Introduzione alla storia bizantina di Giorgio Ravegnani

Cap. 1 La storia di Bisanzio

La nozione di storia bizantina

La storia bizantina riguarda gli avvenimenti della parte orientale dell’Impero romano che sopravvisse per un millennio alla caduta dell’Occidente e di cui fu capitale la città di Bisanzio.
Bisanzio è la denominazione originaria dell’attuale Istanbul, chiamata nel Quarto Secolo Costantinopoli (“la città di Costantino”) in onore dell’imperatore Costantino Primo.
Bisanzio e Costantinopoli sono i toponimi greci della città, usati indifferentemente dalle fonti medievali, mentre Istanbul è il nome turco, derivante dalla deformazione delle parole greche is tin polin che significano “nella città”.
I sudditi di questo impero sono comunemente definiti bizantini, ma nella storiografia più recentesi incontrano anche le definizioni di romani o di romei: al prima si usa in genere per il periodo più antico di storia bizantina (dal Quarto al Settimo Secolo); la seconda deriva dalla fonetica della parola greca rhomaioi (secondo la pronuncia della lingua attuale).
L’uso di bizantini in riferimento agli abitanti dell’Impero d’Oriente è di origine moderna e non trova riscontro nelle fonti se non per indicare i cittadini della capitale.
I bizantini, infatti, si ritenevano romani e così si definirono nel corso di tutta la loro storia, adattando lo stesso termine al mondo in cui vivevano: la Rhomania, “la terra dei romani”, in contrapposizione a quella dei barbari che non ne facevano parte.
Il termine compare nel Quarto Secolo e pare essere di origine popolare: a partire dal successivo entra nell’uso corrente e fino al Quindicesimo Secolo ai parla di Rhomania con riferimento all’Impero di Costantinopoli.
Era utilizzato non solo dai bizantini, ma anche dagli stranieri che così indicavano i territori governati dall’Impero: si pensi ad esempio alla Romagna e alla Lombardia in Italia, che derivano i loro nomi dall’antico dominio dei romani intorno a Ravenna e da quello contrapposto dei longobardi, al toponimo Romania con il quale i crociati chiamarono l’Impero, al termine ar-Rum usato dagli arabi e dagli altri popoli musulmani per indicare i sudditi di Bisanzio, o ancora al sultanato di Rum che i turchi costituirono in Asia Minore occupando i territori già appartenenti all’Impero.
La definizione di greci o di elleni era ritenuta dispregiativa a Bisanzio: ellenismo veniva considerato sinonimo di paganesimo e, di conseguenza, elleno corrispondeva a idolatra, implicando un legame con i culti pagani che erano stati messi al bando nella Costantinopoli cristiana.
Questi due termini furono rivalutati nel Tredicesimo Secolo, a opera degli umanisti greci che volevano così richiamarsi al passato classico, ma si trattò di un’operazione puramente culturale, senza alcun legame con la realtà e l’uso corrente: i sudditi dell’Impero continuarono a definirsi “romani” e anche dopo la caduta di Bisanzio il patriarca di Costantinopoli fu il patriarca dei romani.
“Greci” è un epiteto spesso usato nel Medioevo con intenti diffamatori all’indirizzo dei bizantini.
La definizione ricorre nei frequenti conflitti protocollari con l’Occidente, quando i sovrani germanici rivendicavano la qualifica di imperatori romani chiamando in segno di spregio i colleghi orientali semplicemente “imperatori dei greci” o anche “re dei greci”.
A Bisanzio la cosa era però considerata un affronto, perché il sovrano di Costantinopoli si riteneva l’unico depositario del titolo imperiale e rifiutava di riconoscere gli emuli dell’Occidente.
L’idea di romanità fu infatti alla base del sistema politico dei bizantini.
Per tutto il millennio l’Impero venne considerato la continuazione di Roma con diritto alla sovranità su tutti i territori a questa appartenuti; l’eventuale dominazione straniera all’interno dei confini del mondo romano era ritenuta illegale e frutto di un’usurpazione.
A questa concezione, propriamente politica, si aggiunse fin dalla prima epoca un aspetto religioso, che la completava formando un tutto omogeneo: l’Impero era un disegno di Dio, che aveva eletto il popolo cristiano come depositario della sua volontà.
Ne conseguiva che era eterno, in quanto voluto da Dio, e universale, in quanto romano.
Non poteva esistere inoltre un altro imperatore dopo quello di Costantinopoli, che da Dio riceveva il potere perpetuando l’autorità delegata a Costantino Primo, il primo monarca cristiano.
Questa idea sopravvisse tenacemente nel mondo bizantino, anche quando la realtà dei fatti la rese improponibile, e fu sempre l’ispiratrice di uan diffusa pretesa alla diversità.
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Cap. 2. Da Roma a Bisanzio, 324-610

