o per tutti? Si è sostenuto che l’iniziale cautela araba riguardo alla conversione implicasse la prima considerazione, e che solo gli Abbasidi aprirono realmente la loro religione a tutti.  Si tratta anche in questo caso di una lettura successiva. Gli arabi credevano senza dubbio nella propria superiorità etnica, e con i non Arabi, compresi i convertiti, erano al meglio spigolosi, al peggio ostili. A Qusayr’Amra c’è il famoso affresco dei sei re, dell’Impero romano, della Persia sasanide, dell’Etiopia, della Spagna visigota e di due paesi non identificati, che a quanto pare accennano a un affresco adiacente della vittoria etnica araba.
P. 319-20

Alla fine, tutto ciò non sorprende e ricorda infatti da vicino i diversi valori che andavano a comporre la personalità di un qualunque scrittore altomedievale, occidentale o orientale che fosse: si pensi alla glorificazione della superiorità etnica e militare franca in Gregorio di Tours o Eginardo a dispetto della tensione verso l’inclusione propria del Cristianesimo, o alla feroce ostilità verso i Goti che il loto correligionario Sinesio mostra all’inizio del 5. secolo. In quest’epoca, non è l’incoerenza religiosa e morale a rendere diversi gli Arabi.
P. 321

Gli Omayyadi caddero in larga misura perché l’esercito della Siria si divise, facendo perdere loro tanto la superiorità militare che l’egemonia, la convinzione che il loro potere fosse senza alternative. Lo sciismo millenarista che aveva sospinto Mukhatar a Kufa nel decennio 680-90, e anche ribello di minor rilievo successivamente, poté così guadagnare, nel cuore del secondo principale esercito dell’Islam, quello del Khorasan, un appoggio mai prima ottenuto (Il terzo esercito, quello dei Berberi, andò per proprio conto). Abu Muslim, egli stesso un mawla, ebbe un considerevole appoggio etnico persiano nell’esercito del Khorasan. Di conseguenza fu allora, e da allora, possibile considerare l’ascesa degli Hashimiyya come il rigetto di un governo arabo particolarista da parte di una nuova comunità musulmana basata su un tasso di conversione all’Islam più alto nel Khorasan che ovunque altrove. Ma gli altri elementi di questa ascesa erano interamente arabi, e traevano la loro forza da fonti opposte: il risentimento dei soldati arabi Yamaniti e dei coloni arabi che in Oriente erano stati assoggettati al potere locale – e alla tassazione – delle élite persiane islamizzate. E’ chiaro almeno che la caduta del consenso degli Omayyadi nel Khorasan fu il risultato di un’interazione, molto più ampia e forte che altrove, tra coloni arabi e maggioranza indigena. Ciò avrebbe potuto portare a una guerra civile locale; gli sciti, però, riuscirono a trasformare questa tensione in un’unità, che aveva al suo centro la salvezza, in grado di rovesciare il sistema politico. Il riferimento alla salvezza si rivelò illusorio, e le rivolte religiose (ormai tutte alidi) punteggiarono il califfato abbaside allo stesso modo di quanto era accaduto con gli Omayyadi. Ma la direzione politica di un califfato adesso radicato in Iraq sarebbe ciononostante stata piuttosto diversa.
P. 523

Bibliografia

Gli eserciti dei califfi: militari e società nello stato islamico delle origini / H. Kennedy. – Gorizia, 2010
Gli effetti del monoteismo nella tarda antichità: dall’impero al Commonwealth / G. Fowden. – Roma, 1997

Cap. 13. La rinascita bizantina, 850-1000

La maggior parte delle grandi famiglie mi sembrano infatti a Bisanzio meno radicate nel territorio rispetto all’Occidente; inoltre, ai fini di un reale protagonismo politico, più dipendenti rispetto all’Occidente dal fatto di detenere una carica pubblica. Rispetto all’Occidente del 10. secolo, Bisanzio presentava probabilmente un numero maggior di zone non dominate dai “potenti”; sembra questa uan conclusione ragionevole, anche se le testimonianze bizantine ci dicono molto poco riguardo alla società contadina. Come vedremo nella parte quarta, le élite aristocratiche erano strettamente collegate allo Stato pesino in Occidente, nella Francia carolingia, nella Francia orientale ottoniana (la futura Germania), nella tarda Inghilterra anglosassone: dovevano la loro indennità e il loro status al patronato reale, e non cercarono di stabilire poteri locali autonomi, o di indebolire il potere regale, a meno che la crisi di un regno le obbligasse a far da sé, come nella Francia occidentale (la futura Francia). Nella Bisanzio del 10. secolo, dove lo Stato – basato com’era sulla tassazione – era di gran lunga più forte, dove i detentori di cariche disponevano di enormi stipendi e dove la loro posizione pubblica era legata ai comandi nell’esercito e alla presenza nella capitale, un potere locale autonomo non aveva possibilità di affermarsi. Le testimonianze frammentarie che abbiamo anche per i procedimenti giudiziari provinciali -  in prevalenza provenienti dal monte Athos, dove i monasteri dedicavano moltissimo tempo alle dispute giudiziarie -  mostrano l’efficace e sistematico intervento ufficiale,  con giudici regolarmente inviati dalla capitale che interagivano anche con un complesso insieme di funzionari locali: questa rete di potere pubblico, di nuovo senza paralleli nell’Occidente altomedievale, non avrebbe facilmente ceduto il passo alle autonomie private. In ogni caso, Basilio 2., spesso considerato particolarmente sensibile ai pericoli rappresentati dalle grandi famiglie, non le temeva così tanto da premunirsi in ordine alla sopravvivenza della propria dinastia. Non soltanto non si sposò mai, ma neppure tentò di persuadere lo scialbo fratello Costantino 8. (suo successore negli anni 1025-8) a far sposare le sue due figlie mentre erano ancora in età fertile, perpetuando in tal modo la discendenza. Basilio sapeva che altre famiglie avrebbero presto conquistate il soglio imperiale, e ciò chiaramente non gli importava. Né, data la continuità di potere e la stabilità che l’Impero bizantino mantenne per un altro mezzo secolo si può dire che abbia avuto torto.
P. 346

Bibliografia

Storia dell’Impero bizantino / G. Ostrogorsky. – Einaudi, 2008

Cap. 14. Dalla Baghdad abbaside alla Cordova omayyade, 750-1000

L’unità culturale e religiosa di cui abbiamo appena detto venne raggiunta per la prima volta grazie alle conquiste militari degli omayyadi. Divenne permanente, tuttavia, nel secolo e mezzo del califfato abbaside, politicamente egemone dal 750 all’861 e ancora potente intorno l 920; la disunione dell’epoca di Ibn Hawqal (e delle epoche successive) risaliva ad appena una generazione prima quando questi si mise in viaggio da Baghdad. Nel presente capitolo considereremo l’efficace politica di centralizzazione portata avanti dagli Abbasidi e la creazione a Baghdad di una tradizione religiosa e scientifica forte abbastanza da sopravvivere alla frammentazione del 10. secolo. Seguiremo quindi la storia di due degli stati che presero il posto, quelli più vicini al precipuo interesse europeo di questo libro, i Fatimidi del Nord Africa e dell’Egitto e, soprattutto, gli omayyadi di Spagna. Questi ultimi, già resisi autonomi dal dominio abbaside nel decennio 750-60, guardarono a lungo verso Baghdad. Sebbene non abbia in alcun modo parte della storia d’Europa, e neppure dell’antico mondo romano, nell’ultimo terzo del periodo oggetto del nostro studio Baghdad ebbe una importanza culturale ed economica tale da superare di gran lunga qualunque altra realtà analoga, importanza che certamente ebbe un impatto anche in Europa: in Spagna, a Costantinopoli, e persino nella lontana Aquisgrana, dove la corte di Carlo magno seguiva con attenzione quella di Harun al-Rashid, mentre il contrario sembra meno probabile.
P. 348-49

La comunità, naturalmente, non sempre era d’accordo al suo interno. Abbiamo già incontrato la divisione tra sunniti e sciiti, che si cristallizza nel 9. secolo in sistemi politico-religiosi alternativi. Ciascuno di questi sistemi, tuttavia, aveva anche propri sottosistemi, scuole di pensiero rivali riguardo a come la religione, l’azione politica e il diritto dovessero essere interpretati e gestiti. All’interno di quella che si sarebbe chiamata la tradizione sunnita, ad esempio, dall’inizio dell’8. secolo si assistette a un notevole dibattito volto a stabilire in che misura la pratica giuridica islamica (sharia) dovesse basarsi sulla legislazione (presumibilmente emanata dai califfi), ovvero venire dedotta dai principi etici fondamentali derivati dal Corano, o anche dal sempre più elaborato insieme della “tradizione” (hadith), l’insieme di affermazioni attribuite al profeta Muhammad su pressoché qualsiasi problema giuridico o morale immaginabile. (Queste attribuzioni in realtà fornivano una legittimità religiosa alla consuetudine locale, sebbene la consuetudine in sé non venisse mai considerata come una fonte legittima del diritto). Alla fine, i “tradizionalisti” la spuntarono, ma le quattro principali scuole giuridiche dell’Islam medievale sunnita, che si rifacevano rispettivamente ad Abu Hanifa (m. 767), Malik (m. 795), al-Shafi (m. 820) – intellettualmente il più autorevole – e Ibn Hanbal (m. 855), differirono considerevolmente in rapporto allo hadith, con i seguaci di Hanifa più aperti all’argomentazione giuridica e gli hanbaliti più rigidamente attaccati ad una sua interpretazione letterale. Le scuole di cui si è detto, e altre meno durature, arrivarono ad offrire un paesaggio di reciproca tolleranza, precisamente in quanto costitutive dell’opinione degli ulama sunniti, ed entro il 900 circa diedero corpo a quella che è stata chiamata la “chiusura delle porte del ragionamento indipendente”: in teoria, nessuna nuova legge o parere giuridico, anche emanante da un califfo o da altra autorità politica, sarebbe stato più accettabile. Il diritto islamico divenne così sempre più immobile (anche se ciò non valeva per la pratica giuridica). Simile atteggiamento valse a caratterizzare ulteriormente gli ulama alla stregua di una casta culturale, sebbene altre discipline continuassero a evolversi per secoli, allo stesso modo in cui i precetti dottrinali della cristianità orientale e occidentale circoscrissero l’evoluzione culturale europea per tutto il Medioevo.
P. 356

Lo smembramento del califfato abbaside, che per un centinaio d’anni aveva costituito lo stato più forte dell’intero pianeta (la Cina della dinastia Tang entrò in crisi nel e dopo il decennio 750-60) richiederebbe un’indagine e un insieme di spiegazioni altrettanto dettagliate di quanto fatto per l’Impero romano. Se dispongo la sequenza degli eventi in un paio di pagine, è solo perché ormai, dopo il decennio 650-70, la sua storia, tranne che per brevi periodi, è limitata all’Iraq, troppo lontana quindi da quella europea. Nel mondo islamico il 10. Secolo, come già osservato, fu persino più frammentato, con i Samanidi e quindi i Ghaznavidi nell’Iran occidentale e in Iraq, due entità politiche hamdanidi ad Aleppo e (per più breve tempo) a Mosul, un insieme di dinastie curde nelle montagne a nord e a est, i Qaramiti nel deserto arabico, gli Ikhshididi e quindi i Fatimidi in Egitto, e pure altre unità politiche – e insieme quelle del Maghreb non più sotto controllo abbaside dall’inizio del 9. secolo e anche prima, gli Aghlabidi nell’odierno Marocco, e gli Omayyadi in Spagna. Non è qui possibile seguire tutte le loro storie. Ma prima di considerarne due nello specifico, occorre fare un bilancio del secolo dell’unità abbaside e del suo fallimento.
Una prima ragione che spiega il crollo del califfato abbaside è semplicemente il suo essere troppo grande.
…….
I problemi per gli Abbasidi cominciavano in genere in Iran: Iran ed Egitto erano molto più semplici da governare e dopo la caduta degli Omayyadi la Siria, per due secoli, venne estromessa da qualunque protagonismo politico.
P. 364-65

Tuttavia, una separazione tra il “ceto sociale” e le società provinciali e locali esisteva, ed essa costituiva un problema. In generale, fare carriera in una città e fare carriera nello Stato erano due cose diverse, non solo nel califfato abbaside, geograficamente così esteso, ma anche nelle realtà politiche provinciali del 10. secolo. Ciò significava che le società locali erano nella posizione di poter considerare le cangianti fortune dei loro sovrani con una certa equanimità: questi ultimi erano per la maggior parte figure esterne, benevole o violente, generose o fiscalmente capaci, colte o marziali, senza un collegamento strutturale con i ceti dei governati. Con la secolarizzazione del governo, ora che la sorte dell’Islam era stata consegnata agli ulama, l’immagine salvifica del governo giusto, così efficacemente invocata da Abu Muslim e dai primi Abbasidi, svanì dalla gran parte dei programmi politici. Come vedremo tra breve, solo i Fatimidi vi si riaccostarono nel 10. secolo. Quando un sovrano locale si trovava di fronte a un fallimento militare, perché un blocco nell’approvvigionamento fiscale rendeva difficile pagare le truppe, o semplicemente a seguito di una sconfitta in battaglia, poteva essere sostituito senza che la società locale fosse realmente coinvolta, posto che il nuovo sovrano non prendesse il potere con particolare violenza. Si diedero certamente esempi di un protagonismo lealista delle élite locali, come quando nel 989 i cittadini di Mosul espulsero i Buyidi riportando temporaneamente al potere i loro precedenti sovrani, gli Hamdanidi, ma rimasero casi isolati. In un certo senso, in effetti, la grande facilità con cui gli Abbasidi persero il potere fra il 910 e il 945, per venire sostituiti da regimi che per la gran parte assomigliavano al loro, finisce per rappresentare un vero fallimento strutturale: per quanto fosco fosse il periodo, avrebbe dovuto esserci spazio per qualcuno che facesse di più, un eroe votato alla sconfitta, portatore di una più antica legittimità. Gli Abbasidi non ci hanno lasciato storie di questo tipo, e neppure, in seguito, i Buyidi. Le storie che continuarono ad attrarre l’attenzione furono ancora sasanidi, o della Baghdad fantastica e senza tempo di Harun al-Rashid e delle Mille e una notte.
P. 367-68

