Cap. 1. La nascita della stirpe

La nascita della stirpe dei longobardi come quella di tutte le tribù barbare dell’epoca antica e altomedievale, è avvolta nelle nebbie di un passato remoto sul quale non esistono sufficienti fonti storiche che siano in grado di far luce in misura adeguata.
La cultura dei barbari era orale e quindi dall’interno di quel mondo non sono giunte a noi, perché non furono prodotte, testimonianze scritte se non in tarda età, dopo l’acculturazione delle diverse etnie a contatto con la civiltà romano-cristiana.
Dal canto loro, gli autori romani trascurarono quelle genti finché esse non entrarono in contatto con l’impero e comunque non furono in genere interessati a fornirne precise e particolareggiate descrizioni e a raccontarne la storia.
La genesi delle varie tribù barbare è dunque taciuta o, in alcuni casi, ricostruita a posteriori in maniera approssimativa quando non addirittura fantastica.
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Cap. 2. Dalla Scandinavia alla Pannonia

Durante il successivo regno di Vacone i longobardi sottomisero gli svevi che erano insediati nelle province della Valeria e della Pannonia 1. (cioè in gran parte dell’odierna Ungheria) e strinsero importanti alleanze con diverse stirpi attraverso al politica matrimoniale del loro monarca, che sposò prima la figlia del re dei turingi, poi quella del re dei gepidi, infine quella del re degli eruli.
In questo modo essi si assicurarono rispettivamente la protezione del confine settentrionale del loro dominio, di quello a est, e la possibilità di inglobare nel proprio esercito gli eruli sopravvissuti alla guerra.
Infine, Vacone fece sposare due sue figlie con dei principi franchi, alleandosi quindi anche con questa fortissima tribù occidentale, e strinse accordi con Bisanzio.
Insomma, durante il quasi trentennale regno di Vacone (all’incirca dal 510 al 540) i longobardi riuscirono a consolidare una grande dominazione che andava dalla Boemia all’Ungheria e che era ben inserita nel quadro geopolitico internazionale.
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Cap. 3. L’invasione dell’Italia

Nella primavera del 569 (o l’anno precedente secondo altri calcoli) i longobardi fecero irruzione in una penisola italiana che scontava ancora le conseguenze della terribile guerra che per quasi vent’anni, dal 535, aveva opposto l’Impero bizantino, retto allora da Giustiniano, al  regno dei goti, e che si era chiusa con la disfatta di quest’ultimo.
Il lungo conflitto aveva sconvolto molte regioni, soprattutto al centro-sud, con un crollo demografico che si accompagnava allo spopolamento di vaste aree, alla rovina di numerose città e di molte infrastrutture ereditate dall’epoca romano-imperiale (a cominciare dal sistema stradale), alla crisi delle attività economiche e produttive.
Inoltre, il reintegro dell’Italia nell’Impero, in sostituzione del dominio dei goti, non era stato accolto con favore da tutta la popolazione indigena, che avvertiva i militari e i funzionari imperiali, provenienti dall’Oriente, come stranieri (malgrado agissero nel nome di Roma) e che mal tollerava l’opprimente pressione fiscale imposta dalle autorità a un paese dissanguato dagli eventi bellici.
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Sfondato il confine, occupato il Friuli, i guerrieri di Alboino subito dopo dilagarono per il Veneto, quindi, nel giro di tre anni, entrarono in Lombardia, si spinsero fino al Piemonte e, oltrepassato il Po, fecero irruzione in Emilia e in Toscana.
Nelle loro mani caddero molte delle più importanti città dell’Italia settentrionale, comprese le due sedi di residenza predilette da Teodorico, cioè Verona e Pavia, e la vecchia capitale tardoimperiale, Milano.
La presa di possesso del territorio avvenne però in maniera disorganica.
Diverse tra le più salde piazzeforti tenute dai bizantini furono aggirate dai longobardi, anziché prese d’assalto,  per non sfiancarsi in assedi prolungati e difficili da sostenere (anche per le limitate capacità poliorcetiche dei barbari); inoltre, fu debole l’effettivo coordinamento politico-militare delle operazioni da parte del re, poiché i guerrieri si muovevano in bande ciascuna delle quali sottostava al comando del proprio capo, chiamato dalla fonti col termine latino di dux (duca), desunto dal lessico militare tardoromano.
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Al termine di questo periodo di governo ducale, che fu particolarmente turbolento con un aumento dei saccheggi a danno dei romani, la consapevolezza che un assetto politico-istituzionale frantumato, e con strategie discordi, esponeva a grandi rischi di fronte ai tentativi dei bizantini di riconquistare almeno una parte dei territori occupati dai longobardi convince i duchi a creare re il figlio di Clefi, Autari.