Il Senato di Costantinopoli costituiva a quest’epoca la più alta aristocrazia dell’Impero d’Oriente e, assieme al Concistoro, formava il Consiglio di Stato del sovrano.
Svolgeva inoltre alcune funzioni specifiche, coem la facoltà di proporre disegni di legge o l’esercizio di compiti giudiziari.
L’importanza maggiore dell’assemblea si aveva però sul piano istituzionale in caso di vacanza del trono.
Se l’imperatore in carica provvedeva a nominare un successore, al Senato non spettava altro compito che ratificare formalmente l’avvenuta elezione; ma se il sovrano moriva senza designare un erede, aveva il diritto di sceglierlo e tale diritto venne effettivamente esercitato fino al Settimo Secolo, quando l’assemblea perse ogni importanza politica, anche se spesso fu più un’apparenza che una realtà per l’azione di gruppi di potere capaci di condizionare la designazione.
Il Concistori (Sacrum Consistorium) era il consiglio più ristretto composto da alcuni membri permanenti (comites consistoriani) scelti nelle file dell’alta burocrazia; alcuni lo erano di diritto, altri venivano nominati dall’imperatore.
Tra i primi si trovavano i più alti ufficiali civili e militari come il quaestor sacri Palatii, responsabile delle questioni legali, il magister officiorum addetto a vari servizi di corte, il comes sacrarum largitionum e il comes rei privatae, direttori di dipartimenti finanziari, e il prefetto del pretorio dell’Oriente.
I membri militari dovevano poi comprendere i comandanti della guardia imperiale (il comes domesticorum e dal Quinto Secolo il comes excubitorum) nonché i due magistri militum praesentales da cui dipendevano gli eserciti mobili di stanza nella capitale.
Il prefetto cittadino (praefectus Urbi o in greco eparco) rappresentava infine il Senato, di cui era il capo ed era nello stesso tempo un funzionario dello Stato.
L’eparco avrebbe assunto un’importanza crescente fino al Decimo Secolo: presiedeva alla vita giudiziaria di Costantinopoli, garantiva l’ordine pubblico, provvedeva al rifornimento della città e ne controllava la vita economica.
L’aristocrazia bizantina ebbe fin dall’inizio il carattere prevalente di nobiltà dei funzionari, mantenutosi poi per tutto il millennio, in conseguenza della forte impronta burocratica data al mondo romano.
A Bisanzio non si ebbe mai uan nobiltà ereditaria sul genere occidentale: i titolari di funzioni pubbliche elevate entravano automaticamente a far parte di uan classe aristocratica, la cui importanza variava in funzione del peso dell’ufficio ricoperto, ma l’appartenenza a tale classe e il relativo titolo non erano ereditari, estinguendosi con la morte del titolare.
I funzionari civili e militari ottenevano titoli di nobiltà fissi in rapporto al posto occupato nella gerarchia, sia che si trattasse di funzionari in servizio attivo o a disposizione, sia che fossero incarichi puramente onorifici.
A partire da un certo grado, infatti, ogni funzione era compresa in una classe di nobiltà e queste classi nel Quinto Secolo si stabilizzarono in ordine ascendente in clarissimi, spectabiles e illustres.
Facevano parte dell’ultima i più alti dignitari dello Stato, cui era conferito di regola il titolo di comes, aggiunto come distinzione alle designazioni delle maggiori cariche.
Più in alto ancora si trovavano la dignità di patricius, non legata all’esercizio di alcuna magistratura, e nobilissimo, di curopalate e di cesare riservate ai componenti della famiglia imperiale.
A metà strada fra una semplice dignità e una carica effettiva infine si collocava il consolato, sopravvivenza dell’antica magistratura romana, che continuò a essere conferito ai privati cittadini fino al Sesto Secolo sia in Oriente sia in Occidente.
I consoli si distinguevano in ordinari e onorari, di cui soltanto i primi entravano effettivamente in carica mentre gli altri la rivestivano unicamente in modo fittizio; a questi si aggiungevano poi i consoli imperiali allorché i sovrani assumevano a loro volta l’ufficio in una o nell’altra parte dell’Impero e, in questo modo, potevano diventare eventuali colleghi di privati cittadini.
Il console assumeva la carica il Primo Gennaio per deporla il 31 dicembre e conservava l’antico privilegio di dare il proprio nome all’anno; gli spettava però il compito oneroso di organizzare diversi spettacoli per il popolo della capitale.
I bizantini attribuirono sempre una grande importanza al rango: fin dal tardo antico elaborarono un complesso sistema di precedenze, che regolava nei minimi dettagli l’etichetta di corte.
Nella loro concezione mistico-politica, infatti, la corte di Costantinopoli era il luogo in cui si manifestava visivamente una sorta di religione imperiale legata alla straordinarietà che si riteneva connessa alla figura del sovrano voluto da Dio.
Le cerimonie palatine, considerate la più tangibile espressione di questo culto, dovevano perciò svolgersi con ordine e regolarità a imitazione della perfezione dell’universo, di cui la monarchia terrestre riteneva di essere espressione.
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I monaci a quest’epoca rappresentavano l’ala più radicale del cristianesimo, ma godevano di grande seguito nella comunità dei fedeli e di una diffusa considerazione per la loro scelta di vita, ritenuta l’applicazione più perfetta del precetto evangelico.
Nato come movimento spontaneo nel Terzo Secolo, il monachesimo si era distinto fin dall’inizio in una corrente ascetica e un’altra conventuale.
La prima, inaugurata da sant’Antonio, ritiratosi in meditazione nel deserto egiziano verso il 70, trovò nel mondo bizantino un seguito costante e diede anche origine a forme estreme coem lo stilismo, ovvero la pratica di condurre vita contemplativa in cima a una colonna.
Fondatore della pratica conventuale (o, ala greca, cenobitica) fu Pacomio, un ex soldato che fondò uan comunità nell’alto Egitto; il ruolo di teorico dell’ideale di vita fu però ricoperto nel Quarto Secolo da San Basilio, che lo espose dettagliatamente in due opere.
Il monachesimo orientale, comunemente definito “basiliano”, anche se gli ordini monastici a Bisanzio non sono mai esistiti, incontrò all’inizio una diffusa avversione da parte della chiesa ufficiale, ma divenne uan componente determinante della società bizantina e tale si mantenne nel corso dei secoli.
Attraverso lasciti e donazioni, le singole fondazioni acquisirono ampie proprietà terriere e i monaci costituirono un fenomeno sociale non sempre controllabile ponendosi spesso in una posizione antagonista all’autorità costituita, anche in virtù del forte prestigio di cui godevano.
I monasteri furono inoltre depositari di una propria cultura, che trovò espressione soprattutto nella conservazione libraria, nell’istruzione elementare, nella particolare produzione letteraria espressa nelle cronache e dall’ampia letteratura agiografica destinata per lo più a celebrare i fondatori delle singole comunità.
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Giustiniano Primo (527-565) rinnovò profondamente il vecchio Impero portandolo a una considerevole potenza dopo la crisi del Quinto Secolo.
Dotato di un’energia instancabile, volle trasformare e, contemporaneamente, rafforzare lo Stato con una serie di riforme che datano per lo più ai primi anni di regno e riguardarono i temi più svariati del diritto privato e pubblico.
Si impegnò inoltre in un ambizioso programma di riconquista dei territori appartenuti all’Occidente, recuperandone circa un terzo con lunghi anni di guerre e portando così Bisanzio a un’estensione in seguito mai più raggiunta.
Fu spinto a tale determinazione dalla necessità di ricostruire l’unità del bacino mediterraneo, in parte sfuggito al controllo imperiale, ma anche da forti convinzioni ideologiche: si sentiva profondamente romano e considerava un suo diritto far rientrare le regioni perdute sotto il dominio imperiale in quanto, secondo le concezioni mistico-politiche legate alla sovranità bizantina, era convinto che tale compito gli fosse stato affidato da Dio, dal quale aveva ricevuto il potere.
L’età di Giustiniano può essere considerato il periodo più splendido della prima fase della storia bizantina, anche perché caratterizzato da una notevole fioritura delle arti e della cultura.
Fu però nello stesso tempo un’epoca di grandi contraddizioni: le vittore militari ebbero costi enormi, le riforme amministrative andarono spesso incontro a clamorosi fallimenti e, per lo più, si susseguirono devastanti calamità naturali, fra cui in primo luogo l’epidemia di peste che a partire dal 542 imperversò nell’Impero.
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I provvedimenti imperiali riuscirono soltanto in minima parte ad arrestare i processi di decadenza innescato dal lungo conflitto e la società italica cambiò profondamente a seguito delle devastazioni subite.
La guerra gotica portò infatti ad un grosso regresso demografico, dovuto sia alle vicende belliche sia all’infuriare di carestie ed epidemie, e a distruzioni più o meno ampie in numerose città, tra cui Milano, rasa al suolo dai goti e burgundi nel 539, con l’uccisione o la deportazione degli abitanti, o anche Roma, le cui mura furono in parte abbattute da Totila nel 546 e che, per alcune settimane, si trovò ad essere completamente spopolata.
Particolarmente significativa in termini di cambiamenti epocali fu poi la forte riduzione dell’aristocrazia senatoria, simbolo in un certo senso della continuità del mondo antico, che fu in buona parte sterminata dai goti in quanto naturale alleata di Bisanzio o costretta a fuggire dall’Italia senza riuscire in seguito a ricostruire le proprie fortune.
Tutti questi avvenimenti contribuirono a determinare una cesura con la qualità della vita che si era mantenuta abbastanza elevata fino all’inizio della guerra e a dare inizio a una lunga fase di generale declino, in seguito accentuato dall’invasione longobarda.
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I longobardi erano un popolo già noto nell’antichità, entrato nell’orbita del mondo romano a partire dal primo secolo dell’era cristiana come abitanti della Germania settentrionale.
Nel 489 si stanziarono a nord del Danubio e alcuni anni più tardi si spostarono a oriente insediandosi nell’antica Pannonia  romana, cioè nei territori dell’attuale Ungheria.
Erano una gente guerriera, che si distingueva per la natura selvaggia dalle altre stirpi barbariche, tanto che già i romani li avevano definiti “più feroci della ferocia germanica”.
Durante la guerra gotica 2500 guerrieri longobardi, con il loro seguito, avevano militato in Italia agli ordini di Narsete, ma erano stati rimandati in patria a causa degli eccessi ai quali si abbandonavano nei confronti dei civili.
L’invasione longobarda seguì di poco tempo il richiamo a Costantinopoli di Narsete, che nel 568 per ordine di Giustino Secondo fu sostituito nel governo italiano dal prefetto Longino.
Non è del tutto chiaro quale motivazione sia alla base dello spostamento dei longobardi, ma verosimilmente è da connettere alla pericolosa vicinanza creatasi nella loro sede in Pannonia con il popolo bellicoso degli avari, dopo l’eliminazione nel 567 del regno dei gepidi attuata dagli stessi longobardi, e dal rischio rappresentato dall’atteggiamento di Giustino Secondo che aveva favorito i gepidi in opposizione ai longobardi.
Gli storici medievali, a partire dal Settimo Secolo, hanno proposto come spiegazione la cosiddetta leggenda di Narsete, secondo la quale l’eunuco si sarebbe vendicato della deposizione e delle minacce del partito di corte a lui avverso chiamandoli a invadere la penisola italiana, una versione che però è più tarda rispetto agli avvenimenti e non trova credito nella moderna storiografia.
L’intero popolo longobardo, rafforzato da altri contingenti barbarici, entrò in Italia dai valichi della Alpi Giulie nel maggio del 568, addentrandosi nella pianura veneta senza incontrare forte reazione da parte bizantina.
L’inerzia dei bizantini, che rinunciarono ad affrontare sul campo gli invasori limitandosi a difendere alcuni punti fortificati, doveva essere motivata da una serie di cause concomitanti, fra cui le principali si ritiene siano state lo spopolamento dovuto a una pestilenza diffusa in alta Italia poco prima dell’invasione, l’impegno delle truppe mobili di Bisanzio su altri teatri di guerra o l’assenza di un comando militare centralizzato dopo la rimozione di Narsete che potrebbe aver paralizzato la risposta degli imperiali.
In aggiunta a queste si è poi pensato anche a un possibile accordo iniziale con le autorità bizantine per utilizzare i longobardi contro i franchi, accorso poi reso nullo dall’aggressività longobarda, o ancora dalla tradizionale strategia difensiva dell’impero per cui, data la scarsità di soldati normalmente disponibili, si preferiva evitare lo scontro campale con gli invasoti, attendendo che si ritirassero spontaneamente o che si potesse risolvere il conflitto per via diplomatica.
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L’istituzione del nuovo magistrato, l’esarca d’Italia (o di Ravenna) ebbe luogo probabilmente nel 584: alla sua figura furono attribuiti poteri eccezionali, che esercitava attraverso magistri militum, duces e tribuni, posti rispettivamente alla guida di reparti operativi, di governatorati militari e di città.
L’autorità dell’esarca ravennate si estendeva su quanto a Bisanzio restava dell’Italia, cioè più o meno un terzo della penisola, con l’esclusione di Sicilia e Sardegna rimaste sotto altre giurisdizioni.
Gli esarchi venivano scelti direttamente dai sovrani fra i più alti dignitari palatini e al titolo di funzione univano la dignità di patrizio, che li collocava ai vertici della gerarchia nobiliare.
Spesso furono eunuchi e non a caso perché, secondo la mentalità del tempo, dagli eunuchi non ci si poteva aspettare un tentativo di usurpazione, resa assai probabile dalle suggestioni evocate dall’antica Roma.
Si riteneva infatti a Bisanzio che un uomo mutilato non potesse esercitare la suprema carica pubblica e, per questo motivo, la scelta di un eunuco limitava notevolmente i pericoli per il potere centrale.
Le nostre informazioni sui governatori dell’Italia imperiale sono assai scarse: allo stato attuale della ricerca non è possibile stabilirne una lista sicura né fissarne con esattezza la cronologia.
Non abbiamo neppure la certezza del numero: potrebbero essere stati ventiquattro, compresi coloro che reiterarono l’ufficio, distribuiti cronologicamente tra il 585 e il 751.
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La conquista slava diede origine a un fenomeno storico del tutto particolare, che presenta due aspetti caratteristici: l’insediamento stabile di popolazioni nemiche in territorio imperiale, come avveniva nello stesso tempo in Italia con i longobardi, e la slavizzazione della penisola balcanica, dove le popolazioni autoctone scomparvero o si ritirarono fra le montagne più inaccessibili, nelle coste e nelle isole.
Molti territori vennero sottratti al dominio imperiale, formando zone di dominazione slava (le cosiddette “slavinie”) che Bisanzio avrebbe faticosamente recuperato con un’azione secolare di riconquista.
La situazione creatasi a seguito di queste invasioni non è del tutto chiara, data la scarsità di testimonianze, e può essere ricostruita soltanto nelle linee generali.
Le regioni settentrionali e centrali dei Balcani furono occupate pressoché integralmente dagli slavi, mentre restarono sotto l’autorità bizantina le città costiere dell’Adriatico e del mar Nero nonché Tessalonica e la stessa Costantinopoli, sebbene la prima fosse interamente circondata da territori slavi e la seconda esercitasse soltanto un dominio precario sulle zone circostanti della Tracia fino almeno alla fine del Settimo Secolo.
Nelle parti meridionali della penisola balcanica, la Tessaglia, l’Epiro e le regioni occidentali del Peloponneso furono profondamente slavizzate e l’Impero continuò a controllare soltanto le città che potevano essere raggiunte via mare.
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Cap. 3. Da Eraclio agli iconoclasti, 610-717

L’autorità imperiale in Italia, verso la fine del Settimo Secolo, si era notevolmente indebolita, come mostra con chiarezza l’episodio del protospatario Zaccaria, la debolezza del potere di Costantinopoli aveva portato a maturazione i fattori di crisi interna determinanti per la successiva caduta dell’esarcato sotto la pressione longobarda.
Questi fattori di crisi sono riconducibili a tre cause: in primo luogo lo sviluppo di un’aristocrazia di grandi proprietari terrieri, che tendeva a rendersi autonoma da Bisanzio, poi la rivoluzione intervenuta nella società cittadina, in cui emersero come componenti di primo piano le milizie reclutate localmente, più legate ai loro capi che al governo centrale e, di conseguenza, alle vicende puramente locali.
Come terzo elemento, infine, si deve tenere presente l’influsso sempre più forte esercitato sulle popolazioni dalla chiesa romana tendenzialmente ostile a Costantinopoli.
Ciò malgrado, finché fu possibile, i papi cercarono di evitare la rottura definitiva con l’Impero, pressati come erano dal timore dell’espansionismo longobardo contro il quale rappresentava una garanzia; a parte gli occasionali contrasti, perciò, non vollero rinunciare a una sostanziale alleanza, un atteggiamento venuto meno soltanto nell’Ottavo Secolo, subito dopo la caduta dell’esarcato, quando al legame tradizionale in funzione anti longobarda si sostituì la ricerca di appoggio da parte dei franchi.
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Cap. 4. L’iconoclastia, 717-843