La Spagna, tuttavia, presentava una situazione diversa rispetto alla maggioranza delle altre province del califfato. Di gran lunga più decentralizzata, e anche, almeno per un secolo,  con un’economia  decisamente meno complessa, la sua produzione artigianale relativamente più specializzata e assai più localizzata ricordava le economie del resto d’Europa piuttosto che le province del califfato economicamente complesse e fortemente urbanizzate, Egitto, Siria e Iraq. Persino le sue città più grandi, che sotto gli Arabi come sotto i Visigoti erano Cordova, Siviglia, Mérida, Toledo, Saragozza, e poche altre, furono a lungo relativamente piccole rispetto a quelle del Mediterraneo orientale. La Spagna era anche una delle poche province conquistate dagli Arabi ad avere un sistema fiscale frammentario, un fatto certamente cruciale. Erano quindi impraticabili le procedure standard dell’occupazione araba, basate su una élite militare stipendiata di stanza in una (forse nuova) città guarnigione. I Berberi, che nel decennio 710-20 erano di recente islamizzazione (quando non erano addirittura convertiti), volevano senza dubbio semplicemente insediarsi sulla terra conquistata, e così fecero. I Siriani, tuttavia, inviati nel decennio 740-50 come un normale esercito stipendiato, s’insediarono anch’essi sul territorio – all’inizio come esattori di imposte, di lì a poco come proprietari terrieri – e prestavano solo servizio nell’esercito (per il quale venivano pagati a campagna militare); essi si imparentarono con l’aristocrazia visigota, e nel 10. secolo, come vedremo, si trovavano famiglie orgogliose dei loro antenati tanto arabi che visigoti.
P. 372 

Bibliografia

Storia della più grande dinastia islamica: ascesa e declino della corte dei califfi / Kennedy. – Roma, 2005
Introduzione al diritto musulmano / J. Schacht. – Einaudi, 1995
La letteratura araba / R. Allen. – Bologna, 2006
Pensiero greco e cultura araba / D. Gutas. – Einaudi, 2002

Cap. 15. Lo Stato e l’economia: reti di scambio nel Mediterraneo orientale, 600-1000

Come abbiamo visto, e come vedremo nuovamente, dopo la fine dell’Impero romano in Occidente – uno Stato forte e centralizzato che muoveva grandi quantità di beni per proprio interesse – lo scambio nei regni post-romani dipendeva, quanto a intensità, dalla ricchezza dei proprietari terrieri: aristocratici, chiese, re. Quanto più ricchi erano i proprietari, tanto più lo scambio era attivo e più complessi erano i suoi modelli. Analoga considerazione vale grosso modo per il mediterraneo orientale; in questo caso, tuttavia,  la presenza dello Stato, basata sulla riscossione delle tasse, era ancora avvertibile, e il suo potere d’acquisto si poneva per solito su una scala decisamente maggiore rispetto a quella dei proprietari terrieri privati. Inoltre, la ricchezza privata consentiva ai singoli di accedere alle cariche dello Stato, e così ai maggiori emolumenti resi possibili dalla tassazione. Questo era vero anche nel mondo islamico, dove i proprietari terrieri privati erano per solito meno automaticamente legati al potere politico, e quindi potrebbero essere considerati come una fonte rivale di domanda rispetto a quella rappresentata da funzionari e militari. Nel complesso, è la ricchezza variabile del settore statale a costituire nell’Oriente bizantino e arabo la miglior guida alla scala variabile della domanda e quindi dello scambio. Dove la ricchezza fondiaria privata aveva una diversa linea di sviluppo rispetto a quella dello Stato, essa deve aver influenzato pure la domanda, e la sua variazione locale aggiunge complessità alle nostre analisi. Ma grosso modo i due tipi di ricchezza andavano di pari passo in gran parte dell’Oriente, e il sistema statale è anche documentato decisamente meglio. Di conseguenza mi soffermerà maggiormente su quest’ultimo.
P. 384

La storia economica di ciascuna delle regioni esaminate è stata diversa tra il 7 ed il 10. Secolo, ma ha avuto anche elementi strutturali comuni. La persistente forza dello Stato tanto a Bisanzio che in Egitto ha compensato, quale motore dello scambio, la temporanea diminuzione della ricchezza dell’aristocrazia locale, nonostante simile compensazione operasse in misura minore a Bisanzio dove nel 7. e nell’8. secolo lo Stato dovette affrontare notevoli difficoltà. In Siria, le aristocrazie conobbero condizioni di prosperità sino al 750, ma furono meno integrate dallo Stato omayyade in un unico mercato regionale di quanto i governatori omayyadi riuscissero a fare in Egitto: dopo il 750 accadde l’opposto, con la diminuzione della prosperità dei centri locali ma con lo sviluppo di un’integrazione del commercio regionale orientata dal fisco. In Iraq, nel tardo 8. secolo, tanto le aristocrazie che (in maniera preponderante) lo Stato accrebbero la propria forza, facendo della regione per un secolo e mezzo un importantissimo centro agrario, artigianale e commerciale, dopo di che essa perse nuovamente terreno. Possiamo anche aggiungere a questa carrellata di esempi al-Andalus, in Occidente, dove per tutto il periodo di cui ci stiamo occupando esistette un insieme di aristocrazie locali di diversa ricchezza sebbene lo Stato divenisse notevolmente più forte nel 10. secolo, permettendo l’integrazione dell’economia dell’intera penisola e la creazione di specializzazioni produttive per l’esportazione tra cui la seta, lo zafferano e il qirmis (tintura cremisi). Altrettanto può dirsi del nucleo centrale della Tunisia, l’Ifriqiya, sebbene qui si abbia la presenza di uno Stato già nel 9. secolo. In numerosi luoghi (eccettuata forse la Siria) il 9. secolo vide un maggior volume di scambi interni rispetto all’8. secolo, e il 10. secolo (eccettuato l’Iraq) un maggior volume di scambi interni rispetto al 9. secolo.
P. 404

Nel 9. secolo la situazione venne lentamente rovesciandosi. L’ascesa di Venezia e della rotta adriatica dopo il 750 circa ne è n piccolo segno: piccolo, perché Venezia si concentrava sul commercio dei generi di lusso prima menzionato, sebbene, data la crescita così veloce della ricchezza veneziana nel 9. secolo, quest’ultimo debba essere stato in espansione. Venezia commerciava con Bisanzio e anche con Alessandria, da dove nel decennio 820-30 trafugò il corpo di San Marco, da qui in avanti il santo patrono della città.
P. 405-6

Il 10. secolo vide quindi il commercio mediterraneo raggiungere – e sorpassare – la complessità che il commercio del Mare del Nord aveva già toccato nell’8. e nel 9. secolo: la ricchezza agricola e la complessità produttiva dell’Egitto costituiscono il cuore di questa dinamica. Persino dopo che le flotte italiane ebbero parzialmente assunto il ruolo di intermediari anche per il mondo arabo – cosa che avvenne entro il 1100 - l’Egitto rimase ancora il cuore di questo scambio, e insieme il punto di snodo per i generi di lusso provenienti dall’Oceano indiano; fu il motore che fece girare l’intero ciclo medievale. Ciò che accadde nel 10. secolo fu che le economie fu che le economie delle altre regioni mediterranee iniziarono ad essere, almeno in alcuni settori, altrettanto complesse di quella dell’Egitto, cosicché relazioni di reciproca dipendenza economica divennero più sicure, meno rischiose, e solide abbastanza da poter costituire la piattaforma per ulteriori sviluppi. In ogni epoca della storia, è stata questa la base per lo scambio di grandi volumi di merci.
Dobbiamo tuttavia terminare questa analisi ribadendo un punto già trattato in precedenza: in ogni parte del Mediterraneo, i più importanti sistemi di scambio erano non interregionali ma intraregionali. Cuore di questa dinamica erano lo scambio città-campagna e le specializzazioni agricole e artigianali microregionali, non le banchine di Venezia o di Almeria, Tunisi o Antalya, Palermo o Alessandria. Né stiamo qui considerando processi di scambio capaci di autosostenersi; per quanto attivi fossero i mercanti di Fustat e d Venezia, i processi in questione non sarebbero venuti a maturazione ancora per molti secoli. Lo sviluppo economico interno dipendeva essenzialmente dalla forza della domanda interna, e quindi dalla ricchezza delle élite, e dunque dall’estrazione di un surplus dai contadini. Nel 9. e nel 10. secolo, nel Mediterraneo come nell’Europa settentrionale, questo surplus si accrebbe, consentendo la nascita di un ambiente più complesso e vivace e la produzione di prodotti artigianali (come i tessuti) abbastanza economici da essere venduti nei villaggi: prodotti, nondimeno, che costituiscono segni tanto di sfruttamento quanto di dinamismo. Ritorneremo su questo tema nel contesto dell’Europa settentrionale nel capitolo 22, in cui presenteremo più dati relativi alle sue ricadute sulla maggioranza contadina.
P. 408

Bibliografia

Storia economica e sociale del vicino Oriente nel medioevo / E. Ashtor. – Einaudi, 1982
I bacini ceramici medievali nelle chiese di Pisa / G. Berti, L. Tongiorgi. – Roma, 1981

Parte 4.: L’Occidente carolingio e post-carolingio, 750-1000

Cap. 16. Il secolo carolingio, 751-887

Nel decennio 790-800 la corte si venne ulteriormente consolidando secondo due direttrici. Negli anni 794-6, ed è il primo punto, Carlo Magno fondò la propria capitale ad Aquisgrana, nel cuore dell’Austrasia settentrionale pipinide, e nei decenni successivi egli e il figlio Ludovico la arricchirono di edifici ambiziosi, uno dei quali, la cappella del palazzo costruita in dimensioni pari a una cattedrale, ancora esistente. Invecchiando, Carlo magno trascorse sempre più tempo nella sua capitale (era vicina alla foresta delle Ardenne, tra le migliori riserve di caccia reali), e per la prima volta nella storia franca questa divenne uno stabile centro politico e amministrativo. I re si muovevano ancora, e al loro seguito si muoveva la corte, ma due generazioni di cortigiani trovarono ad Aquisgrana lo sfondo naturale dell’azione politica.
Il secondo punto è che nell’800 Carlo magno ricevette un nuovo titolo, quello di imperatore, in una cerimonia a Romain cui venne (nuovamente) unto dal papa. L’importanza del titolo non dovrebbe qui venire esagerata, essendo meramente onorifico. Ma Carlo magno ne era orgoglioso, ed era impaziente di essere riconosciuto tale dai (si potrebbe dire “veri”) imperatori bizantini, cosa che ottenne nell’812 dopo aver minacciato l’enclave ancora bizantina di Venezia. Dopo l’800 il linguaggio simbolico imperiale iniziò a pervadere pure la legislazione carolingia. La verità è, tuttavia, è che già entro la fine del decennio 780-90, grazie ai successi militari, Carlo magno aveva raggiunto un dominio di respiro europeo occidentale e poteva contare sul sostegno quasi unanime da parte dei suoi sudditi, su una centralità politica, cioè,  quale nessuno in quelle terre aveva eguagliato dai tempi dell’imperatore romano Valentiniano 1.Persino i più forti dei Merovingi, Clodoveo o Dagoberto, non avevano governato tali estensioni do territorio o goduto di un così duraturo successo. La macchina militare di Carlo Martello e la fortuna di quattro generazioni quasi ininterrotte di sovrani (i figli di Carlo Magno, tra i quali intendeva dividere le sue terre, gli premorirono tutti tranne Ludovico), costituirono la base di questo successo, coronato però dal carisma di Carlo magno. La domanda, allora, era cosa ne avrebbe fatto.
P. 419

L’impero carolingio era enorme, più grande id quanto ia mai stato qualunque altro Stato in Europa eccetto che per pochi anni, al massimo delle loro fortune, quelli di Napoleone e Hitler; era anche tutt’altro che uniforme, andando dai territori ancora semipagani e privi di strade della Sassonia, alle antiche società urbane della Provenza e dell’Italia. Controllarlo, senza disporre dell’elaborato sistema fiscale e amministrativo dell’Impero Romano o del califfato, rappresentava una sfida quasi impossibile. La politica assembleare era parte della risposta; lo stesso deve dirsi per l’adunata dell’esercito; mentre il palazzo, la corte del re o imperatore, sia ad Aquisgrana che altrove, costituiva un perenne magnete per gli ambiziosi, cercassero essi giustizia, doni o promozioni.
P. 425

Bibliografia

L’Impero carolingio / H. Fichtenau. – Laterza, 2000Feudi e vassalli: una nuova interpretazione delle fonti medievali / S. Reynolds. – Roma, 2004
Le società dell’alto Medioevo: Europa e Mediterraneo, secoli 5.-8. / C. Wickham. – Roma, 2009