Per rendere più solido il potere di una base economica, un patrimonio del re,  cedendogli ciascuno la metà dei propri beni: per tutto il regno, da allora, si ebbe all’interno di ogni ducato proprietà fiscali regie, denominate curtes, rette da ufficiali di fiducia del monarca, i gastaldi.
Ad aumentare i timori dei longobardi, tanto da convincerli a darsi di nuovo una guida unitaria, fu anche l’accordo stipulato in quel periodo dall’impero con i franchi, loro tradizionali nemici, i quali nel 584 effettuarono scorrerie al di qua delle Alpi.
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A fronte di un simile quadro generale, la preoccupazione di Autari (584-590) e poi del suo successore Agilulfo (591-615) fu quella di garantire quanto più possibile uniformità territoriale al regno, rafforzandone i confini esterni, riassorbendo le diverse enclaves imperiali che sopravvivevano al suo interno e sottomettendo con patti o con la forza delle armi i duchi refrattari all’autorità del monarca (come, tra gli altri, quelli di Treviso, Verona, Bergamo, Trento, Cividale).
Allo stesso tempo ci si sforzò di contenere i franchi, tramite accordi diretti o alleandosi in funzione anti franca con altre stirpi transalpine, coem quella dei bavari.
Per questo motivo Autari sposò la principessa bavara Teodolinda, che, una volta rimasta vedova, scelse come nuovo marito il duca di Torino Agilulfo, trasferendogli la dignità regia.
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Nell’autunno del 593 Agilulfo, spingendo la propria incisiva azione militare fino alle regioni dell’Italia centrale, giunse alle porte di Roma e mise sotto assedio la città.
Questa, mal  difesa dalle truppe bizantine,  da tempo sentiva stringere attorno a sé la morsa longobarda, rappresentata non solo dall’avanzata del re, ma soprattutto dalle ripetute scorrerie dei più vicini duchi di Spoleto e di Benevento.
Nell’emergenza la tutela della popolazione romana fu assunta dal pontefice, che allora era Gregorio magno.
Costui si era fatto carico delle diverse incombenze ormai trascurate dai funzionari imperiali, comprese la cura degli approvvigionamenti e perfino l’organizzazione della difesa delle mura urbane, non solo per la città di cui era vescovo, ma anche per diversi altri centri dell’Italia centrale e meridionale, come, ad esempio, Nepi o Napoli, consapevole della responsabilità verso il gregge di fedeli a lui affidato che discendeva dal suo ufficio pastorale in quanto vescovo e metropolita.
Si trattava di una condotta da lungo tempo divenuta familiare ai vescovi dell’Occidente, i quali,  di fronte alla progressiva disgregazione dell’ordinamento imperiale, avevano dovuto surrogare le magistrature dello Stato, spesso mettendo a frutto l’educazione che avevano ricevuta provenendo essi stessi in larga misura da famiglie aristocratiche e talora, come nel caso di Gregorio Magno, avendo maturato esperienze di funzionario civile prima di abbracciare la carriera ecclesiastica.
Gregorio cercò sempre di collaborare con gli ufficiali imperiali, ma di fronte all’inerzia di questi none sitò a prendere iniziative autonome, avviando trattative con i longobardi e attirandosi perciò i rimproveri dell’esarca e dell’imperatore, che lo accusarono di ingenuità o addirittura di intelligenza con il nemico.
Per tutta la durata del suo pontificato egli insistette sulla necessità di un accordo di pace generale tra l’Impero da una parte e il Regno e i due ducati di Spoleto e Benevento dall’altra, proponendosi quale mediatore e garante delle tregue, che rimasero sempre di precaria tenuta.
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Per i piccoli proprietari e per i contadini lo stanziamento dei longobardi, anche se non fu certo indolore, ebbe probabilmente conseguenze meno gravi sulle loro condizioni di vita, sebbene la matrice delle fonti scritte, prodotte tutte dalle élite, renda assai complicata ogni concreta valutazione di simili aspetti.
I contadini videro semplicemente nuovi padroni barbari sostituirsi ai vecchi padroni romani, mentre i piccoli proprietari versarono ad altri destinatari i canoni e le prestazioni che già dovevano al fisco imperiale, il quale era forse più meticoloso e opprimente nell’esazione di quanto non lo fossero i nuovi venuti.