L’iconoclastia, come fenomeno storico, presenta ancora molti lati oscuri, a motivo della perdita pressoché totale della letteratura a essa favorevole, le cui opere vennero distrutte dagli avversari.
Per ricostruirne la genesi dobbiamo ricorrere a scrittori di parte contraria e legati in genere agli ambienti monastici, quindi ai più tenaci nemici degli iconoclasti.
Essi spiegano il fenomeno in termini riduttivi e dissacranti, mettendolo il relazione all’influsso di ebrei e arabi, cioè dei peggiori nemici della fede cristiana; alle origini dell’iconoclastia la storiografia monastica connette infatti una leggenda che ha per protagonista un ebreo.
Secondo il monaco e cronista Teofane, autore di un’opera storica che giunge fino all’813, un mago ebreo si sarebbe presentato al califfo Yazid, promettendogli un regno di quarant’anni se avesse fatto rimuovere le immagini venerate nelle chiese dei cristiani.
Yazid gli avrebbe dato ascolto emanando un editto iconoclasta, ma sarebbe morto di lì a poco, senza che molti fossero venuti a conoscenza dell’editto.
Leone Terzo, informato di quanto era avvenuto nel califfato, avrebbe a sua volta introdotto l’iconoclastia a Bisanzio con la complicità dei suoi più stretti collaboratori.
Come ogni leggenda, anche quella dell’ebreo dovrebbe presentare un fondo di verità, ma è difficile dire di cosa esattamente si tratta.
Leone Terzo, pur avendo costretto gli ebrei al battesimo, potrebbe essere stato influenzato dal divieto delle immagini della religione mosaica; allo stesso modo, benché nemico degli arabi, non è da escludere che abbia subito il loro influsso culturale.
L’iconoclastia araba, d’altronde, è un fatto storicamente accertato, risalente agli anni fra il 723 e 724, ma in parte diversa perché comportò la distruzione di tutte le rappresentazioni di esseri viventi.
E’ tuttavia probabile che a questi modelli culturali si affianchino anche altre motivazioni, di ordine religioso e politico.
I moderni hanno dato in proposito diverse spiegazioni, oscillando sostanzialmente fra due interpretazioni opposte.
L’iconoclastia sarebbe stata cioè un fatto puramente religioso, volto a purificare la chiesa da un culto con aspetti idolatrici o, al contrario, di prevalente natura politica, adombrando sotto le apparenze altre motivazioni di ordine pratico; per esempio il tentativo di accattivarsi le simpatie delle popolazioni orientali dell’Impero da parte di sovrani essenzialmente militari come furono gli Isaurici.
Nell’Oriente bizantino si reclutavano i migliori soldati e un esercito forte e disciplinato era indispensabile per sostenere l’urto dei nemici esterni.
La fedeltà dell’Oriente era però condizionata dall’accettazione di teorie religiose non ortodosse, a motivo della grande diffusione in queste regioni di sette nemiche di ogni culto delle immagini e, in particolare, del monofisismo che godeva di un seguito considerevole in Asia Minore.
Gli iconoclasti rimproveravano il carattere di idolatria al culto delle immagini di Cristo, della Vergine e dei santi; i loro avversari, gli iconoduli (cioè i “veneratori delle immagini”), lo ritenevano lecito sostenendo che non si venerava l’oggetto in sé, ma ciò che esso rappresentava.
Il paragone più immediato, a tale proposito, veniva fatto con le immagini imperiali, alle quali si rendeva omaggio come simboli dell’autorità sovrana.
La disputa pro o contro le icone non era un fatto trascurabile a Bisanzio, dato che esse erano un aspetto caratteristico della religiosità orientale, venendo usate come ornamenti delle chiese, associate alla liturgia, e come oggetti privati di devozione.
Alcune “non fatte da mano umana” erano considerate miracolose e, in quanto tali, andavano soggette a una venerazione particolare: rientravano fra queste l’immagine della Vergine Hodigitria, conservata a Costantinopoli, che si ritenevano eseguita da San Luca, i ritratti del Cristo portati a Bisanzio dalla Cappadocia al tempo di Giustiniano o il mandylion di Edessa, una tela sulla quale si sarebbe miracolosamente impressa l’immagine di Cristo.
Le icone, eseguite dagli artisti secondo modelli fissi, erano oggetto di forme esteriori di ossequio, come la prosternazione, ma anche di pratiche che ricordavano il paganesimo.
Si prestava giuramento sulle immagini, si bruciava incenso di fronte ad esse, ci si serviva di alcune icone come padrini per i propri figli o, anche, se ne faceva cadere la polvere nel calice usato per comunicare i fedeli.
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Nicéforo, patriarca di Costantinopoli dall’806 all’815, fu anche uomo di cultura.
Nato verso il 758 da una nobile famiglia della capitale, divenne segretario della cancelleria imperiale e, in seguito, si fece monaco.
Dopo la deposizione si ritirò nel monastero di San Teodoro a Scutari e vi morì nell’829.
La sua produzione letteraria consta di opere teologiche, di polemica anticonoclasta, e storiche.
Della prima fanno parte tra le altre i tre libri di Antirretici scritti contro Costantino Quinto (Costantino “Copronimo”, come era stato definito dai detrattori per aver sporcato la fonte al momento del battesimo), che consentono anche di ricostruire storicamente l’azione di questo sovrano, sia pure nell’ottica deformata della polemica.
Al versante storico appartengono la Sintesi cronografica, un breve panorama storico da Adamo all’’829, e il più importante Breviario o Storia abbreviata con il racconto degli avvenimenti dal 602 al 769, un’opera di notevole importanza per la ricostruzione della storia di Bisanzio nella generale carenza di fonti dei secoli Settimo e Ottavo.
Pag. 88