Cap. 17. Intellettuali e politica

I tre più importanti sistemi politici del 9. secolo, la Francia, Bisanzio e il califfato, ebbero tutti, in una forma o nell’altra, politiche ispirate a un consapevole progetto riformatore, e vale la pena considerarli comparativamente. Il fatto che fossero grosso modo coevi mi sembra essere frutto del caso; non c’è nulla che leghi il successo militare di Carlo Magno e il suo senso di una missione religiosa, la stabilizzazione del ridimensionato impero bizantino nell’8. secolo che consentì la ripresa della scrittura nella capitale già nell’800 circa, e la centralizzazione fiscale che alimentò Baghdad e la straordinaria attività intellettuale del periodo abbaside. Nondimeno, la loro contemporaneità rende almeno più difficile considerare ciascuno di questi fenomeni e processi come un unicum, come spesso fanno gli storici. I governi medievali si consideravano legittimati dalla loro superiore moralità religiosa (i governi usano ancora questo metro); e i governi forti, come questi tre, erano in grado di dar vita a numerosi progetti a carattere morale e intellettuale. Ma nonostante tutto non si trattava affatto degli stessi progetti; le loro differenze sono anzi più interessanti delle somiglianze.
A Bisanzio nel 9. e nel 10. secolo si assistete al costante sviluppo di una classe dirigente istruita, in larga misura laica; l’istruzione bizantina, analogamente ad alcune riforme istituzionali adottate nel 9. secolo (in particolare in ambito giuridico), era volta a far rivivere le tradizioni greco-romane, tra cui l’assunto che gli uomini che gestivano lo Stato dovessero possedere una estesa cultura letteraria. Ma la cultura includeva ormai un forte elemento religioso, fatto a sua volta legato all’importanza religiosa dell’imperatore quale centro dell’ortodossia e punto di irradiazione di elaborati rituali politici. Abbiamo visto nel capitolo 13 che i Bizantini non avvertivano l’urgenza morale e politica che è possibile osservare nella correctio carolingia, urgenza forse parzialmente attribuibile alle radici relativamente recenti del progetto carolingio. I Bizantini sapevano di avere un millennio di potere imperiale alle spalle, per più di metà cristiano, e che la sua rinascita, dato il successo romano nel passato, era ambizione di per sé sufficiente; al contrario, nel tardo 8. secolo, la sicurezza di sé dei Franchi da un punto di vista religioso era qualcosa di nuovo, di strettamente legato alla fede di Carlo Magno nella sua unicità e poi all’impegno morale personale al quale Ludovico il Pio conformava la propria azione. Lo Stato bizantino era anche, ovviamente, più solido di quello franco, e istruzione e cultura letteraria poterono consolidarsi per diversi secoli, a differenza delle tre generazioni su cui poté contare l’esperimento carolingio. Se i Bizantini avvertivano meno la pressione dell’urgenza, considerando come loro impegno la semplice riscoperta del passato romano, ciò non significa fossero necessariamente in errore.
Gli Abbasidi furono in generale altrettanto certi di Bizantini e Carolingi della loro centralità in relazione alla salvezza religiosa dell’umanità; ma simile convinzione operava in modo diverso nel califfato. Dopo il 750, la stessa centralità religiosa del califfo era in declino; solo la mihna dell’833-47, introdotta da al-Ma’mun, tentò di ripristinarla, ma senza successo. La mancanza nell’Islam di una classe sacerdotale specializzata significò che gli interpreti della religione musulmana, i quali effettivamente divennero i suoi esclusivi custodi già entro l’850, furono definiti più liberamente come una classe colta, gli ulama. Nel califfato del 9. secolo, come nella Bisanzio contemporanea, l’istruzione, nelle sempre più elaborate tradizioni dell’Adah, preparava gli individui all’arte del governo, ma, spesso simultaneamente, li predisponeva ad assumere un’autorità religiosa. D’altra parte, nessuna gerarchia ufficiale personificava nell’Islam quella autorità; erano la conoscenza religiosa e l’abilità retorica e filosofica a far si che un individuo diventasse un capo religioso, non la nomina a imperatore, patriarca/papa, vescovo o abate. Dopo l’847 ne risultò una pluralità di voci, al suo meglio altamente stimolante, che tuttavia di rado spinse lo Stato in una specifica direzione. Anzi, da allora in poi, eccetto che nel califfato fatimide, i califfi e gli altri leader politici furono in larga misura tagliati fuori dalla politica in quanto portatrice di un progetto morale; di conseguenza, sebbene l’istruzione, compresa quella religiosa, fosse essenziale tanto per la carriera politica che per la primazia religiosa, essa non produsse l’equivalente degli intellettuali politicizzati dalla corte carolingia, semplicemente perché il sostegno ai sovrani e il coinvolgimento nella loro politica non erano così essenziali per uno studioso. Nel mondo islamico si ebbero certo intellettuali politicamente rilevanti: si pensi a Nizam al-Mulk (m. 1092), visir dei Turchi selgiuchidi e importante teorico del governo; uomini come lui hanno il loro corrispettivo in figure come Fozio e Bisanzio, e, naturalmente, Alcuino e Incmaro In Francia. Ma l’intellettuale musulmano non si definiva in via prioritaria a partire dal potere politico: quella tracciata dal potere politico costituiva semplicemente la carriera più remunerativa. La riforma morale non procedeva dallo Stato, come accadeva tanto a Bisanzio, data la centralità religiosa dell’imperatore, quanto in Occidente. Il cerimoniale politico arabo – altrettanto elaborato di quello di Costantinopoli – era meno carico di significati religiosi, e oggetto di minori e meno sistematiche riflessioni teoriche di quanto avvenisse sia a Bisanzio che in Francia.
La solidità dei sistemi politici bizantino e arabo (in ciascun caso frutto di una complessa struttura fiscale, assente in Occidente), rafforzata nel caso arabo dalla crescente separazione tra il sistema politico califfale e post-califfale e la questione della salvezza religiosa, alimentò sicuramente l’idea che la cultura fosse una chiave per la supremazia politica; Tuttavia, non sino al punto di far ritenere che una specifica formazione religiosa per le classi dirigenti fosse essenziale per la sopravvivenza dello Stato, o che compito dello Stato fosse principalmente la salvezza della comunità del regno. È questo a segnare l’originalità del progetto carolingio. Per oltre un centinaio d’anni lo Stato carolingio fu estremamente solido e a tal punto fiducioso in se stesso da considerare il compito della salvezza come realmente realizzabile. La rete di intellettuali che circondarono tre generazioni di sovrani carolingi esisteva precisamente a questo scopo. Lo stesso vale per lo spazio pubblico del rituale politico, che, sebbene più semplice che in Oriente, era almeno altrettanto carico di significato – nonché osservato e analizzato – che a Bisanzio; nei momenti chiave (come nell833-34, per ricordare solo un caso ovvio), probabilmente ancora di più. Nella Francia del 9. secolo tutti i più importanti avvenimenti politici furono oggetto di dibattito e investiti di un significato morale, spesso con interpretazioni tra loro in contrasto, situazione che favorì la nascita di uno spazio per l’intellettuale politico in una forma rara, se non del tutto assente, a Bisanzio e nel mondo arabo. Uomini come Eginardo o Lupo di Ferrières, infatti, anche se non ebbero mai un ruolo amministrativo, in esso, erano importanti nello Stato, e ascoltati nei concili, proprio a causa della loro dottrina e capacità di leggere il presente; e inoltre, quanto meno per breve tempo, in Francia furono certamente più numerosi gli Ilduini e gli Incmari, uomini che detenevano posizioni ufficiali ma che avevano anche un programma politico o morale, di quanto fossero i Fozii o i Nizam al-Mulk.
Se il progetto di riforma carolingio viene osservato dal punto di vista dell’Occidente altomedievale, può talora sembrare grandioso:  in quanto prodotto del regime politico di maggior successo espresso dall’Europa latina tra il 400 e almeno il 100, non sorprende avesse tale fortissima adesione e innescasse una simile corposa attività culturale. Se si guarda allo stesso progetto dal punto di vista delle contemporanee Costantinopoli e Baghdad, allora esso sembra eccessivamente ansioso quanto ai risultati, iperattivo, dotato di radici poco profonde e – ovviamente – poco duraturo. Di fondo, data la debolezza strutturale di tutti gli stati dell’Occidente medievale, quest’ultima considerazione è decisiva (L’ansia è anche perdonabile; dev’essere stato duro avere Dio quale pubblico attento ad ogni minima azione personale, come credevano i Carolingi). Ma è tuttavia di grande interesse, e per la verità sorprendente, che i Carolingi attingessero simili vette. Nella moralizzazione della politica franca, nella formazione di almeno due generazioni di aristocratici laici, e anche nella crescente razionalizzazione del governo, i Carolingi ottennero dei risultati, diversi da quelli ottenuti dai Bizantini e dagli Arabi, ma comunque dei risultati. Il progetto carolingio perse smalto nel decennio 880-90, anche prima della caduta di Carlo il Grosso, avvenuta nell’887. Incmaro, morto nell’882, fu l’ultimo leader politico realmente interessato alla centralità della dottrina, proprio come Carlo il Calvo fu probabilmente l’ultimo re realmente interessato a conoscerla. Potrebbe essere questo il punto cruciale. I vescovi franchi del 10. secolo controllarono i concili riformatori, ma furono in prevalenza figure di ambito locale, e meno legate alla politica regia, eccetto occasionalmente nella Germania del tardo 10. secolo; lo sforzo educativo (e la copiatura dei manoscritti) proseguì nei monasteri e nelle scuole cattedrali, ma dopo il decennio 870-80non ebbe ricadute sulle decisioni politiche. Vale a dire. Il mondo ecclesiastico non era poi così cambiato, ma il contesto politico era del tutto diverso. L’ottimismo e la fiducia del secolo carolingio, il senso che quanto la politica franca decideva importasse a Dio, fu ciò che tenne in vita il progetto di riforma; e il fallimento della dinastia negli anni 877-87, seguito da una politica molto meno ideologica negli stati non carolingi che le succedettero, spinse l’opera riformatrice sul palcoscenico dell’attività pastorale.
I sistemi politici di successo poterono nondimeno riprendere alcune parti del programma carolingio. L’inizio dell’11. secolo in Germania, ed anche il tardo 10. secolo in Inghilterra, videro entrambi la parziale riassunzione della dimensione morale della riforma come elemento dell’alta politica. Il progetto, cioè, era sempre in attesa di essere applicato, anche se gli stati più piccoli del futuro non sarebbero stati in grado di sollecitare una riflessione teorica che per numeri e qualità potesse stare ala pari con quella che segna i decenni centrali del 9. secolo; per questo ci sarebbe stato bisogno di un nuovo ambiente, le città e l’economia monetaria del 12. secolo. Il presupposto politico che i re e i vescovi agissero congiuntamente, con i re che sceglievano i vescovi ma con i vescovi che avevano il diritto di “correggere” i re, il tutto in vista di un governo al contempo efficiente e morale e della prosperità tanto in questo  che nell’altro mondo, seguitò tuttavia a mantenersi, quanto meno come aspirazione, continuando a costituire un assioma della politica occidentale almeno sino al tardo 11. secolo e per molti aspetti per un tempo molto più lungo. Posto al centro della scena dai Carolingi, avrebbe avuto un lungo futuro.
P. 466-71

Bibliografia

Traslazione e miracoli dei santi Marcellino e Pietro: storia di scoperte e trafugamenti di reliquie nell’Europa carolingia / P. E. Dutton. – Pisa, 2009
Furta sacra: la trafugazione delle reliquie nel Medioevo, secoli 9.-11. / P. J. Geary. – Milano, 2000

Cap. 18. Gli stati eredi del 10. secolo

E dopo il 1000 circa, quando le stesse contee iniziarono a scindersi in signorie più piccole, ciascuna con i suoi ristretti poteri politici, giudiziari e militari, nella maggior parte della Francia occidentale si assistette ad un ulteriore involuzione: tutto il sistema politico dell’enorme impero di Carlo magno ridotto alla scala di pochi villaggi. Il processo appena delineato, la cosiddetta “rivoluzione feudale”, verrà esaminato più avanti.
L’egemonia della storiografia francese del tardo 20. secolo relativamente al Medioevo centrale, il quale inizia sotto questi aspetti intorno al 1000 o appena prima, ha fatto sì che l’esperienza franco-occidentale appaia come la tipica evoluzione post-carolingia. Come dovrebbe essere chiaro ai lettori di questo capitolo, non è affatto così. Ancor meno tipica, come vedremo, fu la “rivoluzione feudale”, perché essa riguardò solo alcune parti della stessa Francia occidentale. Dovunque, è vero, il potere fu eminentemente locale, strutturato su terre, diritti, eserciti e giuramenti di fedeltà, e anche in Italia, e persino in alcune parti della Francia orientale, nel 1000 fu più locale rispetto al 900. Ma nella maggior parte dei luoghi status e identità aristocratici erano ancora legati all’essere vicino al re, o almeno ai più importanti poteri regionali come il duca di Baviera, il marchese di Toscana o il conte delle Fiandre.  Persino in Italia, sebbene le identità potessero essere strettamente legate ai territori civici, la forza istituzionale del regno, quale eredità del periodo longobardo e carolingio, era ancora un valore. Ed elementi di una comune prassi politica, anch’essi ereditati dai Carolingi e solo in parte modificati dopo il 900, esisterono in tutti i territori post-carolingi, persino in Occidente. Finiremo il capitolo considerando come funzionassero.
P. 491-92