Cap. 5 L’apogeo dell’Impero, 843-1025

Il periodo che va dall’843 al 1025, per lo più segnato dalla presenza sul trono della dinastia macedone, può essere considerato l’età di maggiore fioritura dell’Impero.
La fine delle grandi lotte religiose coincise con una forte ripresa  della potenza bizantina, destinata a manifestarsi soprattutto nel Decimo Secolo, grazie appunto all’assenza di contrasti interni e delle conseguenti lotte fra schieramenti contrapposti.
A questo elemento positivo si aggiunsero la solidità economica e politica, soltanto in parte minata dallo sviluppo del ceto dei grandi proprietari terrieri, l’affermazione di una rinnovata potenza militare contrassegnata in particolare dalle guerre fortunate con gli arabi in Oriente e dalla sottomissione nella rinascita dell’istruzione superiore e nella produzione letteraria del Nono-Decimo Secolo.
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L’Impero musulmano al momento della controffensiva bizantina aveva già da tempo perduto la coesione iniziale e, malgrado alcuni isolati successi espansionistici, si avviava a un processo di decadenza, che sarebbe stato più evidente nel secolo seguente.
Alla morte di Maometto, nel 632, il potere supremo era passato ai califfi, che avevano condotto a termine la fase eroica dell’espansione, culminata nel 711 nella penetrazione in Spagna, con la conseguente sottomissione del regno visigoto, e nell’assedio di Costantinopoli nel 717.
Il fallimento dell’assedio e la battaglia di Poitiers nel 732 avevano tuttavia segnato uan consistente battuta di arresto, seguita nel 750 dalla fine del califfato omayyade (istituito a Damasco nel 661) a opera della famiglia degli Abbasidi, che condusse a una prima divisione fra il califfato abbaside, insediatosi a Baghdad, e un emirato rivale degli omayyadi in Spagna costituito nel 756.
Nel Nono Secolo l’azione delle forze centrifughe si fece più pressante e l’Impero islamico si frantumò in una serie di governi regionali retti da emiri, il cui vincolo di subordinazione a Baghdad finì talvolta per divenire puramente formale.
Alcuni di questi emirati, come gli Aglabiti di Tunisia, nel Nono Secolo realizzarono ancora conquiste autonome (come l’invasione della Sicilia bizantina a opera dell’Emirato indipendente di Qairavan), ma nella prima metà del successivo il processo di frantumazione di quello che era stato l’Impero islamico si accentuò con la creazione di altri due califfati antagonisti a Baghdad: in Egitto sotto la stirpe dei Fatimidi nel 910 e in Spagna a opera dell’Emirato omayyade di Cordova nel 929.
La perdita dell’unità arrestò di conseguenza l’originaria spinta espansionistica dell’Islam e, anche se alcuni governi locali continuarono a essere potenze rilevanti, finì per facilitare la controffensiva di Bisanzio.
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Fozio (810 ca.), nipote del patriarca Tarasio, prima dell’elezione alla carica ecclesiastica aveva ricoperto l’ufficio di protoasecrétis, l’alto funzionario che dirigeva la cancelleria imperiale.
La sua promozione al trono imperiale fu voluta da Barda, avversario del patriarca Ignazio (figlio dell’ex imperatore Michele Primo), un monaco intransigente vicino alle posizioni degli zeloti e ostile alla politica di Barda con il quale era entrato in aperto conflitto.
La fama letteraria di Fozio è legata soprattutto alla cosiddetta Biblioteca, costituita da una lunga serie di capitoli che contengono notizie ed estratti di opere lette dall’autore.
Si tratta di 279 “codici” (come sono comunemente definiti) che riguardano opere religiose e profane dall’epoca classica a quella bizantina, utili in molti casi per ricostruire il contenuto di scritti andati perduti.
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In prime nozze, costretto dal padre, Leone Sesto aveva sposato all’età di sedici anni la pia Teofano, appartenente a una famiglia dell’aristocrazia della capitale, ma il matrimonio fallì per una profonda incomprensione reciproca e Teofano finì per ritirarsi nel monastero di Blacherne, dove morì nell’897.
Leone Sesto richiamò a Costantinopoli l’amante Zoe Zautzina, figlia del suo principale consigliere politico Stiliano Zautze, che Basilio Primo aveva allontanato dalla città e nell’898 la sposò subito dopo la morte del marito di questa.
Zoe, da cui ebbe una figlia, morì nell’899 e poco più tardi Leone Sesto si sposò nuovamente con Eudocia Bainé, morta di parto nel 901 assieme all’erede che le sopravvisse soltanto per qualche giorno.
Per il terzo matrimonio, contrario alla tradizione della chiesa greca, l’imperatore aveva ottenuto la complicità dell’allora patriarca di Costantinopoli, Antonio Cauleas, ma in seguito il suo progetto di convolare a quarte nozze con l’amante Zoe Carbonopsina fu violentemente ostacolato dal  nuovo patriarca Nicola Mistico.
Da lei nel 905 aveva avuto un figlio maschio (il futuro imperatore Costantino Settimo) e, sebbene avesse accettato inizialmente il compromesso proposto dal patriarca, offertosi di battezzarlo a condizione che il sovrano allontanasse l’amante, in seguito si era risolto a far celebrare le nozze da un prete di palazzo per legittimare l’erede al trono.
Nonostante fosse dettata dalla ragion di Stato, al pretesa di sposarsi per una quarta volta poneva il sovrano in una situazione fortemente anomala e, nello stesso tempo, contravveniva a un principio di buon governo comunemente accettato a Bisanzio, secondo cui l’imperatore era tenuto a rispettare le leggi al pari dei sudditi, tanto più che lo stesso Leone Sesto, con una sua Novella, aveva vietato il terzo matrimonio disapprovando anche il secondo.
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Il nuovo sovrano (così chiamato da Lakape in Armenia di cui era originari0), nato verso l’870, proveniva da una famiglia contadina e aveva fatto carriera nell’esercito divenendo stratego di Samo, per assumere quindi come drungarios il comando della marina imperiale.
Il 25 marzo del 919 sbarcò a Costantinopoli, sventando il piano di Zoe per sposare lo stratego Leone Foca e portarlo così sul trono, e prese possesso del palazzo imperiale dopo essersi impegnato a difendere i diritti del sovrano legittimo.
A seguito delle nozze tra la figlia e Costantino Settimo, fu elevato al rango di basileopator (“padre dell’imperatore”) e, poco più tardi, divenne cesare e quindi imperatore associato.
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A Edessa (oggi Urfa, nella Turchia meridionale), durante l’assedio persiano del 544, fu trovato nelle mura cittadine un pezzo di tessuto (in greco medievale un mandylion) su cui figurava un’immagine che fu ritenuta del Cristo e miracolosa.
L’immagine di Edessa rappresenta la più importante fra le varie figurazioni del Cristo che iniziarono ad apparire nel Sesto Secolo e vennero ritenute acheiropoiete cioè “non fatte da mano umana”.
Secondo la leggenda più accreditata questa immagine si era formata allorché Gesù aveva appoggiato al volto una tela e, in seguito, era stata portata da Abgar, re di Edessa, il cui inviato si era recato presso il Cristo su incarico del re.
L’immagine restò a Edessa, sotto la dominazione araba e sfuggì di conseguenza alla persecuzione degli iconoclasti.
Durante l’assedio della città i generali di Romano Primo promisero di risparmiarla a condizione che fosse consegnata l’icona, che presa la via di Costantinopoli dove fu collocata in una cappella del palazzo imperiale.
Scomparve però nel 1204, quando i crociati si impossessarono di Bisanzio, probabilmente per prendere la via dell’Occidente.
Secondo una teoria abbastanza accreditata, il mandylion di Edessa potrebbe essere identificato con la Sindone, che compare in Occidente nel secolo successivo alla presa di Bisanzio da parte dei crociati.
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La letteratura cerimonialistica del tempo trova  espressione anche in opere minori, relative al sistema delle precedenze palatine, la più importante delle quali è il Kletorologhion di Filoteo, composta nell’899 e successivamente inserita nel Libro delle cerimonie.
L’autore era un atriklines (una delle numerose parole della burocrazia derivate dal latino, in questo caso da a triclinio), addetto all’organizzazione dei banchetti di corte, che erano uno dei principali momenti del cerimoniale palatino.
I banchetti si svolgevano a cadenze fisse o variabili, in occasione delle principali festività, e venivano regolati da una minuziosa etichetta basata essenzialmente sull’ordine delle precedenze con cui si doveva prendere posto vicino al sovrano.
Il Kletorologhion, oltre che sul tema specifico, nella sua parte più teorica fornisce precise indicazioni sulla gerarchia del tempo, tali da consentirne una dettagliata ricostruzione.
L’apparato burocratico si era profondamente modificato dall’epoca tardo antica seguendo un naturale processo di svalutazione e di aggiornamento dei titoli che fu caratteristico di tutta l’epoca bizantina.
I cortigiani si dividevano ora in due categorie distinte: i semplici dignitari di corte senza compiti amministrativi, i cui gradi di nobiltà vitalizi e teoricamente irrevocabili implicavano come unico compito la partecipazione onorifica alle cerimonie palatine, e quelli incaricati di assolvere una funzione, sia militare sia civile, a tempo determinato.
I primi ricevevano “dignità per insegne”, cioè contraddistinte da un brevetto o insegna della carica, mentre i secondi ottenevano dignità a “voce” o “per editto”, cioè conferite con una semplice nomina verbale, che investivano delle funzioni effettive di comando nei vari servizi dello Stato.
Come in età più antica, inoltre, a un titolo di funzione si accompagnava una dignità palatina fissa, che collocava il detentore in una classe nobiliare attribuendogli i relativi privilegi, primo fra tutti l’inserimento in una complicata gerarchia delle precedenze che ne definiva lo status sociale.
Caratteristica peculiare dell’epoca è invece l’esistenza di due distinte gerarchie, sia per le dignità per insegna sia per le altre, di cui una veniva riservata ai “barbuti”, l’altra agli eunuchi, la cui importanza a corte, già notevole fin dai primi tempi, era notevolmente cresciuta nel corso dei secoli fino a costituire uan classe particolare di dignitari e funzionari.
I titoli per barbuti erano diciotto, in parte derivati da innovazioni e in altra parte provenienti dalla tarda antichità, sia tali quali erano sia come trasformazioni di cariche scomparse di cui era sopravvissuto il nome.
Al gradino più alto si trovavano in ordine decrescente di cesare, nobilissimo e curopalate, conferite di norma ai membri della famiglia imperiale.
Seguivano poi la zosté patrikia, la “patrizia con cintura”, l’unica dignità femminile, e quelle di magistro (residuo dell’antico magister officiorum), antipato, patrizio, protospatario, disipato (cioè due volte console), spatarocandidato, spatario, ipato (ricordo dell’antica carica di console, in greco chiamata hypatos), strator, candidato, mandator, vestitor, silenziario, stratelates epi thematon o apo eparchon.
I gradi di nobiltà degli eunuchi erano otto: nipsistiario, cubiculario, spatarocubiculario, ostiario, primicerio, protospatario, preposito e patrizio.
Le dignità a voce per i barbuti erano sessanta, corrispondenti ai più elevati posti di comando, e da ognuno di questi capi servizio dipendeva un ufficio più o meno ampio con vari funzionari amministrativi.
Al vertice delle sessanta cariche pubbliche si trovavano il basileopator, il rettore e il sincello: la prima carica, istituito da Leone Sesto, era una sorta di tutore del sovrano con pieni poteri amministrativi, il rettore uan funzione piuttosto imprecisa, mentre il sincello era l’ecclesiastico che fungeva da assistente del patriarca nominato dal sovrano.
Venivano quindi i grandi comandi militari cominciando dallo stratego del tema degli anatolici, immediatamente seguito in ordine gerarchico dal domestico delle scholai, entrambi con il rango di antipato e patrizio, e la serie proseguiva con incarichi militari e civili fino al sessantesimo posto.
La gerarchia degli eunuchi doveva comprendere a sua volta nove dignità a voce, quante ne indica Filoteo sebbene poi ne enumeri dieci, forse per una interpolazione nel testo: il parakoimomenos dell’imperatore (addetto alla camera del sovrano), il protovestiario dell’imperatore, preposto alla tavola dell’imperatore, il preposto alla tavola dell’imperatrice, il papias (portiere) del Gran palazzo, il deuteros (il sostituto del portiere) del Gran palazzo, il pinkernes (coppiere) dell’imperatore e dell’imperatrice, il papias del palazzo della Magnura e quello del palazzo di Dafne.
A differenza di quanto avveniva per i barbuti, le dignità a voce degli eunuchi comportavano servizi effettivi a corte; gli eunuchi potevano inoltre esercitare quasi tutte le funzioni pubbliche dei barbuti, a eccezione di quelle di eparco, questore e domestico, cioè di governatore di Costantinopoli, di capo dei dipartimenti giudiziari (derivato dall’antico quaestor sacri Palatii) e di comandante militare.
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Questa donna volitiva e straordinaria [Teofano], la cui bellezza stupiva i contemporanei, fu, assieme alla famosa Teodora, una delle figura più caratteristiche di Bisanzio.
Aveva sposato nel 956 Romano Terzo, già vedovo per la morte precoce della prima moglie, Berta, uan figlia naturale di Ugo di Provenza, che il giovane principe aveva dovuto sposare per volontà di Romano Primo, malgrado una simile unione fosse considerata degradante alla corte di Bisanzio.
Divenuta imperatrice all’età di diciotto anni, confinò in monastero le cinque cognate e costrinse la suocera Elena a vivere appartata a palazzo.
Quando fu a sua volta estromessa dal palazzo, si oppose con tutte le forze all’esilio e, in seguito, riuscì a fuggire dal monastero in cui era stata relegata.
Raggiunse Costantinopoli e si rifugiò come supplice in Santa Sofia.
Il gesto non ottenne però l’effetto sperato: venne di nuovo arrestata e l’esilio fu reso più duro confinandola nella lontana Armenia.
Tornò a corte soltanto sei anni più tardi, quando vi fu richiamata dai figli, ma verosimilmente distrutta nello spirito, dato che visse nell’ombra senza più fare parlare di sé.
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Il carattere di Basilio Secondo si modificò profondamente negli anni delle guerre civili.
La sua unica preoccupazione fu il governo dell’Impero,  che resse con mano inflessibile senza dividere con altri le responsabilità.
Rinunciò a ogni piacere e condusse un’esistenza da asceta.
Mostrandosi assai poco bizantino nelle abitudini e nei modi, rifuggiva dalla eleganza, dal culto delle forme e dagli splendori della corte.
Amava esprimersi in modo chiaro, con poche parole, non aveva interessi culturali e non teneva in alcuna considerazione la retorica, tanto amata dai suoi contemporanei.
Dopo la conclusione delle guerre intestine, iniziò a combattere i nemici esterni e sostenne contemporaneamente quattro fronti: i Balcani, la Siria, il Caucaso e l’Italia.
Fra questi tuttavia fu di gran lunga più importante il fronte balcanico, dove l’imperatore si impegnò a combattere la potenza bulgara.
Contro i bulgari fu ingaggiata una lotta mortale, che si trascinò per parecchi anni e venne condotta con ferocia e determinazione, tanto da far attribuire a Basilio Secondo il soprannome di bulgaroctono, “uccisore di bulgari”.
Basilio Secondo comandava di persona gli eserciti nei teatri di guerra, che riteneva più importanti, e si mostrò un comandante di qualità eccezionali, trasformando le armate imperiali in una formidabile macchina bellica.
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Cap. 6. La crisi dell’Undicesimo Secolo, 1025-1081

Nel cinquantesimo che seguì il regno di Basilio Secondo l’Impero di Bisanzio andò incontro a una rapida decadenza, dovuta all’azione coincidente di cause interne ed esterne.
Sul piano interno ebbe particolare rilievo il notevole indebolimento dell’autorità centrale con il conseguente affermarsi del dominio incontrastato dei latifondisti.
I sovrani che si susseguirono dal 1028 al 1081 furono per lo più esponenti dell’aristocrazia civile di Costantinopoli, formata da grandi proprietari terrieri e assai lontana per ideali e metodi di governo dagli imperatori macedoni e, in particolare, da Basilio Secondo.
Come tali, non si opposero più ai potenti, assumendo un atteggiamento all’apparenza neutrale, ma che di fatto assicurò la vittoria ai latifondisti.
Il partito civile al potere, inoltre, trascurò l’esercito nazionale causandone una rapida disgregazione e la progressiva sostituzione del sistema dei temi con il reclutamento di mercenari.
La crisi del tradizionale apparato militare incise notevolmente sulle possibilità di contenere i nemici che premevano sulle frontiere (in particolare i turchi selgiuchidi e i normanni) conducendo a catastrofiche disfatte, a seguito delle quali l’estensione territoriale dell’Impero si ridusse notevolmente.
La frattura religiosa fra Costantinopoli e Roma, infine, divenne irreversibile a seguito dello scisma del 1054.
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L’aristocrazia terriera, ormai saldamente al potere, si rafforzò ulteriormente ottenendo privilegi sempre più ampi dal governo centrale.
Fra questi l’esenzione dalle imposte, largamente concessa, e l’immunità giudiziaria, per cui proprietari giudicavano direttamente i loro coloni.
Si costituirono così grandi domini che si andavano separando dal corpo dello Stato; il governo centrale, anziché intervenire come avevano fatto i macedoni, favorì lo sviluppo del fenomeno.
L’espansione del latifondo e la conseguente crisi del potere centrale vennero accentuate dal sistema della “pronoia”, destinato ad avere grande fortuna in seguito.
Quale ricompensa dei servizi prestati, il sovrano dava terre in concessione (che è il significato letterale del termine greco pronoia) ai “potenti” affinché le amministrassero trattenendone le rendite.
L’assegnazione della pronoia era temporanea e durava in genere quando la vita del beneficiato.
Si andava così sempre più configurando un feudalesimo bizantino, un fenomeno che fino a quel momento non aveva trovato posto in uno Stato fortemente centralizzato e che finì per modificare profondamente il volto dell’Impero trasferendo il potere, e le lotte per conquistarlo, alle famiglie rivali provenienti dal nuovo ceto di magnati.
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In Italia meridionale iniziò infatti la conquista normanna, nella penisola balcanica irruppero invasori provenienti da nord e in Oriente iniziarono a muoversi i turchi selgiuchidi.
………….
I normanni arrivarono come mercenari al servizio di un nobile barese, Melo, che nel 1009 si era ribellato ai normanni.
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Cap. 7. Dai Comneni agli Angeli, 1081-1204

Il periodo che va dal 1081 al 1204 vede la stabile permanenza sul trono di esponenti dell’aristocrazia militare che con Alessio Comneno riuscì ad imporsi a seguito del conflitto con il partito civile.
La società bizantina finì per perdere quella sia pur relativa mobilità sociale che l’aveva caratterizzata, e al suo vertice si impose un ristretto numero di potenti e ricche famiglia, detentrici di ampi latifondi e di sontuose dimore a Costantinopoli, che fecero venir meno i precedenti contrasti fra civili e militari trasferendoli a una semplice rivalità interna fra il ceto dominante.
I Comneni, con un’incisiva attività di governo, diedero vita a una rinascita della potenza imperiale, ma questa fu resa possibile da uno sfruttamento talvolta spietato di tutte le risorse disponibili e da un continuo aumento della tassazione, che colpì in maniera sempre più pesante la popolazione delle province.
I risultati ottenuti furono brillanti, soprattutto perché consentirono uan parziale riconquista del territorio perduto, ma la ricostruzione ebbe basi assai fragili e finì per crollare drammaticamente dopo la fine della dinastia Comnena sino a portare, nel 1024, alla capitolazione dell’Impero di fronte all’espansionismo occidentale.
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Nell’Undicesimo Secolo Venezia aveva da tempo raggiunto la completa indipendenza, anche se la diplomazia bizantina continuava a indicarla formalmente come se fosse in posizione di sudditanza.
L’autonomia da Bisanzio non aveva tuttavia portato alla rottura politica e, a parte occasionali contrasti, vi era stato un tradizionale rapporto di alleanza e, probabilmente col consenso di Bisanzio, all’inizio dell’Undicesimo Secolo al città lagunare aveva affermato la propria supremazia su parte della Dalmazia eliminando la secolare minaccia della pirateria slava.
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La crociata ebbe inizio nel 1095, quando papa Urbano Secondo al Concilio di Clermont-Ferrand lasciò un appello in difesa della cristianità orientale minacciata dagli infedeli.
L’appello del papa suscitò un grande entusiasmo e l’adesione all’impresa andò probabilmente anche al di là delle sue aspettative.
Il grande movimento di persone che ne fu conseguenza, però, venne visto con stupore e preoccupazione dall’Oriente bizantino.
L’idea di crociata, così come fu concepita in Occidente, era quanto mai lontana dalla mentalità di Bisanzio, dove per secoli era stato combattuto l’Islam e gli imperatori ritenevano che la lotta conto gli infedeli fosse uno dei loro esclusivi doveri.
In termini materiali, inoltre, lo spostamento di una grande quantità di armati dall’Occidente destava un comprensibile allarme, dato che non si poteva prevedere quale atteggiamento avrebbero assunto.
A Bisanzio gli occidentali erano da sempre guardati con sospetto, a causa di quelle che venivano ritenute le loro principali caratteristiche: l’arroganza, la sete di denaro, l’incapacità di rispettare i trattati e la considerevole potenza militare, tale da renderli concorrenti pericolosi e imprevedibili.
L’indicazione di Costantinopoli fatta dal papa come luogo di raduno dei partecipanti, nella convinzione che il sovrano sarebbe stato lieto di associarsi alla spedizione, ottenne soltanto lo scopo di acuire i sospetti di Alessio Primo, che peraltro si trovava nell’impossibilità materiale di opporsi.
Le sue aspirazioni di collaborazione con l’Occidente si erano infatti limitate alla richiesta di invio di mercenari e a promuovere trattative con Roma per la riunificazione religiosa, in cui comprendere verosimilmente anche un progetto di cooperazione nella lotta contro i turchi.
Pag. 134

I serbi – la cui potenza inizia ad affermarsi in questa epoca – erano come i croati una popolazione originaria dei territori a nord dei Carpazi insediata da Eraclio nel Balcani per contenere l’espansionismo avaro.
E’ incerta la loro origine etnica, ma dopo lo stanziamento finirono come i croati per assimilarsi alla locale popolazione slava.
A differenza di questi, per lo più sotto l’influenza occidentale attraverso l’assoggettamento all’Impero franco e la subordinazione alla Chiesa romana, i serbi mantennero a lungo stretti rapporti culturali e politici con Bisanzio.
I serbi vivevano in comunità chiamate zupanije o zupe sotto un principe detto zupan e l’Impero di Bisanzio pare aver conservato su di loro una sovranità almeno nominale fino alla prima metà del Nono Secolo, quando divennero indipendenti.
I rapporti tuttavia si fecero di nuovo stretti al tempo di Basilio Primo con l’accettazione del cristianesimo ortodosso e di un vassallaggio politico mantenuto fino alla prima metà dell’Undicesimo Secolo, allorché il più importante principato serbo (conosciuto come Dioclea o Zeta) riuscì ad assicurarsi l’indipendenza, confermata poi nel 1077 con l’invio da parte di papa Gregorio Settimo di una corona regale allo zupan Michele, entrato così formalmente nell’orbita politica romana.
All’inizio del dodicesimo secolo, con la decadenza della Zeta, il ruolo preminente sul popolo serbo fu assunto dai governatori di Rascia, così chiamata dalla fortezza di Ras, che era la residenza del principe.
L’indipendenza del popolo serbo non fu in ogni modo duratura e, alla fine dell’Undicesimo Secolo, il paese tornò sotto la supremazia imperiale, mantenuta sia pure con frequenti ribellioni fino alla seconda metà del secolo successivo.
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Gli ungheresi (o magiari) ebbero probabilmente rapporti con Bisanzio già nel Sesto Secolo, quando vivevano tra il Don e il Caucaso, ma entrarono decisamente nella scena politica dell’Impero nel Nono Secolo, allorché migrarono verso  Ovest raggiungendo in parte le pianure a nord dell’estuario del Danubio.
Alla fine del secolo, pressati dai Peceneghi, si spostarono nella pianura pannonica distruggendo il Regno moravo (nel 906) e, di qui, fecero periodiche incursioni sia in Occidente sia nei territori balcanici soggetti a Bisanzio, spingendosi in due occasioni fin sotto le mura di Costantinopoli.
Per quanto devastanti, tuttavia, queste incursioni ebbero carattere temporaneo e non intaccarono le città fortificate, contro le quali la loro organizzazione militare, basata sulle veloci incursioni di cavalleria, era del tutto impotente.
La pesante sconfitta subita a Lechfeld da Ottone Primo (nel 955) mise fine al nomadismo di questo popolo e, poco più tardi, si costituì una stabile nazione a opera del principe Géza e, soprattutto, del successore Stefano Primo (1000-1038), che fu il primo re di Ungheria.
La cristianizzazione, avvenuta verso il 970, portò gli ungheresi nell’orbita della Chiesa romana, ma non vennero meno i rapporti politici e culturali con l’Impero, con cui per oltre due secoli ebbero una frontiera comune lungo il medio Danubio e la Sava.
Il legame con Bisanzio si fece particolarmente intenso nell’Undicesimo Secolo, come attestano indirettamente anche la presenza alla corte ungherese di corone inviate in dono da Costantinopoli con un atto politico-simbolico che, secondo la mentalità del tempo, voleva significare la dipendenza gerarchica del sovrano ungherese dall’imperatore.
La prima di queste, la corona di Costantino Nono Monomaco (di cui sono state trovate nell’Ottocento alcuen placche smaltate), fu verosimilmente donata al re Andrea Primo (1046-1060), mentre la seconda (che costituisce la parte inferiore della “santa corona di Ungheria”) venne probabilmente inviata in dono di Michele Settimo al re Géza verso il 1074.
Lo stesso re sposò poi la nipote di Niceforo Botaniate e, più tardi (nel 1104), Piroska, figlia del re Ladislao Primo, andò in sposa a Giovanni Comneno diventando così imperatrice di Bisanzio.
Pag. 137-40