Il 10. secolo ha avuto il problema di essere stato visto in modo duplice dagli storici: si dovrebbe considerarlo come un secolo post-carolingio che prolunga le strutture e i valori politici del 9. secolo (sebbene, per alcuni, non così efficacemente), o come il preludio della politica e delle controversie del periodo successivo al 1000 o al 1050? Un libro che si chiude al 1000, come questo, darà inevitabilmente più attenzione alla prima tesi, come sin qui ho fatto. Ma il 10. secolo mi sembra effettivamente più “carolingio” di quanto non sia l’11., compreso il mondo frammentato della Francia occidentale: nel tardo 10. secolo, persino un piccolo principato occidentale come l’Angiò o la Catalogna usava ancora molte delle procedure pubbliche carolinge, e la Toscana o la Sassonia, o il regno/impero ottoniano considerato nel complesso, facevano ricorso alla quasi totalità di esse. Non intendo portare avanti a questo caso la tesi di una semplice e immutata stabilità, e infatti le ultime pagine hanno sostenuto l’opposto. Ma i parametri politici del mondo del 10. secolo, compresa la sua violenza, e una pari misura di cinismo e opportunismo, mi sembrano – se davvero occorresse scegliere - guardare indietro piuttosto che avanti. Soprattutto, l’insistenza propria del 10. secolo sul mondo pubblico delle assemblee e dei rituali collettivi su vasta scala si sarebbe in futuro attenuata. Nella Francia occidentale era già minore negli ultimi decenni del 10. secolo; in Italia avrebbe trovato alimento ancora per un altro secolo, scomparendo poi piuttosto velocemente attorno al 1100; nella Francia orientale le assemblee avrebbero continuato a lungo ad avere un ruolo a livello di regno, venendo meno tuttavia in alcune località molto più rapidamente. La politica assembleare venne lentamente trasformandosi nella politica delle corti regie e principesche, gruppi scelti dai sovrani piuttosto che rappresentanti (anche se, in pratica, aristocratici) delle comunità politiche. Con il concretizzarsi di questi cambiamenti, appartenenza, lealtà, e senso della gerarchia sarebbero diventati vieppiù personali, e la relazione di dipendenza dal signore maggiormente in evidenza, con un cerimoniale e un’etichetta decisamente più complessi. Sono, questi, i segni del Medioevo centrale, non dell’alto Medioevo, e nel 1000 iniziavano appena ad essere visibili. Una conseguenza del cambiamento così delineato è che l’11. secolo, almeno nella Francia occidentale, ma in qualche misura anche in Italia, raramente volgeva lo sguardo al 10. Dopo il 1000, la storiografia in Italia restringe decisamente il proprio orizzonte, dando poco spazio alla politica del regno; il 10. secolo viene ricordato soltanto attraverso brevi racconti emblematici, come la lussuria di Ugo o il percorso portato da Ottone 1. alla futura seconda moglie Adelaide, caduta nelle mani di Berengario 2. Nella Francia occidentale, Rodolfo il Glabro, il quale scrive giusto una generazione dopo Richerio, è almeno interessato ai re della propria epoca, ma per il periodo antecedente al decennio 990-1000 è quasi sprovvisto di informazioni e volge nuovamente le poche che ha in storie esemplari: la cattura di Carlo il Semplice da parte di Eriberto, la guerra di Lotario contro Ottone 2., o la cattura da parte degli Arabi dell’abate Maiolo di Cluny nel 972; il dettagliatissimo resoconto del suo tempo non ha alcun bisogno della storia passata per spiegare i fatti che analizza, ed è probabile che ai suoi occhi non li spiegasse affatto. Questa riorganizzazione della consapevolezza storica segna il fallimento, ad occidente e a sud delle terre franche, del mondo politico carolingio e dei suoi tradizionali metodi di legittimazione: troppe cose del passato non significavano ormai più niente. Solo Carlo Magno sopravviveva, come una figura sempre più mitica e destoricizzata, affiancata in qualche area della Francia occidentale da Pipino 3. e Clodoveo; simboli inoffensivi di un lontano passato che legittimava il presente senza spiegarlo. Il 10. secolo venne così eclissato; a tal punto che alcuni dei suoi principali protagonisti non possono tuttora essere facilmente compresi. Ma nel 1000, quando il mondo, a giudizio di un Gerberto o un Tietmaro, per quanto pericoloso e imprevedibile, andava avanti perfettamente, questo non era un problema per nessuno.
P. 500-1 

Bibliografia

L’Italia nel primo Medioevo: potere centrale e società locale, 400-1000 / C. Wickham. – Milano, 1997
Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano / G. Tabacco. – Einaudi, 2000
L’Italia dei poteri locali / L. Provero. – Roma, 1998
I confini del potere / G. Sergi. – Einaudi, 1995
Nobili e re / P. Cammarosano. – Laterza, 1998
Vescovi, conti e sovrani nella crisi del regno italico / P. Delogu. – In: Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari, 8(1998)

Cap. 19. L’Inghilterra “carolingia”, 800-1000

L’Inghilterra era così passata da una situazione che nel 700 la vedeva come la provincia post-romana dove la sudditanza contadina era minima, a una – che già nel 900 interessava larga parte del paese e al più tardi dall’11. secolo la sua totalità – in cui la sudditanza contadina fu la più completa e capillare dell’intera Europa. La signoria francese basata sulla giustizia privata non ebbe sviluppo in Inghilterra, ma non ve n’era quasi necessità; i contadini erano già assoggettati ai signor i come affittuari, e molti (diversamente dalla Francia) erano non liberi, e quindi non avevano neppure diritto alla giustizia pubblica.
P. 521

In Inghilterra i re poterono dunque rimanere centrali rispetto ad ogni calcolo politico semplicemente a motivo dei loro non intaccati poteri di patronato. E’ tale dinamica, soprattutto, a rendere l’Inghilterra differente, contraddistinguendo la sua traiettoria rispetto a quella degli altri stati che subentrarono ai Carolingi. In questo caso la “politica della terra” favorì certamente il potere regio e, in ultimo, il governo centrale.
P. 522-523

Lo sviluppo inglese rimane dunque paradossale. L’Inghilterra divenne il paese europeo dove il dominio dell’aristocrazia, basato sui diritti di proprietà, fu il più completo, essendo al contempo il paese post-carolingio dove i re mantennero un maggiore controllo delle strutture politiche, tanto tradizionali (assemblee, esercito) che di nuovo impianto (giuramento, tassazione). Ma il paradosso mi sembra tuttavia spiegabile: è la conseguenza tanto del patto oligarchico che permise la conquista sassone occidentale del resto dell’Inghilterra meridionale nel decennio 910-20, quanto della cristallizzazione dei diritti di proprietà che ebbe luogo nel 9 e nel 10. secolo. La storia dell’Inghilterra quale Stato più duraturo dell’Europa medievale inizia qui.
P. 523

Cap. 20. Ai confini d’Europa

In particolare, è effettivamente impossibile dire quali lingue si parlassero in numerose zone dell’Europa orientale e centrale prima, all’incirca, del 9. secolo. Ma la lingua, come abbiamo visto in altri luoghi di questo libro, non rappresenta mai nel periodo che stiamo studiando una guida sicura riguardo all’identità, costituendo quindi la meno importante delle tre aree di indagine sopra individuate. E’ più opportuno considerare i parlanti lingue slave come una parte, tuttavia consistente, di un insieme di comunità su piccola scala di agricoltori stanziali presenti nei vasti territori dal Baltico al Danubio, e anche spostatisi verso sud nei Balcani bizantini.
P. 534-35

Non si è mai data una comune identità “slava”, né nell’alto Medioevo né in seguito: nel nostro periodo le comunità obbedivano a lealtà tribali di carattere locale. Quanto le legava era semplicemente era semplicemente la rete della comune cultura materiale, appena descritta.
P. 535-36

La maggior parte degli studiosi chiama questi popoli, semplicemente, “Slavi”. Ciò, tuttavia, mi sembra problematico quanto chiamare i parlanti di lingua germanica o, più in generale, le popolazioni “barbare” del 5. secolo. 2Germani”; si tratta di termini tardi, che introducono concetti linguistici e di identità anacronistici in questo periodo. Come nei capitoli precedenti, utilizzerò qui il termine “sclaveno” per comprendere tutti i territori dove è presente la cultura materiale di cui si è detto nel paragrafo precedente. Ciò riflette il fatto che tanto i Franchi che i Bizantini conoscevano in effetti i loro vicini collettivamente come Sclaveni, anche se non tutte le comunità sclavene come qui le ho definite sarebbero state necessariamente chiamate con questo termine persino dai Franchi e dai Bizantini, e anche se nessuno degli Sclaveni stessi avrebbe usato questo termine. Alla fine, naturalmente, le lingue slave si diffusero su gran parte – mai sull’insieme – di questa vasta area culturale. Già all’inizio del 9. secolo Eginardo sosteneva che i popol sul confine carolingio “parlano quasi tutti una lingua simile”, presumibilmente lo slavo; entro il 10. secolo siamo in grado di avere maggiori certezze rispetto al fatto che le lingue slave fossero una caratteristica comune di quest’area culturale, e per questo periodo e il successivo utilizzerò più liberamente il termine “slavo”. (“Slavo” verrà utilizzato solo per denotare il gruppo linguistico. Le lingue slave, in particolare a meridione e ad oriente, vengono spesso chiamate “slavoniche”, ma questo termine verrà qui usato solo per la liturgia introdotta dai missionari bizantini).
P. 536

Ciascuna di queste tre entità, la Moravia, al Boemia e la Polonia Piast, ebbero probabilmente ad espandersi troppo rapidamente rispetto alle loro piuttosto semplici infrastrutture politiche, basate essenzialmente sul tributo al sovrano e sulla sua druzina. Furono decisamente meno stabili rispetto alla altrimenti simile entità politica rus’; è probabile che i modelli turchi seguiti dai Rus’ fossero maggiormente efficaci, ma è anche possibile che pressioni e pericoli per l’autorità politica fossero maggiori nei territori sclaveni/slavi occidentali in virtù della minaccia franca. Dopo il 1000, la presenza delle gerarchie ecclesiastiche avrebbe costituito una ulteriore risorsa per questi sovrani, e analoga funzione avrebbero svolto le più elaborate reti di dipendenza politica e il radicarsi della proprietà fondiaria dei privati quale base per la ricchezza aristocratica, regia o principesca, sviluppi, questi, influenzati tutti dall’esempio franco (adesso possiamo dire tedesco). E’ significativo che tanto in Boemia che (in maniera più dubbia) in Polonia, i più tardi tentativi di unificazione dell’11. secolo abbiano avuto maggiore successo. E’ solo allora, in realtà, che possiamo considerare Boemia e Polonia come entità separate; la “Polonia” in particolare, venne inventata dai Piast facendo leva su una rete di gruppi tribali che nessun confine naturale separava dai gruppi vicini.
P. 545

I sistemi politici e sociali descritti in questo capitolo coprivano mezza Europa, ed erano molto diversi. I territori sclaveni/slavi erano particolarmente estesi, e solo una pressoché totale mancanza di documentazione che perdura sin quasi alla fine del periodo oggetto del nostro studio giustifica il fatto di averne trattato in modo così sommario. Nel complesso, tuttavia, si danno tendenze comuni a tutte le società qui descritte. Intorno al 1000, i re e i principi furono in ogni regione più ambiziosi che intorno al 750; spesso governavano vaste aree, o quanto meno miravano a una egemonia di maggior respiro, e talvolta poterono anche giovarsi di strutture più elaborate quale base per il loro governo; erano anche, di frequente, più rilevanti per le società locali, cosicché il loro dominio era insieme più capillare ed esteso. La disparità nella documentazione di cui disponiamo per le diverse entità politiche prese in esame sottolinea al riguardo un elemento, talora un altro. Così, nella Spagna settentrionale, l’aristocrazia tendeva a radicarsi localmente nella proprietà fondiaria, una politica che ha analogie in Inghilterra. Questo processo fu meno completo nei territori celtici, scandinavi e slavi, dove le relazioni aristocratici-contadini furono più spesso quelle tra patrono e cliente, o tra chi riscuoteva e chi pagava tributi, o entrambe, sin dopo la fine dell’alto Medioevo. Fu questa una vera differenza, benché possa sembrare più accentuata visto che la nostra documentazione riguardo alla proprietà terriera è di gran lunga per la Spagna (e l’Inghilterra) che per le altre situazioni esaminate; è assolutamente possibile, ad esempio, che in una regione come la Boemia gli aristocratici stessero diventando proprietari giù nel 10. secolo, come certamente sarebbero stati non molto tempo dopo. In questo caso non siamo in grado di affermarlo perché le nostre fonti sono ancora insufficienti, ma certamente abbiamo segni del fatto che ciò stava accadendo in Croazia, altro territorio confinante con il mondo franco. Nel complesso, comunque, l’impulso a sviluppare un potere politico più ampio e capillare sembra essere il portato di due dinamiche specifiche. La prima riguarda lo sviluppo del potere aristocratico, e quindi la possibilità di gerarchie di dipendenza politica che si estendevano dai re e principi sino alle società locali. La seconda fu lo sviluppo di tecniche di governo e di controllo, solitamente (tranne che in Spagna e in Irlanda) prese a prestito dai poteri vicini: funzionari regi maggiormente specializzati, un sistema giudiziario più complesso e maggiormente controllato dai governanti, la capacità di sfruttare la manodopera per costruire fortificazioni di diverso tipo e, nelle aree di recente cristianizzazione, lo sviluppo di più solide gerarchie ecclesiastiche. Abbiam visto alcuni segni di queste differenti dinamiche nelle varie regioni, benché occorrerebbe un altro libro per districarsi nella frammentarietà della documentazione e svilupparle in un tutto coerente.
In generale, quanto più un sovrano (nella Rus’, una volta, una sovrana) poteva fare affidamento su tali dinamiche, tanto più stabile era il suo potere, e tanto più alte, di conseguenza, erano le sue ambizioni politiche. L’aggregazione politica fu forse più forte nella Rus’, e anche, in misura minore, in Bulgaria, Danimarca e Asturie-Leon; entro la fine del periodo in esame iniziò tuttavia a concretarsi, seppure in modo meno lineare e più contrastato, anche in Croazia, Boemia, Polonia e forse Norvegia, e anche (la situazione meno chiara tra quelle elencate) in Scozia. Nel Galles e in Irlanda, tuttavia, e anche in Svezia, l’ambizione regia non aveva ancora dietro di sé un adeguato sviluppo infrastrutturale, e l’espansione dei regni promosse l’instabilità più che basi solide per il governo (ciò è parzialmente vero anche per la Boemia e la Polonia); in alcune realtà, infine, come la costa baltica o l’Islanda (talvolta anche in Norvegia) simile espansione venne per qualche tempo vittoriosamente contrastata. Quelle appena delineate sono strade diverse verso un accresciuto potere politico, il quale da nessuna parte era inevitabile – e anche, di sicuro, non necessariamente preferibile, almeno se si faceva parte della maggioranza contadina, per la quale un governo più forte significava ovunque un più stretto controllo e un maggiore sfruttamento.
Colpisce, tuttavia, nonostante queste differenze,  quanto generale fosse nella seconda metà del periodo che stiamo studiando il muovere verso un accresciuto potere politico, da una parte all’altra di quest’ampia fascia d’Europa. Nel 400 i sistemi politici forti e stabili si fermavano al confine dell’Impero romano tracciato dal Reno e dal Danubio. Nel 750 la situazione, fatta eccezione per alcune aree della Germania centrale e meridionale che erano sotto l’egemonia franca, è la stessa, mentre nei Balcani e in Gran Bretagna essi erano addirittura in arretramento. Ma nel 1000 entità politiche riconoscibili si erano consolidate nella massima parte dell’Europa, ad ovest del Volga e a sud della zona di cacciatori-raccoglitori di lingua finnica dell’estremo Nord: certamente più deboli dell’Impero romano, avevano tuttavia una sicura capacità di tenuta – metà dei paesi della moderna Europa, in effetti, e quasi tutto i più grandi, possono far risalire la loro origine, per quanto in modo fuorviante, ai regni e ai principati che occupavano allora la mappa europea. Tale diffuso sviluppo deve avere necessariamente una radice comune? Un’importante caratteristica del periodo successivo al 750 è che i più potenti sistemi politici d’Europa, al Francia e Bisanzio, ritrovarono stabilità e iniziarono ad espandersi; entrambi rappresentavano tanto una minaccia per i loro immediati vicini, i quali avrebbero dovuto diventare più forti o soccombere, quanto un modello, perché tutte le tecniche di governo or ora menzionate erano in questi paesi più sviluppate. L’Inghilterra utilizzò quale modello la Francia, ed entro il 10. secolo era essa stessa tanto una minaccia quanto un modello per i suoi vicini celtici; la Danimarca si diede una dimensione politica in risposta alle pressioni e alle influenze franche, ed entro il 1000 era anch’essa tanto una minaccia quanto un modello all’interno della Scandinavia. L’egemonia khazara nelle steppe dell’Ucraina ebbe un effetto simile sulla Rus’. I modelli di governo forte superarono infine la linea del Reno-Danubio, muovendo sempre più verso l’esterno, a nord, ad ovest e ad est. Simile sviluppo non fu semplice, ed ebbe anche altre cause: non fu neanche lineare, come mostra (ad esempio) la storia della Danimarca. Ma funzionò come base per sviluppi più locali, dando loro a livello continentale una coerenza destinata, alla fine, a durare.
P. 562-64