I rapporti con Venezia, che erano stati il cardine della politica paterna, subirono una crisi destinata a suscitare un conflitto con la tradizionale alleata.
Per tutto il regno di Alessio Primo Venezia era stata in netto vantaggio sia rispetto ai commercianti bizantini che alle altre città marinare italiane.
La sua posizione di forza non venne scossa dal trattato del 1111 con Pisa, alla quale Alessio Primo concesse privilegi commerciali inferiori a quelli ottenuti dai veneziani; al momento, i genovesi restavano ancora esclusi da benefici del genere.
Le cose però cambiarono bruscamente subito dopo l’avvento al potere di Giovanni Comneno.
Un’ambasceria veneziana giunse a Costantinopoli nel 1119 per ottenere il rinnovo del precedente trattato, ma si vide opporre un rifiuto dall’imperatore.
Non è del tutto chiaro perché Giovanni Secondo abbia adottato tale decisione, ma è probabile che su di essa abbiano pesato fattori di ordine politico, come la diminuita importanza dell’aiuto navale degli alleati, o anche il comportamento arrogante dei veneziani che li rendeva particolarmente sgraditi ai suoi sudditi.
L’iniziativa del Comneno fu rovinosa per Venezia, ma inizialmente non si ebbe alcuna reazione e soltanto nel 1122 la Repubblica iniziò a fare rappresaglie navali in territorio orientale.
La flotta bizantina non era in grado di far fronte agli attacchi e, nel corso di quattro anni, i veneziani agirono indisturbati ottenendo una serie di successi, sufficienti a spingere alla capitolazione l'imperatore.
Giovanni Comneno fece sapere al doge che era pronto a rinnovare il trattato e nell’agosto 1126 gli ambasciatori della città lagunare conclusero a Costantinopoli un nuovo accordo che rinnovò ed estese i privilegi concessi da Alessio Primo.
Pag. 140-1

Manuele Primo Comneno (1143-1180), figlio di Giovanni, fu designato espressamente dal padre a succedergli in violazione dei principio di anzianità (prima di lui infatti sarebbe dovuto venire il fratello Isacco) per le non comuni capacità politiche e militari di cui aveva dato prova.
Manuele Comneno fu un sovrano del tutto nuovo per Bisanzio: egli amava infatti le usanze occidentali e le introdusse a corte, modificando profondamente la mentalità e le tradizioni della sua gente.
Si trattava, d’altronde, anche di un’inevitabile conseguenza delle crociate, in seguito alle quali Bisanzio era uscita dalla chiusura all’Occidente, per secoli caratteristica della sua civiltà.
Manuele Comneno ebbe assai vivo il senso dell’universalità dell’Impero e cercò di riportarlo all’antico splendore sia con le armi sia con un’abile e instancabile attività diplomatica, che lo condusse a inserirsi nelle vicende politiche delle più importanti potenze del tempo.
Questi progetti finirono per tradursi in un’ultima fase espansionistica, ma vennero drammaticamente resi vani verso la fine del regno dal repentino crollo dell’intera costruzione politica degli anni precedenti, seguito da una nuova e questa volta irreversibile fase di decadenza.
Pag. 141

Guglielmo Primo procedette quindi alla riconquista del territorio italiano e, nella primavera del 1158, venne concluso un trattato, con la mediazione del papa, in forza del quale i bizantini abbandonarono la penisola.
L’impresa non fu soltanto un insuccesso militare, ma ebbe anche pesanti conseguenze politiche: creò infatti un contrasto insanabile fra l’imperatore di Bisanzio e il collega germanico e condusse a una frattura nelle relazioni con Venezia.
Il timore di una riaffermata presenza bizantina in Italia aveva spinto infatti la repubblica a concludere un trattato con Guglielmo Primo nel 1154 e, al momenti delle ostilità, Venezia restò neutrale.
Per aggirare l’ostacolo, Manuele Comneno si rivolse a Genova nel 1155, gettando le basi di un accordo, ma la diplomazia normanna vanificò la sua opera l’anno successivo ottenendo che anche questa città restasse al di fuori del conflitto.
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La precarietà del rapporto con Venezia, i cui accordi con Bisanzio erano soltanto compromessi provvisori, e il cambiamento della situazione politica in Occidente segnarono l’inizio della fine per Alessio Terzo Angelo.
Dopo la morte di Enrico Sesto l’Impero occidentale si era di fatto disgregato nella lotta civile che contrapponeva Filippo di Svevia a Ottone di Brunswick, senza quindi poter più condurre una propria politica in Italia, dove si impose la forte personalità di papa Innocenzo Terzo, salito al trono di Pietro nel 1198.
Innocenzo Terzo riprese con decisione il progetto di crociata, abbandonato dopo la fine ingloriosa della terza spedizione e le sue aspirazioni spirituali vennero a coincidere con quelle puramente politiche di un’altra forte personalità, il doge veneziano Enrico Dandolo, intenzionato a riaffermare con altrettanta determinazione la supremazia veneziana nell’Impero di Bisanzio.
La conseguenza di questa situazione fu la quarta crociata, al cui conclusione anomala finì per portare a una rapida dissoluzione dell’Impero di Bisanzio, che nel 1204 fu conquistato senza sforzo dagli occidentali.
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Cap. 8. La quarta crociata e l’Impero latino, 1204-1261

La quarta crociata, o “crociata dei veneziani”, venne bandita nel 1198 da papa Innocenzo Terzo; il suo invito fu raccolto dapprima dalla feudalità francese e fiamminga, alla quale si unirono in seguito i signor i tedeschi e dell’Italia settentrionale.
Questa volta non presero parte alla spedizione re o imperatori, ma soltanto feudatari di diversa importanza; capo riconosciuto ne fu il conte Tibaldo di Champagne, che però morì nel 1201 e venne sostituito dal marchese Bonifacio di Monferrato.
I partecipanti si accordarono per raggiungere l’Egitto via mare e, per procurarsi una flotta adeguata, si rivolsero a Venezia.
Furono avviate trattative con la Repubblica e, nell’aprile del 1201, venne concluso un trattato in forza del quale Venezia avrebbe preso parte all’impresa offrendo le navi e i viveri necessari per un anno contro il pagamento di una forte somma di denaro.
In più i veneziani avrebbero fornito una scorta di cinquanta galere, a condizione di ricevere in cambio metà delle conquiste future.
Come data del raduno a Venezia fu stabilito il giorno di San Giovanni, cioè il 29 giugno 1202.
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In questo modo era caduta la capitale dell’Impero romano di Oriente, dopo essere inviolata per secoli.
I vincitori dilagarono indisturbati e, per tre giorni, Costantinopoli fu abbandonata a un saccheggio indiscriminato che aggiunse altre devastazioni a quelle causate dagli incendi sviluppatisi nel costo dell’assedio.
Vennero profanate le chiese, per asportarne i tesori e le reliquie, violati i palazzi e le dimore private e la furia dei conquistatori ai abbatté indiscriminatamente sulle persone e le cose, distruggendo fra l’altro una grande quantità di opere d’arte.
Non si risparmiarono neppure le tombe imperiali, che furono aperte per prelevare gli ornamenti dei cadaveri.
I crociati distrussero per lo più senza alcun criterio, per impossessarsi delle ricchezze, mentre da parte veneziana si ebbe maggiore discernimento e le principali opere d’arte furono salvate per essere trasferite a Venezia, dove ancora sono in gran parte visibili.
Qualche tempo dopo, passata la furia del saccheggio, si provvide a creare un imperatore latino e alla spartizione dell’Impero seguendo i criteri fissati dal trattato di marzo.
Terminava così, sulle ceneri di Costantinopoli, l’età aurea delle crociate, dando vita a un Impero latino in Oriente che sarebbe sopravvissuto fino al 1261, quando la città venne ripresa dai bizantini.
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Il trattato del marzo 1204 costituì una sorta di carta costituzionale dell’Impero latino e, quando Costantinopoli fu presa, servì per la formazione del nuovo organismo statale istituito dai vincitori.
Venne costituito uno Stato di carattere eminentemente feudale e in primo luogo fu eletto un imperatore latino: a questo scopo, si riunì una commissione formata da sei veneziani e sei crociati, che scelse il conte Baldovino di Fiandra, sul quale fecero convergere i voti i veneziani verosimilmente per evitare che si imponesse la forte personalità di Bonifacio di Monferrato.
Subito dopo venne istituito un patriarca latino di Costantinopoli, nella persona del veneziano Tommaso Morosino.
Il trattato di marzo prevedeva infatti di affidare il patriarcato alla parte dalla quale non fosse stato scelto l’imperatore.
Si mise mano infine alla spartizione dell’Impero: il sovrano latino ne ottenne un quarto (costituito dalla sua porzione di Costantinopoli, dalla Tracia, da parte dell’Asia Minore e da alcune isole egee) e il resto andò diviso in parti uguali fra veneziani e cavalieri crociati.
La spartizione aveva tuttavia un valore in gran parte teorico dato che, quando fu completata (nel settembre dello stesso 1204), la provincia bizantina doveva ancora essere sottomessa, a eccezione dei territori di Macedonia e di Tracia, conquistati da Baldovino di Fiandra con uan breve campagna estiva.
Anche quando, in seguito, la sottomissione ebbe luogo, non sempre le assegnazioni fatte sulla carta coincisero con le acquisizioni effettive sia per gli accordi occasionalmente intervenuti fra i vincitori, che modificarono in alcuni casi le zone di influenza, sia anche a motivo della resistenza dell’elemento greco che spesso impedì ai latini di sottomettere alcune regioni.
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Giovanni Vatatze raddoppiò l’estensione del suo Stato e lo condusse a una notevole fioritura economica, mentre l’Impero latino continuava a sopravvivere, sia pure privo di ogni energia, in pratica, soltanto perché sostenuto dalla flotta veneziana, con la quale le forze nicene non erano in grado di confrontarsi a motivo della superiorità tecnica di quest’ultima.
Lo stato di cronica debolezza dell’Impero latino fu aggravato da una pesante crisi finanziaria.
Baldovino Secondo, sul trono dal 1228, trascorse lunghi anni in Occidente, vendendo i possedimenti aviti a Costantinopoli.
Una dopo l’altra vennero anche cedute le reliquie più preziose e giunsero così a Parigi la corona di spine e altre reliquie della Passione, per accogliere le quali re Luigi il Santo fece costruire la Sainte-Chapelle.
A causa del continuo bisogno di denaro, infine, il sovrano finì per dare in pegno ai mercanti veneziani il figlio Filippo e a vendere il piombo che ricopriva i tetti dei suoi palazzi.
Ogni sforzo fu però inutile e l’Occidente abbandonò Costantinopoli latina al suo destino, con la sola eccezione dei veneziani che fino all’ultimo cercarono di preservarla.
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Cap. 9. L’età dei Paleologi, 1261-1453

L’epoca dei Paleologi rappresenta l’ultima fase della storia di Bisanzio.
L’Impero ricostruito nel 1261 riuscì a sopravvivere per circa due secoli, anche se riducendosi progressivamente nell’estensione, in preda a un continuo processo di disfacimento dopo il tentativo fatto da Michele Ottavo per riportarlo alle dimensioni di potenza internazionale.
L’opera di erosione del territorio residuo venne attuata dai tradizionali nemici balcanici e orientali, che approfittarono della debolezza di Bisanzio per espandersi, nonché dalle Repubbliche marinare di Genova e di Venezia, la cui ipoteca sul secondo impero si fece sempre più pesante.
Il colpo definitivo fu tuttavia assestato dai turchi ottomani, la stirpe guerriera che iniziò a imporsi nel Quattordicesimo secolo, al cui incontenibile potenza finì per travolgere ciò che restava di Bisanzio e di gran parte dei possedimenti occidentali costituitisi dopo la quarta crociata, espandendosi poi anche ai danni degli Stati balcanici tradizionalmente nemici dell’Impero.
La crisi politica dell’epoca paleologa ebbe anche pesanti ripercussioni sul punto interno, che si fecero drammaticamente avvertire nel corso del Trecento, con un generale impoverimento della popolazione, eccezion fatta per una classe ristretta di grandi proprietari terrieri, passato in gran parte in mano alle repubbliche marinare italiane.
In stridente contrasto con la decadenza di Bisanzio, tuttavia, la cultura letteraria e la produzione artistica ebbero un periodo di rigogliosa fioritura.
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I cambiamenti intervenuti nella situazione italiana misero un pesante ipoteca sui progetti di Michele Ottavo.
L’eliminazione del dominio svevo in Italia meridionale (nel 1266) e l’avvento al trono di Sicilia di Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, diedero infatti nuovo impulso ai piani espansionistici dell’Occidente ai danni di Bisanzio.
Intenzionato a conquistare l’Impero, Carlo d’Angiò si assicurò l’appoggio papale e, in forza di accordi diplomatici che ne facevano l’alleato del deposto sovrano latino, rivendicò il diritto alla sovranità su Costantinopoli, iniziando nello stesso tempo i preparativi per una grande spedizione militare.
Privo delle forze necessarie per contrastarlo, Michele Ottavo cercò di ritardare l’impresa e, parallelamente, di giocare la carte diplomatica nell’unione religiosa con Roma, che avrebbe tolto la spinta propagandistica per l’attacco alla scismatica Bisanzio.
La sua diplomazia convinse il re di Francia, Luigi Nono, a portare con sé il fratello nella crociata di Tunisi nel 1270 e l’anno successivo vennero avviati i contatti con Roma, resi possibili dall’elezione del papa italiano Gregorio Decimo, ben disposto nei confronti di Costantinopoli e nello  stesso tempo avverso alla politica angioina.
Le trattative andarono a buon fine: nel 1274 fu convocato un Concilio a Lione dove il dissidio fra le due chiese venne formalmente ricomposto con la proclamazione dell’unione religiosa e i delegati bizantini giurarono di accettare la fede romana nonché il primato di Roma.
I vantaggi politici furono immediati: Carlo d’Angiò dovette rinunciare ai piani di conquista e Michele Ottavo poté avviare una controffensiva su vari fronti.
L’unione ebbe però gravi contraccolpi interni a Bisanzio per l’opposizione pressoché compatta del clero, del monachesimo e di buona parte della popolazione, che spinsero Michele Ottavo a mettere in atto pesanti persecuzioni dei dissidenti.
La fazione ecclesiastica contraria all’unione trovò espressione nel movimento degli arseniti (così detto dal patriarca di Costantinopoli Arsenio, deposto nel 1266 da Michele Ottavo), che si oppose con vigore alla politica imperiale.
L’unione non fu duratura neppure in Occidente e con l’avvento al seggio papale nel 1281 del francese Martino Quarto, strumento di Carlo d’Angiò, si torno alla rottura piena: il papa condannò Michele Ottavo come scismatico e l’Angiò (che già nel 1280 aveva attaccato senza successo l’Albania imperiale) poté riprendere i suoi piani di conquista, promuovendo una coalizione antibizantina formata dall’erede al trono latino Filippo di Courtenay, Venezia, Tessaglia (che nel 1271 si era staccata dall’Epiro), Serbia e Bulgaria.
I serbi e il despota di Tessaglia irruppero in Macedonia nel 1282 e l’Angiò, con l’aiuto navale di Venezia, si apprestò a dare il colpo definitivo al nemico, ma la situazione fu salvata all’ultimo momento dalla rivolta dei Vespri siciliani, scoppiata a Palermo nel marzo del 1282, alla quale non fu estranea la diplomazia di Costantinopoli.
A seguito di questa rivolta, infatti, al Sicilia si liberò dal dominio francese e il tentativo dell’Angiò di rientrarne in possesso fu ostacolato dalla potenza rivale degli aragonesi, con cui si accese un violento conflitto (destinato a trascinarsi fino al 1302 oltrepassando la vita stessa dei primi protagonisti) a seguito del quale naufragò ogni progetto di spedizione in Oriente.
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La rinuncia al mantenimento di una forza militare e la linea politica adottata da Andronico Secondo ebbero un pesante contraccolpo sull’Impero.
La potenza ancora esistente sotto il predecessore subì un rapido processo di contrazione, avviando Bisanzio a divenire un piccolo Stato incapace di esprimere una propria politica estera e preda di una sempre più accentuata disgregazione interna.
La moneta andò soggetta a una forte svalutazione e nello stesso tempo si diffuse in modo sempre più massiccio la grande proprietà fondiaria, inutilmente contrastata da un tentativo imperiale di aumentare l’imposizione fiscale ai ricchi.
Sui mercati prevalsero le monete d’oro delle repubbliche italiane, portando come conseguenza un forte rincaro dei prezzi e un generale impoverimento, mentre la pronoia si consolidò con l’affermazione all’interno di questo sistema di uan classe privilegiate di feudatari, così da accentuare il divario con il resto della popolazione impoverita.
Analogamente disastrose furono le ripercussioni interne della politica seguita nei confronti delle repubbliche marinare, la cui alleanza o neutralità gravò ulteriormente sull’erario imperiale con una serie di concessioni o privilegi per mantenerne l’amicizia.
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L’Asia Minore turca aveva subito un processo di ridefinizione territoriale tra il Tredicesimo e il Quattordicesimo Secolo.
Il sultanato selgiuchide di Rum, giunto all’apogeo nei primi anni del Duecento, era stato travolto dall’invasione mongola subendo uan disastrosa sconfitta campale nel 1243, a seguito della quale si era frazionato in una serie di piccoli emirati più o meno indipendenti e soggetti al controllo dei mongoli.
Con il declino della potenza mongola, verso l’inizio del Quattordicesimo secolo, acquistò un’importanza sempre crescente l’emirato costituito dagli ottomani (o osmanili) nel territorio dell’antica Bitinia.
Si trattava di uan tribù turca arrivata fra le ultime in Asia Minore, che aveva avuto come suo primo capo Ertogul, cui era poi succeduto il figlio Osman (1281-1326), il vero fondatore della dinastia ottomana.
A lui è legato il nome stesso del suo popolo, che fu chiamato Osmanli e venne poi conosciuto in Occidente come “Ottomani”.
Gli Ottomani si mostrarono subito una stirpe guerriera e, fra Tre e Quattrocento, misero in atto una inarrestabile espansione territoriale destinata a riunificare le genti turche e a assestare un colpo mortale all’Impero di Bisanzio.
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L’Impero uscì stremato dal nuovo conflitto civile e subì ulteriori perdite territoriali.
I genovesi ripresero Chio, Stefano Dusan conquistò la Macedonia, eccezion fatta per Tessalonica, , e subito dopo l’Epiro e la Tessaglia.
Il territorio in mano a Costantinopoli si ridusse alla Tracia, le isole dell’Egeo settentrionale, Tessalonica isolata all’interno delle conquiste arabe e una parte del Peloponneso.
Bisanzio subì inoltre un tracollo economico e finanziario a seguito delle devastazioni apportate dal passaggio degli eserciti di Cantacuzeno e dei suoi rivali, e a questo, come ulteriormente negativo, si accompagnò nel 1347 la diffusione della grande epidemia di peste che poi avrebbe raggiunto l’intera Europa.
La situazione era disastrosa, d’altronde, già all’inizio del conflitto quando Anna di Savoia aveva impegnato a Venezia i gioielli della corona per ottenere un prestito con cui far fronte alle spese di guerra.
L’idea del degrado è data pienamente dal fatto che alla corte, un tempo splendida, si usava ora soltanto vasellame di piombo e di terracotta.
Il grande Impero di Bisanzio si era ridotto all’ombra dell’antica potenza, ma sarebbe tenacemente sopravvissuto ancora per un secolo.
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La Crociata di Nicopoli rappresentò uno sforzo serio compiuto dalle potenze occidentali per arrestare l’avanzata turca e venne promossa essenzialmente per la difesa dell’Ungheria cattolica.
L’iniziativa du presa da Sigismondo re di Ungheria, l’unico Stato balcanico che ancora disponeva delle risorse necessarie per poter condurre operazioni militari di ampio respiro, che fece appello a tutti i sovrani d’Europa per un’impresa destinata a salvare la cristianità.
Il suo invito fu raccolto: si mossero due papi (Bonifacio Nono e Benedetto Tredicesimo ad Avignone) e venne costituita una grande armata di circa centomila uomini il cui grosso era formato dagli ungheresi, ma che comprendeva anche migliaia di uomini variamente affluiti da Francia, Germania, Valacchia, Italia, Spagna, Inghilterra, Polonia e Boemia.
I genovesi di Lesbo e di Chio e i cavalieri di Rodi si assunsero il compito di presidiare la foce del Danubio e le coste del mar Nero, mentre Venezia finì per superare le esitazioni iniziali (determinate dal proposito di avviare una trattativa bizantino-turca) inviando una piccola flotta nei Dardanelli da cui fu infranto il blocco navale dei turchi.
L’esercito crociato si concentrò a Buda per ricongiungersi ai veneziani nella capitale e, nell’estate del 1396, superò il Danubio proseguendo verso Nicopoli, che fu posta sotto assedio.
Il 25 settembre però le forze cristiane furono disastrosamente sconfitte da Bayazid.
Il re Sigismondo riuscì a mettersi in salvo con la fuga, ma molti combattenti occidentali perirono sul campo o furono fatti prigionieri.