Bibliografia

I Vichinghi / G. Jones. – Roma, 1995
Le origini dell’economia europea: comunicazioni e commercio / M. McCormick. – Milano, 2008

Cap. 21. Gli aristocratici tra mondo carolingio e mondo “feudale”.

La sprezzante condotta aristocratica non nasce quindi con la “rivoluzione feudale” dell’11. secolo. Né, come si è visto nei capitoli precedenti, queste regole quasi senza tempo confliggono realmente con quanto altro sappiamo circa gli aristocratici: il loro attaccamento (e persino lealtà) ai re e alle altre importanti figure politiche, la loro religiosità, e persino il loro far propri i valori dell’educazione carolingia e della correctio. Il presente capitolo mira a considerare le prassi aristocratiche, per quanto le nostre fonti lo consentono, dal loro punto di vista, non da quello dei sovrani e scrittori, e a capire cosa esse significassero ai loro occhi nei diversi contesti dell’Europa occidentale dopo il 750 circa. Inizierò esaminando questi brevi casi specifici, per illustrare come famiglie diverse, in differenti parti d’Europa, reagissero ai cambiamenti politici del periodo. Considererò poi tre temi interconnessi, le strutture del potere locale, la relazione di dipendenza, e quindi, ritornando a Wichmann e Geraldo, i valori aristocratici.
P. 567

Pur tra loro così diverse, le prassi aristocratiche di cui si è brevemente dato conto hanno tuttavia in comune alcuni elementi. Il primo, del tutto scontato nell’alto Medioevo, è costituito dalla terra: nessuno prima del 1000, neppure in un’area minuscola, poteva ambire a diventare un protagonista della scena politica senza considerevoli possedimenti locali, in piena proprietà o concessi a lungo termine da chiese e re. Quanto caratterizza tra l’altro il periodo carolingio e post-carolingio è il fatto che, rispetto a epoche precedenti, il controllo aristocratico sulla terra fu decisamente maggiore, e per conseguenza minore quello esercitato dai non aristocratici. Il cambiamento fu particolarmente significativo in Inghilterra, come abbiamo visto nel capitolo 19., e persino più rilevante in Sassonia, dove la conquista di Carlo Magno ebbe come conseguenza la rapida acquisizione di terre in precedenza di proprietà contadina da parte degli stessi re, delle chiese e dei monasteri, dei subentranti signor i franchi e (forse in misura maggiore) della sopravvissuta aristocrazia di origine sassone. La velocità del cambiamento sociale provocò la rivolta contadina di portata più ampia dell’Europa altomedievale, la sollevazione degli Stellinga dell’841-2, durante la guerra civile carolingia, la quale, una volta domata, lasciò campo libero ai nuovi poteri politici riguardo all’accumulo di terra. La novità del potere aristocratico sassone e la sua stretta connessione con l’azione regia possono ben spiegare la solidità del sistema politico ottoniano in Sassonia, come certamente spiegano quella del potere regale in Inghilterra. Nella Francia propriamente detta, e anche in Italia, il periodo 750-1000, grazie in larga misura alle opportunità politiche che si aprirono per gli aristocratici sotto Carlo magno e i suoi successori, segna anch’esso una costante crescita della ricchezza e del potere aristocratici a spese delle superstiti comunità contadine. In conseguenza di questo processo ancora mal studiato, in Francia ed in Italia i contadini proprietari sono decisamente meno visibili nel 1000 che nel 750, ed in alcuni luoghi scompaiono del tutto. Considereremo questo aspetto nel prossimo capitolo, ma esso rappresenta lo sfondo contro cui porre l’affermazione aristocratica: i signor i ebbero più terra da utilizzare politicamente e talvolta – come i monasteri di maggiore successo o l’”aristocrazia imperiale” - di gran lunga molta più terra. La dinamica su accennata non venne intaccata dal crescente radicarsi regionale dell’aristocrazia (al di fuori dell’Inghilterra) dopo l’850 circa, processo che semplicemente vedeva i signori usare in maniera crescente le loro terre come elementi della politica regionale, come anche (o in luogo di quanto) avrebbero fatto a livello di regno.
P. 573-74

I signori carolingi, esattamente come nel periodo precedente al 750, remuneravano le loro clientele militari in modi diversi: con terre donate in proprietà, in affitto ereditario, o in beneficio revocabile. La differenza non sempre era rilevante: diversamente dalle aristocrazie di più alto livello, i fideles e i vassalli minori potevano non essere in grado di far valere le loro ragioni anche nel caso in cui la loro piena proprietà fosse stata confiscata da un conte, un vescovo o un abate. Aumentando la loro terra, gli aristocratici laici, ma anche i vescovi e gli abati, accrescevano inoltre i loro seguiti – i loro eserciti – concedendo questa terra in misura maggiore. Nel 10. secolo avrebbero posto i milites d spicco al comando dei loro castelli e dei poteri politici locali associati a tale comando. Simili scelte non avrebbero comportato problemi nel 9. secolo, poiché nessun miles poteva allora rendersi autonomo senza prepararsi un destino infausto. Nel tardo 10. secolo, tuttavia, quando in alcune parti d’Europa il ceto 2militare” iniziò ad acquisire un’identità aristocratica e il senso di un autonomo protagonismo politico, la scelta comportava maggiori rischi. Se i conti potevano rendersi autonomi riguardo ai re, i castellani potevano anche rendersi autonomi riguardo ai conti, come i signori di Uxelles avevano fatto nei riguardi dei conti di Macon. Se un conte o un vescovo perdeva il controllo dei suoi castellani, l’intera intelaiatura del suo potere poteva disfarsi, e accadeva spesso. In questo caso, la “politica della terra” condusse stabilmente a una frammentazione politica di un tipo più radicale – rara prima del 1000, ma frequente dopo il 1050. L’intera forma della politica poteva potenzialmente cambiare: il mondo pubblico dei Carolingi scomparire, lasciando al suo posto, in alcune aree, solo minuscole signorie private.
In anni recenti, questo processo è stato battezzato da molti storici “rivoluzione (o mutazione) feudale”, e il tema è stato oggetto di un serrato dibattito. In effetti, la “rivoluzione feudale” è diventata per alcuni studiosi (in particolare in Francia) una formula in grado di evocare quello che essi ritengono un cambiamento epocale, la fine dello stesso mondo antico nelle sue definizioni più ambiziose. Il dibattito non può essere ripreso in questa sede (in larga misura è relativo all’11. secolo), ma alcuni punti possono tuttavia venire esplicitati. Il primo riguarda il fatto che il tono catastrofico di molti storici è fuori luogo: il nuovo mondo “feudale” dell’11. secolo può certo essere stato caratterizzato da una violenza maggiore, ma la differenza era solo nel grado, non nella specie, come qualunque lettore degli Annali di Flodoardo, o della Vita che Oddone dedica a Geraldo (o, in quanto a questo, degli Annali di San Bertino) è in grado di percepire; gli aristocratici in armi di qualunque tipo sono sempre vilenti, e ciò non mutò per il fatto che adesso erano affluiti in tale ambito anche i milites minori. Il secondo ha a che vedere con la circostanza che in alcuni luoghi, mentre l’ordine carolingio veniva sostituito dalle signorie, si ebbero effettivi cambiamenti, taluni molto rapidi: le assemblee pubbliche sparirono, le relazioni di dipendenza divennero più importanti, il potere divenne maggiormente personale, persino quando era nelle mani degli stessi individui. In una contea autonoma del 10. secolo il potere comitale tendeva ad avere una struttura molto carolingia; ma i tentativi di considerare una signoria di banno locale alla stessa stregua di un sistema politico carolingio di dimensioni ridotte non hanno avuto successo. Come prima argomentato, questi cambiamenti rendono il mondo politico dell’1. secolo strutturalmente differente da quello del 10., almeno nelle parti d’Europa in cui si verificarono.
P. 581-2

Alla fine del nostro periodo, il classico esempio del monastero riformato è quello di Cluny, nella contea di Macon. Fondato nel 909-10 da Guglielmo il Pio, allo scopo di escluderlo da ogni diretto dominio laico venne posto non sotto il suo patronato familiare, ma sotto quello del papa. E per la verità, non vi fu mai la questione di un patronato da parte della famiglia: Macon si trovava ai margini dell’ambito potere dei Guglielmidi, e la famiglia si estinse già nel 927; i successivi abati furono sicuramente di ascendenza aristocratica, ma le loro famiglie non avevano autorità su di essi (né l’aveva il papa, naturalmente, figura marginale della politica del 10. secolo). Nel suo essere separata dall’autorità laica Cluny costituì una realtà decisamente insolita, e i suoi abati dovevano essere – e furono – insolitamente abili per mantenerla tale. Ma la sua crescente reputazione quale centro di alta spiritualità lo rese di gran lunga il maggiore beneficiario della generosità terriera laica nell’Europa dell’epoca, con un migliaio di carte relative a donazioni per il solo 10. Secolo. Le quali furono il frutto non del controllo, ma delle relazioni tanto con gli aristocratici che con i vicini di rango minore (anche le élite di villaggio e i coltivatori: non v’era chi non donasse terre a Cluny), i quali tutti volevano vedere impiegati i loro doni, quanto più abilmente e autorevolmente possibile, a loro vantaggio spirituale. Cluny si trasformò in una signoria di pari grado delle altre presenti nel Maconnais, e di gran lunga più ricca della maggior parte di esse. Lo fece non minacciando gli atteggiamenti spirituali aristocratici, ma usandoli e dando loro legittimità. Dopo tutto fu il suo secondo abate, Oddone (927-42), a scrivere il testo fondante della spiritualità laica aristocratica, la Vita di Geraldo. Oddone divenne un esperto della riforma monastica, richiesto in tutta la Francia occidentale e persino da Alberico, principe di Roma. Cluny fu l’esatto opposto di una critica alla società del 10. secolo: per molti aspetti, fu il prodotto più perfetto dei valori aristocratici, compresi quelli religiosi, discussi in questo capitolo.
P. 588-89

Bibliografia

L’Europa dopo Roma: una nuova storia culturale, 500-1000 / J. M. H. Smith. – Bologna, 2008
Le origini di una grande dinastia feudale / V. Fumagalli. – Tubingen, 1971
La montagna e la città: gli Appennini toscani nell’alto Medioevo / C. Wickham. – Einaudi, 1997
Strutture e trasformazioni della signoria rurale nei secoli 10.-13. / C. Violante, G. Dilcher (a cura di). – Bologna, 1996
La società feudale / M. Bloch. – Einaudi, 1999