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La crisi dell’Impero ottomano conseguente alla disfatta del 1402 portò ad alcuni anni di calma, segnati anche dalla fioritura culturale di Mistrà a opera del despota Teodoro Secondo Paleologo e dell’umanista Giorgio Gemisto Pletone, uno dei più fecondi pensatori del tempo.
Si ebbe a Mistrà una paradossale rifioritura dell’ellenismo, in aperto contrasto con lo sfascio generale del mondo bizantino.
La Morea, nella prima metà del Quattrocento, divenne il vivaio della grecità e mostrò anche una considerevole vitalità politica, riuscendo a sottomettere tutto il Peloponneso, a eccezione delle colonie veneziane di Corone, Modone, Argo e Nauplia.
Nel 1432, infatti, venne assoggettato il principato latino di Acaia e terminò così la contesa franco-bizantina per il possesso del Peloponneso, che era iniziata al tempo di Michele Ottavo.
Per meglio proteggere la Morea, Manuele Paleologo fece poi costruire l’Hexamilion, un forte bastione difensivo lungo tutto l’istmo di Corinto.
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La crociata svoltasi fra il 1443 e 1444, comunemente nota come crociata di Varna, fu inizialmente coronata da un promettente successo.
L’appello del papa per la spedizione trovò un’accoglienza favorevole e nella parte meridionale dell’Ungheria si raccolse un esercito guidato dal re Ladislao Terzo, dal voivoda di Transilvania Giovanni Corvino Hunyadi, dal despota serbo Giorgio Brankovic, che era stato cacciato dal suo paese dai turchi; a questo si aggiunsero poi altri rinforzi guidati dal legato papale, il cardinale Giuliano Cesarini.
L’esercito crociato, composto da circa 25000 uomini cui si unirono lungo il percorso più di 6000 serbi, superò il Danubio all’inizio dell’ottobre 1443 e si addentrò fino in Bulgaria e, di qui, in Tracia ottenendo una serie di brillanti vittorie sui nemici.
Le operazioni militari vennero sospese nell’inverno ma la situazione continuava a essere favorevole ai crociati: Murad Secondo, impegnato a domare una rivolta in Asia Minore, si trovò in difficoltà, anche perché contemporaneamente l’Albania era insorta e le truppe del despota bizantino di Morea, Costantino Paleologo, erano passate all’offensiva nella Grecia centrale.
Il sultano fece perciò proposte di tregua e nel giugno 1444 si accordò per un armistizio di dieci anni che alla fine venne respinto dai cristiani, con l’eccezione del despota di Serbia, ritiratosi dall’impresa.
Le forze crociate ripresero la marcia in direzione del mar Nero, dove prevedevano di imbarcarsi sulla flotta veneziana a Varna e raggiungere Costantinopoli.
Le operazioni navali e terrestri, però, furono male coordinate: i veneziani ritardarono il loro arrivo e, nello stesso tempo, non riuscirono a impedire a Murad Secondo di traghettare al di là del Bosforo un forte  contingente di truppe asiatiche.
Il 10 novembre 1444 le forze turche, pari a circa il triplo di quelle nemiche, affrontarono i crociati in prossimità di Varna, sulla costa del mar Nero.
I cristiani combatterono con eroica determinazione, ma alla fine furono sbaragliati lasciando fr ai morti il re Ladislao e il cardinal Cesarini; i superstiti si sbandarono e soltanto pochi riuscirono a salvarsi.
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La disfatta di Varna determinò la fine di Bisanzio.
Nel 1448 morì Giovanni Ottavo Paleologo e, in assenza di eredi diretti, il suo posto fu preso dal fratello e despota di Morea Costantino Undicesimo Paleologo (1448-1453) che fu incoronato a Mistrà e qualche tempo più tardi ragiunse Costantinopoli su una nave veneziana.
Le operazioni militari condotte in Grecia da Costantino Paleologo erano proseguite anche dopo la sconfitta dei crociati, ma nel 1446 Murad Secondo troncò ogni velleità di rivincita irrompendo nella regione, superò le difese dell’istmo ricostruite dal despota e si addentrò in Morea devastandola completamente per poi ritirarsi con sessantamila prigionieri dopo aver imposto il riconoscimento della sua sovranità.
La potenza ottomana era ormai incoronabile e, dopo la sconfitta di Hunyadi, era rimasto in armi nei Balcani soltanto l’albanese Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, che si era ritirato sulle montagne dell’Albania per proseguire la lotta.
La sorte di ciò che restava dell’Impero era ormai segnata, ma l’epilogo si sarebbe avuto soltanto con l’avvento al potere nel 1451 del giovane ed energico sultano Maometto Secondo, che diede un forte impulso all’espansionismo turco portando il suo Stato a una potenza non ancora raggiunta dai predecessori.
Maometto Secondo il Conquistatore (come fu chiamato dai contemporanei) decise in primo luogo di farla finita con quanto restava dell’Impero.
Le residue sopravvivenze bizantine rappresentavano un ostacolo per i suoi piani di dominio e Costantinopoli, in particolare, era un assurdo ricordo di una potenza ormai scomparsa, pericolosamente incuneata però nell’Impero ottomano.
Maometto Secondo preparò con cura l’accerchiamento della città imperiale, che con le sue forti mura rappresentava ancora un ostacolo formidabile.
Prese dapprima una serie di iniziative volte a intercettare l’arrivo di qualsiasi aiuto esterno, poi fece costruire nel punto più stretto del Bosforo il castello di Rumir-Hisar, che si aggiunse alla fortezza di Anadolu Hisar fatta edificare da Bayazid sulla sponda asiatica e dotata di un imponente spiegamento di artiglieria in grado di impedire a chiunque la navigazione.
Quando l’accerchiamento fu completato, ebbe inizio l’assedio vero e proprio nei primi giorni di aprile del 1453.
Maometto Secondo schierò di fronte a Costantinopoli un’armata imponente, forte a quanto pare di circa centocinquantamila uomini, ma soprattutto ricorse in modo massiccio all’artiglieria, che si sarebbe rivelata determinante per la caduta della città.
Per suo conto, un fonditore ungherese di nome Urban realizzò ad Adrianopoli un cannone di proporzioni gigantesche, che venne trasportato in due mesi con un tiro di sessanta buoi fin sotto le mura della capitale assediata.
Alla grande quantità di combattenti turchi e ai mezzi tecnologicamente all’avanguardia si contrapponevano un’artiglieria antiquata e un nucleo di difensori formato da circa settemila uomini, composto da bizantini e settecento mercenari genovesi guidati da Giovanni Giustiniani Longo, cui venne affidato dal sovrano il comando delle operazioni difensive.
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Gli ottomani iniziarono l’assedio della città il 12 aprile con un bombardamento diurno e notturno delle mura terrestri che durò per una settimana.
Il 18 aprile Maometto Secondo tentò un attacco notturno andato a vuoto e, subito dopo, lo scontro si spostò sul mare nel tentativo di forzare l’ingresso al Corno d’Oro che era stato chiuso con uan grossa catena.
Anche questa operazione non ebbe l’esito sperato, per la resistenza dei cristiani, e il sultano decise di trasportare via terra le navi facendole trainare fin sulla cima di una collina antistante per poi farle scendere nel porto e, qui, prendere alle spalle la flottiglia che difendeva la catena.
L’operazione fu eseguita con successo il 22 aprile e alcuen decine di navi turche entrarono così nel porto di Costantinopoli; tuttavia non condusse ai risultati sperati, dato che le imbarcazioni turche alla fine si trovarono intrappolate ed esposte agli attacchi nemici.
Maometto Secondo intensificò di conseguenza l’assedio, con due tentativi di penetrare in città attraverso brecce aperte nelle mura, il 7 e il 12 maggio, che vennero ugualmente respinti dagli assediati.
Fu inoltre aumentato il bombardamento, aprendo grossi squarci nelle mura e vennero fatti altri inutili assalti diretti alle difese cittadine.
Il 26 maggio Maometto Secondo si risolse a tentare l’attacco finale eseguendo i necessari preparativi.
Il 28, nella città ormai presaga della fine, si svolsero grandi processioni e una cerimonia religiosa in Santa Sofia, alla quale presero parte l’imperatore con i suoi dignitari e i comandanti del presidio.
L’assalto iniziò dopo le tre del mattino del 29 maggio e si concentrò in prossimità della porta di San Romano, che era il punto più debole della difesa.
La prima ondata, composta da reparti irregolari, fu respinta dopo due ore di combattimenti e lo stesso avvenne per un secondo assalto di truppe anatoliche.
Verso  l’alba il sultano fece scendere in campo le truppe scelte (i giannizzeri) e queste alla fine riuscirono a penetrare dentro le mura.
Il Longo, ferito, abbandonò la posizione gettando il panico fra i difensori, che si sbandarono, e Costantino Undicesimo morì combattendo nella disperata difesa della sua capitale ormai invasa dai nemici.
Alcuni superstiti riuscirono a fuggire facendo salpare fortunosamente dal porto un certo numero di navi veneziane, cretesi e genovesi, che raggiunsero il Bosforo e di qui proseguirono verso la salvezza mentre Costantinopoli venne brutalmente messa a sacco dai vincitori per tre giorni.
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Ancora una volta le potenze occidentali non accorsero in difesa di Costantinopoli, malgrado gli appelli disperati di Costantino Undicesimo e i pericoli connessi alla perdita della città, che avrebbe offerto ai turchi una posizione strategica di prim’ordine per proseguire il loro attacco al mondo cristiano.
La flotta veneziana inviata in soccorso degli assediati partì con incredibile ritardo e non arrivò mai sul teatro operativo, perché fu preceduta dalla notizia della caduta di Costantinopoli in mano turca.
Nell’inutile tentativo di ottenere l’aiuto dell’Occidente, l’imperatore bizantino aveva fatto proclamare di nuovo l’unione religiosa in Santa Sofia (12 dicembre 1452), suscitando l’indignata reazione dei suoi sudditi, in grande maggioranza determinati a sopportare il dominio turco piuttosto che la soggezione a Roma.
Poco più tardi caddero in mano ottomana anche i residui frammenti dell’Impero: la Morea ne 1460 e Trebisonda l’anno successivo.
Molti bizantini fuggirono riparando soprattutto in Italia e, fra questi, un buon numero di eruditi che contribuirono alla diffusione in Occidente della cultura greca.
Il Ducato di Atene, residuo della conquista latina, fu ugualmente nel 1456, mentre alcune delle colonie genovesi e veneziane costituite nel corpo dell’Impero avrebbero resistito più o meno a lungo alla marea turca.
Con la conquista di Costantinopoli, a ogni modo, finiva la storia di Bisanzio, ma la sua tradizione fu continuata attraverso la cultura greca, che nel corso del Quattrocento si affermò decisamente in Occidente, e la Chiesa ortodossa che ne raccolse l’eredità.
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