Cap. 22. L’incasellamento dei contadini, 800-1000

Il modo e la misura in cui ciò avvenne furono diversi nelle diverse aree dell’Europa occidentale. E’ possibile richiamare in questo caso non meno di cinque differenti cambiamenti socioeconomici. In primo luogo, il 9. e il 10. secolo furono in alcune regioni non carolinge il periodo in cui si sviluppò la stessa proprietà fondiaria e si vide emergere per la prima volta un’aristocrazia realmente ricca. In secondo luogo, nell’Europa carolingia gli aristocratici e le chiese accrebbero le loro proprietà, tramite la forza o in altro modo, a spese dei loro vicini contadini, riducendo in tal modo il numero di quelli effettivamente indipendenti. In terzo luogo, i contadini dipendenti e gli affittuari dovettero far fronte a canoni in aumento e a un maggior controllo esercitato sul loro lavoro. In quarto luogo, i contadini vennero sempre più spesso esclusi dal mondo pubblico dell’esercito e dell’assemblea, e quindi dall’ambito di interesse proprio dei re. In quinto luogo, già nel mille in alcune aree d’Europa (in particolare in Francia, ma anche in gran parte d’Italia), questa esclusione iniziò a comportare il diretto assoggettamento delle comunità contadine al controllo giuridico dei signori locali, nel contesto della signoria di banno. Si è trattato di dinamiche per gran parte non collegate, ma che nondimeno andavano tutte nella stessa direzione. Nel complesso, negli ultimi due secoli del periodo oggetto del nostro studio, la relativa autonomia dei contadini dell’alto Medioevo, trattata nel capitolo 9, si andò vieppiù assottigliando. Ho chiamato questo processo “l’incasellamento” dei contadini: sempre più spesso, l’enorme maggioranza contadina della popolazione dell’Europa occidentale venne concentrata in unità circoscritte, vieppiù controllate dai signori locali. Il termine rappresenta l’approssimativa traduzione della parola encellulement utilizzata da Robert Fossier, letteralmente la divisione della società secondo un modello cellulare, dinamica che egli considera l’elemento chiave del passaggio dall’alto Medioevo al Medioevo centrale.  La forza di quest’immagine è più strettamente legata a quella della “rivoluzione feudale”, che in senso stretto rappresenta solo il quinto (e più circoscritto) dei cinque cambiamenti da me sottolineati. Nel complesso, tuttavia, i contadini vennero ovunque sistematicamente confinati e messi al margine. Considereremo volta a volta ciascuna delle dinamiche sopra elencate, e successivamente, allargando la prospettiva, i più ampi contesti economici nei quali ebbero a manifestarsi e quindi le loro conseguenze.
P. 591-92

Alla fine del periodo oggetto del nostro studio si ebbe quindi una qualche vitalità commerciale nell’Europa occidentale, ma non un vero e proprio decollo dello scambio. Ciò fa il paio con la costante ma non ancora rapida crescita della popolazione e dei disboscamenti; per la verità, l’11. ed il 12. secolo mostrano un tale volume di attività che si rischia di non vederne alcuno prima del 1000, un’interpretazione altrettanto fuorviante di quanto sarebbe l’esclusivo concentrarsi sul commercio internazionale dell’alto Medioevo. Tuttavia, cosa spiega l’attività di scambio che si può osservare nel 9. e nel 10. secolo? Ho sostenuto nel capitolo 9 che prima dell’800 il motore dello scambio era, grosso modo, la ricchezza e il potere d’acquisto degli aristocratici: quanto più ricche erano le élite, tanto più erano in grado di sostenere reti di produzione e distribuzione su vasta scala. Dopo l’800, e in misura persino maggiore dopo il 950 circa, si può aggiungere a ciò l’accresciuta complessità economica che una popolazione in crescita avrebbe di per sé comportato; inoltre, persino i contadini potevano trarre benefici dall’espansione economica conseguenza dei disboscamenti, almeno in qualche circostanza, e i signori, che traevano i canoni da più individui e luoghi, certamente se ne avvantaggiarono. Ma il principale motore era ancora aristocratico. E in questo contesto l’incasellamento dei contadini rappresentò un elemento di fondamentale importanza. Tutte le dinamiche tese a un più forte assoggettamento dei contadini descritte nella prima metà di questo capitolo ebbero quale risultato la concentrazione del surplus contadino nelle mani dei signori, attraverso i canoni e i diritti signorili. La percentuale di produzione globale che finiva nelle mani dei signori si accresceva continuamente (talvolta come in Inghilterra, rapidamente). Il potere d’acquisto aristocratico si accrebbe quindi di conseguenza. Fu questo ad alimentare l’espansione dello scambio nel 9. e nel 10. secolo, e lo avrebbe alimentato ancora per alcuni secoli, perché fu solo molto in là nel Medioevo che lo scambio capillare poté ovunque fare affidamento dui contadini in modo sufficiente ad autosostenersi. La perdita di autonomia dei contadini e l’accresciuta complessità dello scambio furono così le due facce di una stessa medaglia. Gli storici tendono a valutare positivamente la complessità dello scambio, e usano per descriverlo parole dalla forte connotazione positiva quali prosperità, sviluppo e (come ho fatto anch’io) dinamismo. Ma la complessità ha i suoi costi, e il suo costo nel periodo che stiamo studiando fu un passo decisivo verso la limitazione dell’autonomia (e talvolta, in effetti, della prosperità), di una quota tra l’80 e il 90 per cento della popolazione.
P. 615-16

Bibliografia

Le origini dell’economia europea: guerrieri e contadini nel Medioevo / G. Duby. – Laterza, 2004
L’economia rurale nell’Europa medievale: Francia, Inghilterra, Impero, secoli 9.-15 Medioevo / G. Duby. – Laterza, 1966
L’economia carolingia / A. Verlhust. – Roma, 2004
L’infanzia dell’Europa: economia e società dal 10. al 12. secolo R. Fossier. – Bologna, 1987
L’azienda curtense in Italia / B. Andreolli, M. Montanari. – Bologna, 1983
Castelli e villaggi nell’Italia padana / A. A. Settia. – Napoli, 1984
Il problema dell’incasellamento nell’Italia centrale / C. Vickham. – Firenze, 1985Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano / G. Tabacco. – Einaudi, 2000

Cap. 23. Conclusione: le tendenze della storia europea tra il 400 e il 1000

L'analisi sin qui condotta ha mostrato come tanto l'alto medioevo nel suo complesso, quanto ciascuna delle società piccole ecco grandi esistenti in quel periodo, vadano riguardati nei termini loro propri evitando di ricorrere al senno di poi. In questo senso una conclusione può sembrare in qualche modo non necessaria perché, rispetto alle diverse realtà esaminate, ho costantemente cercato di porre l'accento sulle differenze di ordine locale. Ho fatto uso della comparazione, piuttosto che di generalizzazioni onnicomprensive, proprio lo scopo di tener conto di queste differenze, come pure di provare a capirle.
L’avversione per un approccio teleologico, che troppo spesso comporta una condanna moralistica dell'alto medioevo, non implica però che si debba considerare quanti dissero in quel periodo “proprio come noi” o, peggio, provare per quell’epoca una qualunque forma di nostalgia. il mondo altomedievale, infatti, era molto diverso dall'Europa occidentale del ventunesimo secolo nella quale mi trovo a scrivere. I valori attuali, il liberalismo, la secolarizzazione, la tolleranza, il senso dell' ironia, l'interesse per le opinioni altrui, per quanto superficiali possano essere nella nostra società, erano allora del tutto assenti, ho il meglio presenti solo allo stato embrionale, come invero sono stati assenti dalla maggior parte delle società del passato. Nell'alto medioevo, com'è ovvio, gli individui avevano il senso dell'umorismo, ma quanto li divertiva (in gran parte il dileggio e i giochi di parole grossolani) non li avvicina affatto alla nostra esperienza: certamente usavano l'ironia, ma per solito era piuttosto feroce i sarcastica. Quasi tutti gli scrittori dell’epoca, persino i rigoristi religiosi che si rifacevano all’egualitarismo della teologia del nuovo testamento o del Corano, davano per scontata l’immutabilità della gerarchia sociale che l’innata virtù morale del ceto aristocratico dal quale per la gran parte provenivano. Il servilismo verso i socialmente superiori e la compiaciuta coartazione Dei socialmente inferiori erano condotte normali e persino virtuose, così come l’assunto generale (per quanto è dato vedere) dell'intrinseca superiorità degli uomini sulle donne. Per completare il moderno Rosario di ciò che consideriamo intollerabile manca soltanto il razzismo, Di cui la generalizzata credenza sciovinista che gli stranieri fossero inferiori e stupidi faceva senz'altro le veci. Scrivendo questo libro mi sono divertito a immaginare quale scrittore tardo antico o altomedievale (vale a dire, quelli la cui personalità siamo in grado di riuscire a cogliere, almeno in parte, con il minimo di mediazione) avrei potuto avere piacere di incontrare. Si riducono davvero a pochi: Teodoreto di Cirro, Gregorio Magno, Eginardo, forse Braulio di Saragozza e, con minore entusiasmo, Agostino, comunque per la notevole intelligenza e consapevolezza di sé, non per la tolleranza. Tuttavia, data la distanza da noi, e in larga misura proprio motivo di quella distanza, l'alto medioevo e interessante - come interessanti sono le molte diverse realtà al suo interno. E’ il suo interesse che ho soprattutto cercato di far risaltare e rendere chiaro, non un disegno strutturale onnicomprensivo del periodo, una narrazione metastorica di cui la maggior parte degli esempi attuali, per le ragioni delineate all’inizio dl capitolo 1, rappresentano invenzioni.
Nondimeno, la storia dell’Europa altomedievale ha certamente conosciuto delle tendenze: compito di questo capitolo finale è metterle in evidenza rendendole esplicite, benché di tutte i sia già fatto cenno. Nel corso dei sei secoli coperti dal nostro studio credi si possano rilevare sei principali cambiamenti (o rotture), tre all’Ovest, due all’Est e uno al Nord: li prenderò in considerazione in ordine cronologico, evidenziando quindi le soggiacenti strutture che sorreggono l’insieme dei sistemi sociali e politici del periodo.
La prima rottura, e la più decisiva, rimane lo smembramento dell’Impero romano d’Occidente. Come abbiamo visto, nei decenni a noi più vicini le reazioni alla consolidata lettura moralista della “fine della civiltà antica” hanno spesso voluto porre in risalto le continuità presenti per tutto il 5. secolo, in specie riguardo alle pratiche culturali e religiose ma con un occhio alle aspirazioni politiche: continuità effettivamente presenti. La vecchia immagine di una cultura romana spazzata via dalla vitale barbarie germanica (seguita dalla “fusione” romano-germanica sotto l’egida degli ecclesiastici cattolici) è, di conseguenza, irrimediabilmente superata. Ciò non significa tuttavia che in Occidente il 5. secolo non abbia costruito un importante periodo di cambiamento. Nei regni post-romani la base fiscale dello Stato romano, l’imposta fondiaria, vide costantemente decrescere la propria importanza, se non nel 5. certamente nel 6. secolo. Nessuno di essi, eccettuata forse l’Italia ostrogota, tentò mai di riprodurre lo Stato romano su scala ridotta, come fecero nel mondo islamico gli stati post-abbasidi; in Occidente, le realtà locali favorirono sistemi politici più semplici, e le rispettive prassi differirono sempre di più, fatta eccezione per la militarizzazione della politica, di portata generale in tutta l’Europa latina. L’unità economica del Mediterraneo occidentale venne spezzata; le aristocrazie assunsero carattere maggiormente locale vedendo per solito diminuire la propria ricchezza; in numerosi luoghi la cultura materiale conobbe un analogo processo di semplificazione. Il fai-da-te che caratterizza la maggior parte della prassi politica e culturale (e in misura persino maggiore architettonica) altomedievale è stato l’esito naturale della frammentazione dei modelli e delle risorse romani, anche se i frammenti rimasero a lungo attivi; da qui la necessità di illustrare nel libro il funzionamento del tardo Impero Romano in quanto fondamento essenziale di quello che sarebbe seguito. Questo fai-da-te era sia estremamente creativo che imposto dalla frammentazione dell’esperienza romana; è stato per molti secoli consustanziale all’attività sociale e politica altomedievale.
Il corrispettivo orientale della rottura del 5. secolo, e in effetti il cambiamento di maggior momento in Oriente, è costituito dal culmine della conquista araba nel 636-51, fatto che aprì due secoli di crisi per il mondo orientale/bizantino spingendo Bisanzio, in via duratura, verso una diversa traiettoria politica, di maggiore centralizzazione e militarizzazione. Naturalmente il califfato arabo era del tutto nuovo, anche se è possibile sostenere che le sue radici strutturali fossero altrettanto romane di quelle dei bizantini. La ricchezza del califfato e la debolezza dello Stato bizantino del settimo secolo (per non parlare dei regni occidentali) spostarono l’epicentro della politica molto più ad est Di quanto non fosse stato da quasi un millennio a quella parte: dapprima in Siria e poi virgola dopo il 750 in Iraq. quando nel Mediterraneo, all'incirca dopo l’Ottocento, riprese vitalità il commercio a medio raggio, il suo centro era un Egitto che (diversamente da quanto accadeva nell’Impero Romano) guardava tanto ad est quanto a nord e ad ovest. Nell'oriente del settimo secolo, come anche in seguito, la continuità nelle strutture dello Stato rese ai cambiamenti del decennio 640- 50 non così irreversibili come quelli avvenuti nell’occidente del quinto secolo; furono tuttavia più sconvolgenti, e invero più terrificanti (allo stesso modo per vincitori e vinti) di tutti gli altri considerati in questo libro. Nel periodo esaminato, i califfi ‘Umar 1. e ‘Uthman Non hanno rivali quali strateghi di cambiamenti politici e (in definitiva) culturali di rilevanza epocale; in questo senso, persino Carlo Magno non può costituire un adeguato equivalente, e conquistatori del quinto secolo come Genserico e Clodoveo ne rimangono decisamente lontani.
Il secondo importante cambiamento che interessò l’Occidente fu culturale: l’affermazione di una prassi politica di esplicito contenuto moralizzatore in specie nel secolo che va dal 780 all’880. Una tradizione politica cristiana di contenuto moralizzatore risalente alla tarda romanità esisteva certamente, ma non aveva una relazione diretta con i programmi politici laici. La Spagna visigota fu con ogni probabilità la prima entità politica a dar vita a una simile prassi, ma furono Carlo magno e i suoi successori i primi a predisporre un coerente programma politico volto, nella maggior parte d’Europa, a condurre un’intera popolazione è più vicino alla salvezza. I Carolingi strinsero tra lo Stato e una chiesa semiautonoma un legame che per due secoli divenne la norma dell’Occidente latino, sino a che i papi, da Gregorio 7. in avanti, cercarono nuovamente di scioglierlo; tentativo riuscito solo in parte – e nell’Europa settentrionale poi ribaltato dalla Riforma del 16. secolo. Cosa forse ancor più importante, i Carolingi furono all’origine dell’assunto secondo il quale i re e i loro atti potrebbero e dovrebbero venir controllati dagli ecclesiastici sotto il profilo morale, la qual cosa già nel 9. secolo fu fonte di numerosi problemi per sovrani quali Ludovico il Pio e Lotario 2., e avrebbe continuato ad esserlo ancora a lungo per molti dei loro successori in Europa (compresa, a partire dal 10. secolo, l’Inghilterra). L’insieme dei cambiamenti d cui sopra rappresentò una vera e propria innovazione carolingia, con solo sporadici precedenti, e da allora è valsa a contrassegnare la fondamentale diversità della prassi politica occidentale. L’Impero bizantino e il califfato furono certamente pari ai Carolingi quanto a baldanza religiosa ma, come osservato alla fine del capitolo 17, nessuno dei grandi imperi orientali avvertì allo stesso modo l’urgenza di un programma analogo a quello carolingio. I movimenti salvifici segnarono la politica musulmana per tutto il 7. secolo e di nuovo nel 747-50 e (In Nord Africa) nel 10. secolo, ma erano incentrati, più che su particolari programmi, sulla questione di chi dovesse essere califfo. Fu, questo, un cambiamento specificamente occidentale.
La terza rottura che interessa l’Occidente è rappresentata dalla fine del mondo carolingio: non tanto il venir meno dell’unità del sistema politico franco tra la metà e la fine del 9. Secolo, che nessuno, persino all’epoca, pensava potesse durare, quanto piuttosto il disintegrarsi, intorno all’anno 1000, delle stesse strutture di potere pubblico in alcune parti di quel sistema, in specie nella Francia occidentale e (in certa misura) in Italia. La sua fine segna la fine di questo libro, caratterizzando l’11. secolo in gran parte d’Europa come un periodo assai diverso nei paradigmi di base. Ritornerò tra un momento su alcune delle sue implicazioni: come la rottura del 5. secolo, si tratta infatti di un cambiamento che quanti amano pensare la storia in termini di forti discontinuità hanno sottolineato con decisione e che al contrario i paladini della continuità hanno teso a sminuire; la realtà del cambiamento va riconosciuta senza lasciarsene fuorviare.
Il secondo cambiamento orientale fu, in maniera analoga, lo smembramento del califfato all’inizio del 10. secolo. Come già osservato, la maggior parte delle entità politiche post-abbasidi mantennero le strutture statuali del califfato, le quali poterono essere più facilmente riprodotte a livello regionale rispetto a quelle dell’Impero romano d’Occidente. La spaccatura condizionò quindi il mondo arabo in misura decisamente minore di quanto ci si sarebbe potuto aspettare; nondimeno, a causa delle eccessive divisioni, esso cessò di essere politicamente dominante. Questo permise alla metà del 10. secolo a un Impero bizantino nuovamente stabile di entrare nel suo secolo di gloria militare e di dominare gli stati vicini: disintegrandosi al-Andalus sotto i colpi della guerra civile successiva al 1009, Basilio 1. fu di gran lunga il più forte sovrano d’Europa, superiore probabilmente anche ai Fatimidi del Mediterraneo meridionale. Quel potere sarebbe stato indebolito solo alla fine dell’11. secolo dai nuovi conquistatori musulmani provenienti da est, i Turchi selgiuchidi, mentre per ristabilire l’unità musulmana delle terre mediterranee si sarebbero dovute attendere le conquiste ottomane del 16. secolo. In un certo senso, gli Ottomani ricostituirono l’impero di Giustiniano attorno a un Mediterraneo nuovamente centrato su Costantinopoli/Istanbul, fornendogli le basi per durare ancora piuttosto a lungo. Ma il gap di quasi un migliaio di anni tra i due imperi rende quella restaurazione non più che un interessante parallelo storico: i legami genealogici tra i due sistemi rivestono un’importanza di gran lunga minore rispetto alle rilevantissime differenze strutturali le quali, già presenti nel 7. secolo, si accentuarono ulteriormente nel 10.
Il più importante cambiamento intervenuto nel Settentrione ha riguardato soprattutto il 10. secolo: si tratta della costante espansione di stabili gerarchie politiche e sociali in tutta la vasta area tra l’Impero franco e quello bizantino a sud e i cacciatori-raccoglitori delle lontane foreste settentrionali. I primi a trarne vantaggio nell’8. secolo furono i re anglosassoni, seguiti nel 10. da Danesi, Polacchi, Boemi, Ungheresi e Rus’, e in maniera più esitante dalle entità politiche del resto della Scandinavia, del Galles e dell’Irlanda. Ho ascritto questo fenomeno alla stabilità e all’espansionismo dei Franchi e dei Bizantini (e per estensione degli Inglesi e poi dei Danesi), che li rendeva tanto modelli da emulare quanto minacce se le entità politiche settentrionali non fossero state in grado di organizzarsi per opporvisi. Nella maggior parte dei casi il consolidarsi della regalità e della gerarchia nel Settentrione ebbe carattere duraturo; fatto che vale d per sé a dimostrare la solidità dei sistemi politici creati nella seconda metà del nostro periodo da Carlo martello, Pipino 3. e Carlo magno ad ovest, e dagli imperatori iconoclasti e macedoni ad est. In Occidente, tale solidità sopravvisse persino all’eclisse carolingia, perché gli ottoni e i loro successori nella Francia orientale fecero valere un’egemonia sui territori slavi e scandinavi altrettanto estesa, se non maggiore, di quella esercitata da Carlo Magno. Dopo il 750, la Francia e Bisanzio dominarono insieme l’Europa altomedievale come aveva fatto l’Impero romano trecento anni prima. Non altrettanto potenti, dovettero fronteggiare un rivale molto più forte a sud-est, il califfato abbaside (per un secolo la potenza più formidabile al mondo), ma ebbero sui loro vicini nordici un impatto maggiore di quello dei Romani.
Nel periodo che va dal 400 al 1000, i sistemi politici dell’Europa e del Mediterraneo si costituiscono quindi in tre blocchi grosso modo distinguibili cronologicamente. Nel primo periodo, l’Impero romano domina l’Europa occidentale e meridionale e il Mediterraneo senza alcun rivale a nord. Situazione che ebbero termine in Occidente nel 5. secolo, nonostante il suo parziale ribaltamento ad opera di Giustiniano nel Mediterraneo occidentale, e che si protrasse in Oriente sino all’inizio del 7. Il secondo periodo fu caratterizzato da un potere policentrico: entro il 700, i principali stati occidentali furono la Francia merovingia, la Spagna visigota e l’Italia longobarda, più o meno sullo stesso piano e ciascuno più potente di qualunque altro vicino, contrapposti al califfato omayyade in espansione e a un impero bizantino che si difendeva con ogni mezzo. Il terzo periodo fu quello dei tre maggiori poteri, i Franchi, i Bizantini e gli Abbasidi, ridottisi ai primi due già nel 950, con i Franchi che si indebolivano e i Bizantini che si rafforzavano; nel tardo 8. secolo i due poteri erano egemoni in Europa, ed entro il 1000, o in epoca poco successiva, contribuirono anche allo sviluppo degli stati del Settentrione. Ho già sottolineato la sorprendente sicurezza di sé di tutti e tre questi poteri del terzo blocco temporale: sapevano di essere più forti dei loro immeditati predecessori e di qualunque altro potere ad ovest della Cina, fatto che consideravano una riprova della loro superiorità morale e che usavano per giustificare la loro ulteriore espansione. Il protagonismo straordinariamente consapevole non solo dei Carolingi ma, in modi diversi, anche dei loro contemporanei bizantini e arabi, ne discende direttamente: e tutti e tre lasciarono un’eredità duratura. Sarebbe tuttavia un errore trascurare per questo le innovazioni su piccola scala lasciate dal secondo blocco temporale: la costituzione da parte dei Merovingi della centralità politica della regione tra Parigi e il Reno (innovazione che dura da allora), la politica episcopale della Spagna del 7. secolo, l’iconoclastia bizantina e, soprattutto, l’ascesa politica omayyade. Non è più possibile studiare uno qualunque di questi temi, meno che meno considerarli nel loro insieme, e concludere che l’Alto Medioevo si colloca al di fuori della “vera” storia: infatti, ormai, non lo fa più nessuno.
I sistemi politici e i cambiamenti sociali or ora richiamati riposavano su una rete di strutture comuni a tutte le società esaminate in questo libro. Non erano specifiche dell’alto Medioevo – si può sostenere caratterizzassero la maggior parte del mondo precapitalistico – ma al fine di comprendere il periodo di cui ci stiamo occupando è necessario evidenziarle e tematizzarle.  Ne propongo una breve analisi secondo tre prospettive: l’accumulazione di ricchezza, l’istituzionalizzazione della politica e la cultura della sfera pubblica.
Nel periodo che abbiamo studiato, ricchezza e potere erano in maniera decisiva basati sulla terra.  Quanto più si poteva trarre dalla terra, vale a dire, dai contadini che la coltivavano, sia in canoni di affitto che in tasse, tanto più si era ricchi, e maggiori quindi risultavano la quantità di risorse che si era in grado di manovrare, il numero di uomini armati che si potevano mantenere, e il potere di cui si poteva disporre. Il mezzo più sicuro per di sfruttare e i contadini erano le tasse, perché in teoria tutti dovevano pagarle, non soltanto gli affittuari dei fondi – da qui la rilevanza di Bisanzio e del califfato, fondati, diversamente dagli stati dell’Occidente post-romano, sulla riscossione dei tributi. Ma anche in Occidente i re franchi, in specie, poterono arricchirsi attraverso i canoni tratti dagli estesi territori regi, pure in periodi, come il tardo 7. secolo, in cui non ricavavano ricchezza dai popoli limitrofi. La stessa logica guidava le aristocrazie di ciascun sistema politico. Un’aristocrazia ricca sosteneva in genere i sovrani, perché nelle condizioni politiche altomedievali il suo coinvolgimento nel potere regale/imperiale era estremamente forte. Quanto più potenti erano i re, tanto maggiore era la loro capacità di dare, quindi di attrarre i propri sostenitori dell’élite; l’accumulazione di ricchezza rafforzava quindi doppiamente la coesione politica. La sola grande eccezione fu rappresentata dal califfato, in cui le aristocrazie locali ebbero relativamente poco a che fare con il potere politico. I califfi furono a lungo talmente ricchi che questo non contava granché, benché alla fine sia stato tra i fattori che contribuirono alla dissoluzione dell’unità abbaside.
Il legame tra ricchezza e potere significava che uno stato forte dipendeva in modo essenziale dallo sfruttamento dei contadini. Non siamo in grado di dire cosa questi ultimi avrebbero preferito: la sicurezza loro offerta da molti potenti sovrani (sicurezza solo relativa: i regni di Giustiniano, Calo Magno e Basilio 2. hanno tutti lasciato chiare tracce di violenze locali e oppressione), oppure l’autonomia e canoni e tributi inferiori di cui i contadini poterono godere nelle piccole e deboli entità politiche della Gran Bretagna o dei mondi slavi e scandinavi prima del 10. Secolo, autonomia d’altra parte rischiosa se invasori più forti si davano alle razzie o a fare bottino di schiavi. Semplicemente non abbiamo le informazioni che ci potrebbero permettere di affermarlo, né le avevano in effetti la maggior parte degli stessi contadini altomedievali; quale alternativa sembri preferibile dipenderà dunque in larga misura dai presupposti di ciascuno di noi (personalmente, penso che avrebbero preferito l’autonomia). La ricchezza e il potere dei ricchi andavano tuttavia di pari passo con lo sfruttamento dei poveri e le limitazioni della mobilità della vita contadina. Come appena accennato, i contadini conobbero limitazioni minori nel Settentrione. In alcune parti delle province occidentali postromane, e forse anche in talune zone dell’Impero bizantino, dal 6. all’8. secolo (a Bisanzio dal 7. al 9.) furono anche più autonomi rispetto sia al passato sia al futuro: agli inizi dell’alto Medioevo, gli stati e le aristocrazie furono in genere più deboli di quanto sarebbero stati sotto i Carolingi o gli imperatori macedoni. Con la comparsa di poteri più forti, il controllo locale sui contadini sperimentò un rinnovato inasprimento, e in Occidente continuò a intensificarsi persino dopo la disintegrazione del potere carolingio, diffondendosi a nord attraverso il continente europeo.
La ricchezza comportò anche lo scambio. Le ricche aristocrazie (e le chiese, i re) ebbero maggiori risorse da destinare all’acquisto di beni artigianali, i quali poterono così essere prodotti in quantità maggiori e venduti a un pubblico più vasto – persino contadino, in taluni casi – mentre le aristocrazie meno benestanti e i contadini più autonomi diedero vita a produzioni di minore specializzazione. Produzione complessa e scambio furono maggiori nell’Impero romano che negli stati occidentali che lo sostituirono, o nella Bisanzio dell’8. secolo; in seguito, a un livello minore, produzione complessa e scambio furono (di gran lunga) maggiori nell’entroterra merovingio della Francia settentrionale che non tra vicini inglesi, tedeschi o scandinavi; con il Carolingi lo scambio conobbe in Francia una nuova espansione, ma non raggiunse mai i livelli romani e quelli dell’economia del mondo musulmano. Lo stretto legame tra ricchezza aristocratica e sfruttamento dei contadini da una parte e complessità economica dall’altra sarebbe durato a lungo nel Medioevo; iniziò a indebolirsi colo quando la produzione su larga scala si fece a tal punto generale, e la vendita dei prodotti così capillare, da poter far conto sulla domanda contadina e non più solo aristocratica. Con la sola possibile eccezione dell’Egitto (dove, tuttavia, manca un’analisi che permetta di orientarsi in tal senso), in Europa e nel Mediterraneo è questa una situazione che avrebbe iniziato a prodursi al più presto dopo il 1200, e spesso molto più tardi. Nel periodo di ci siamo occupati, concentrazione della ricchezza, sfruttamento, scambio e potere politico costituiscono un unico blocco, e (con la dovuta cautela) la presenza di uno di questi elementi può consentire di inferire gli altri – cosa che, data la disomogeneità della nostra documentazione, è spesso utile.
Il secondo elemento da mettere qui in rilievo è il grado in cui il potere si radicava in modelli politici permanenti. Era certo importante per un re avere risorse fondiarie, ma se il potere di cui godeva si fosse basato semplicemente sulla lealtà personale dei suoi armati – una lealtà mai gratuita – allora, a meno che non espandesse continuamente l’area sotto il suo controllo, avrebbe rischiato di rimanere privo di terra, e di conseguenza senza potere, avendone data troppa. Marc Bloch considerava la dialettica di cui sopra come un dato permanente della società feudale in Occidente dopo il 900, e in questo libro ci è accaduto di considerare i problemi della “politica della terra” in varie occasioni, da ultimo nel contesto del collasso dell’autorità regale nella Francia occidentale del 10. secolo, esempio invero classico di questo modello. Come vi facevano fronte i sovrani? Perché bisogna riconoscere che, al di fuori dei sistemi politici altamente personalizzati e su piccola scala (ad esempio) della Britannia e dell’Irlanda postromane, i sovrani altomedievali riuscirono spesso a mantenere stati grandi ed efficienti per lunghi periodi di tempo, anche operando costanti concessioni di terre.
Il compito era relativamente facile per gli stati sulla riscossione dei tributi, gli imperi romano e bizantino e gran parte degli stati islamici. In queste realtà, lo Stato disponeva di un’importante risorsa di base utilizzabile per organizzare un esercito salariato, in larga misura indipendente dal sostegno aristocratico, e anche per ricompensare la lealtà su scala molto ampia; soltanto in circostanze di estrema crisi (l’Occidente del 5. secolo, lo smembramento di al-Andalus nel decennio 1010-20) gli aristocratici poterono considerare l’ipotesi di rendersi autonomi, e di norma quanto più i sovrani glielo permettevano, tanto più strettamente gli aristocratici si legavano a loro. Gli stati basati sulla riscossione dei tributi necessitavano inoltre di una complessa burocrazia destinata esclusivamente alla riscossine delle imposte, al qual cosa, insieme alla gerarchia militare, provvedeva a creare percorsi di carriera all’interno di istituzioni stabili, anche se spesso rudimentali. L’istituzionalizzazione dell’azione politica fu un lascito diretto dell’Impero romano (e anche sasanide) a Bisanzio e al califfato. In entrambi fu abbastanza complessa da mantenere due classi dirigenti separate, l’una civile e l’altra militare. Mentre a Roma era l’élite civile a godere dello status più elevato, rappresentando così l’obiettivo più ambito dell’aristocrazia terriera, sotto tutti i successori fu la gerarchia militare ad avere la primazia. In un modo o nell’altro, tuttavia, lo Stato, nelle sue strutture di base, era piuttosto solido, come mostra la sopravvivenza di quello bizantino dopo le conquiste arabe.
Nell’Occidente postromano, la maggior parte della gerarchia burocratica si dissolse insieme al sistema fiscale, e l’esercito divenne un insieme di seguiti militari aristocratici: le istituzioni dello Stato romano subirono una notevole contrazione. E tuttavia non scomparvero; in Francia, in Italia e nella Spagna visigota si ebbero ancora conti, duchi e funzionari di palazzo, posizioni altamente remunerative (implicavano l’assegnazione di terre) e oltremodo ambite. I Carolingi estesero il sistema con la temporanea concessione di honores, i quali potevano comprendere cariche, terre regie, il controllo sui monasteri. Quasi ogni attore politico doveva avere una carica di qualche tipo, o altrimenti essere molto vicino al re, come Eginardo. Di nuovo, rendersi autonomi venne a lungo considerato inconcepibile, eccetto che ai margini della politica, come nel 6. secolo nelle montagne della Spagna settentrionale o dal 6. all'8. nelle Alpi orientali attorno a Coira. La comunità politica veniva inoltre regolarmente riunita nelle assemblee pubbliche, nei concili ecclesiastici, nell’adunata dell’esercito, e alla corte del re, come vedremo tra un momento: coloro che mancavano di essere presenti rischiavano di perdere le proprie terre, almeno quelle attribuite dal re. In stati grandi ma disorganizzati come in Francia e in Spagna, le assemblee ebbero sufficiente regolarità per configurarsi come sostegni istituzionali al pari del sistema di assegnazione delle cariche. Come abbiamo visto nei capitoli 5 e 16, in Francia gli attori politici,  persino coloro che vivevano lontani dalla corte, avevano necessità di sapere dove si trovava il re; patronato, lotte fra frazioni, talvolta persino un senso di responsabilità pubblica, tutto dipendeva dalla direttiva regia. Simile centralità dei re – o delle loro corti quando i re erano minori o posti ai margini, come nella Francia nel tardo 7. secolo – venne rafforzata nella consapevolezza che la slealtà avrebbe dovuto subire una punizione che per quanto lenta sarebbe alla fine comunque arrivata. Nei calcoli politici dell’aristocrazia la paura rafforzava l’interesse personale, contribuendo alla coesione dei principali stati postromani. Entro il 10. secolo al più tardi, e per alcuni aspetti già nell’8., questa logica politica si estese anche all’Inghilterra.
A ciò si lega l’ultimo elemento dei sistemi politici altomedievali che voglio qui evidenziare, la cultura della sfera pubblica, la più forte eredità di Roma. L’Impero romano ebbe un forte senso della differenza tra il pubblico, l’arena dello Stato e della comunità, e la sfera privata; i confini tra queste due aree non erano esattamente gli stessi di quelli attuali, né v’era alcuna netta opposizione tra “pubblico” e “privato”, ma gli usi della parola publicus erano analoghi a quelli per noi oggi consueti. In uno Stato basato sulla riscossione delle imposte la differenza veniva mantenuta facilmente, perché le imposte emanavano dalla sfera pubblica e la alimentavano. I Bizantini conservarono il concetto senza mutamenti, e gli stati musulmani, pur usando una diversa terminologia, attribuirono a funzioni “pubbliche quali il diritto e il culto collettivo la stessa rilevanza. Tuttavia, anche gli stati occidentali postromani mantennero l’idea dell’arena pubblica: nella prassi politica visigota, longobarda, merovingia e carolingia essa costituiva un’immagine molto importante. Nei testi latini altomedievali la proprietà regia, i tribunali, i funzionari regi, e le assemblee tanto grandi che piccole, venivano regolarmente descritti come qualcosa di publicus. Il chiaro concetto che ricaviamo dalle nostre fonti occidentali riguardo al fatto che il mondo del potere regio era anche il mondo pubblico della collettività (dei maschi liberi) nel suo complesso, è la migliore giustificazione che posso fornire per aver costantemente usato, in questo libro e altrove, la parola “Stato” per descrivere questi sistemi politici occidentali. Sebbene la risorsa essenziale della sfera pubblica, la tassazione, fosse già residuale entro il 7. secolo, l’assemblea, introdotta nella prassi politica dal Settentrione germanico, ne costituì un ulteriore rafforzamento. In Scandinavia, e a lungo in Inghilterra, l’assemblea fu il solo elemento collettivo in una struttura di potere politico che altrimenti riposava interamente sui legami personali tra i re (o i signori) e i loro più stretti seguaci. In Francia e negli altri regni romano-germanici, d’altra parte, essa venne a formare una parte cruciale dell’immagine della sfera pubblica, d’altronde romana nelle sue origini, invero estendendola ulteriormente, perché l’assemblea, almeno in teoria, legava direttamente il re a tutti i maschi liberi della popolazione. Il fatto che la politica effettiva si basasse anche sul controllo di fazioni oltremodo attive sulla scena politica e sulla relazione personale, nulla toglie al valore di quella concezione della sfera pubblica; in realtà, all’apice del periodo carolingio, l’intero progetto morale del re e del suo regno, la correctio dei fedeli, potrebbe venir descritta come una (c come la) res publica. Non sorprende, in questo senso, che il diritto romano potesse venire esplicitamente richiamato nella legislazione di Carlo il Calvo: i suoi assunti relativamente alla natura del sistema politico continuavano ad essere del tutto pertinenti. Fatto, naturalmente, che rafforzò ulteriormente la rilevanza della politica regia per chi aveva altre mire: privatus non indicava un qualsiasi tipo di attività politica “privata” ma, usato in questo contesto, significava semplicemente “senza potere. Il potere pubblico era tutto, anche se le risorse del mondo pubblico romano non erano più disponibili.
È questo mondo pubblico nel significato appena esplicitato che conobbe un significativo indebolimento nell’Occidente del 10. secolo e, in particolare, dell’11., in specie nei territori franchi occidentali. Come abbiamo visto negli ultimi capitoli del libro, i parametri della politica erano cambiati. Nella signoria di banno, i vecchi diritti pubblici ora appannaggio dei signori locali vennero considerati come parte della loro proprietà, e poterono essere divisi tra gli eredi o ceduti. La signoria poté essere rivendicata da persone che non avevano mai incontrato un re; in talune aree il titolo di conte poté essere assunto da chiunque fosse abbastanza potente e trasmesso agli eredi. Nel 12. secolo, i re di Francia o le città in Italia utilizzarono il termine publicus, ma dovettero costruirlo dal basso, unendo legami di dipendenza personale e riaffermazione collettiva in un mix che aveva ormai pochissimo a che fare con il passato romano. Questo mondo più “privato” non era peggiore di quello dei Carolingi e dei loro predecessori; gli aristocratici facevano valere la loro prepotenza in entrambi, tanto verso i loro pari che verso i loro (e gli altrui) contadini. Ma era diverso: la dialettica fra sfera pubblica e (quello che chiamiamo) interesse privato era scomparsa. I poteri locali che i castellani riuscirono a rafforzare sui vicini villaggi non erano più illegali o semilegali, in quanto contrapposti alla legge pubblica dei re, ma assunsero invece una nuova legittimità: in Francia, in particolare, in talune regioni per un secolo, questo fu tutto ciò che c’era.
Gli anni intorno al 1000 rappresentano in maniera adeguata la fine di un ciclo più per alcune regioni d’Europa che per altre. Non hanno certo lo stesso valore per Bisanzio; all’altra estremità dell’Europa sono perfettamente in linea con la storia di al-Andalus (e anche del califfato abbaside, sebbene il 950 sarebbe stato in questo caso un punto di riferimento ancora più adeguato). Il tardo 10. secolo indica una rottura anche in gran parte della storia slava e scandinava, segnando gli inizi di durature formazioni statali. Nella Francia orientale / odierna Germania e in Inghilterra, dove i parametri politici carolingi sopravvissero con facilità dopo il 1000 (in Inghilterra, invero, non scomparvero mai), il millennio non rappresenta una linea di divisione altrettanto felice; giunge un po’ troppo presto per l’Italia (in questo caso, quale data per la fine della sfera pubblica il 1080 andrebbe meglio: l’assemblea giudiziaria, in particolare, sopravvisse sino ad allora senza grandi difficoltà), attagliandosi meglio invece alla Francia occidentale / odierna Francia. Vale a dire: non esiste data perfetta. Ho scelto il 1000 semplicemente perché, nel 10. secolo, volevo analizzare le divergenze tra gli stati che subentrarono a quello carolingio, quelle presenti nell’Inghilterra post-alfrediana, e gli anni del successo bizantino, senza aggiungervi, nell’11., i Turchi selgiuchidi, i problemi legati alla “riforma gregoriana” e l’inizio della grande narrazione il cui faro è il progresso morale, che ho stigmatizzato nel capitolo 1. Nondimeno, non sembra irragionevole terminare con un cambiamento fondamentale nelle categorie del potere politico, anche se solo in alcune parti d’Europa. L’eredità di Roma, almeno in quelle regioni, durò all’incirca sino al 1000; dopo quella data la sua ombra, lentamente, scomparve.

Bibliografia

La società dell’alto Medioevo: Europa e Mediterraneo, secoli 5.-8- / C. Wickham. – Roma, 2009