Alcune lettere di Gregorio magno fanno cenno del fatto che molte famiglie di contadini preferivano rifugiarsi presso i longobardi piuttosto che sostenere il peso delle imposizioni fiscali richieste dall’impero, che le costringevano a vendere i propri figli per sopravvivere.
Lo stesso papa scriveva anche ad Agilulfo per ricordargli coem fosse nel suo interesse risparmiare la vita dei contadini, del cui lavoro gli stessi longobardi traevano giovamento.
Insomma, una volta attenuatasi la violenza diffusa dei primi tempi, l’esistenza quotidiana di questi ceti dovette riassestarsi su livelli non troppo difformi da quelli dal passato e quindi la loro condizione complessiva non dovette peggiorare.
Nelle città, poi, la popolazione romana, rappresentata e organizzata dal proprio vescovo, e depositaria di saperi e capacità tecniche ed economiche che i longobardi non possedevano, ebbe forse uan capacità ancor maggiore di contrattare con i nuovi dominatori i termini della forzata convivenza.
Abbandonata da tempo la vecchia immagine storiografica, in larga misura ottocentesca, di una popolazione romana asservita dai padroni longobardi e ridotta a uan massa indistinta dai padroni longobardi e ridotta a una massa indistinta di schiavi schiacciata sotto il tallone di un “occupante” straniero, la valutazione oggi generalmente condivisa in ambito scientifico dei rapporti tra le due componenti etniche del regno restituisce un quadro più articolato, in cui la condizione dei romani, oltre che meno cupa nel suo insieme, appare diversificata per contesti sociali, di luogo di residenza (con una dicotomia fra città e campagna) e forse anche doganali.
Nella cultura dei longobardi, l’uomo libero dotato di pienezza di diritti e di capacità politica era soltanto l’exercitalis, o arimanno, vale a dire il maschio adulto in grado di portare le armi, membro dell’assemblea tribale, il thinx o gairerhinx, autentica sede del potere.
I soggetti liberi longobardi che non portavano le armi, coem le donne o i minori, si trovavano in una condizione di detentori di diritti affievoliti, dovendo sottostare alla protezione di un maschio adulto, che interveniva al loro fianco, o per loro conto, nei vari negozi giuridici.
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Se longobardi e romani rimasero all’inizio separati, sui piani sociale, giuridico (ciascuno dei due gruppi si regolava secondo il proprio diritto), e talora anche insediativo, la prolungata convivenza e lo stesso scarso numero complessivo dei longobardi favorirono un processo di avvicinamento reciproco che non fu nemmeno tanto lento.
La contiguità fu forte soprattutto nelle città: qui i longobardi si stabilirono nei vecchi edifici romani, installando nei palazzi pubblici la propria amministrazione locale, a cominciare dalla sede del duca, mentre i guerrieri con le loro famiglie trovarono dimora nelle case esistenti, dapprima in quartieri e loro riservati, dai quali potevano controllare tutto lo spazio urbano, e poi, con il tempo, in modo più distribuito, mischiandosi con gli autoctoni.
Tra la popolazione urbana i longobardi erano una piccola minoranza: di fronte a sé avevano la maggioranza romana, organizzata dal vescovo e dal clero cattolico e depositaria di una cultura più adatta a una vita stanziale e cittadina.
I barbari erano inoltre indotti a ricorrere quotidianamente ai servizi degli artigiani e dei mercanti romani.
In simili condizioni era difficile pensare che una minoranza militarizzata, anche se detentrice del potere politico e del monopolio delle armi, potesse conservare a lungo la propria separatezza, senza fare eventualmente ricorso a misure coercitive, quale, per esempio, una legislazione che ostacolasse espressamente gli scambi tra i due gruppi (come avevamo fatto invece i goti),
Di simili iniziative non si riscontra traccia e ben presto si ebbero, tra l’altro, matrimoni misti.
Una spinta determinante alla graduale fusione etnica all’interno del regno tra longobardi e romani, che accelerò i processi di avvicinamento testé accennati, fu costituita dalla conversione dei primi al cattolicesimo, completatasi nel corso del secolo 7. e ufficialmente sancita, al vertice, dal ripudio dell’arianesimo da parte di re Ariperto nel 653.
Tale evoluzione è confermata anche dall’abbandono, proprio alla fine del secolo 7., dell’uso di seppellire con il corredo funerario, a riprova che era stato ormai superato ogni residuo retaggio pagano della stirpe, del resto funzionale a un assetto sociale e a un’identità di gruppo che si erano completamente trasformati.
L’avvenuta fusione è misurabile pure tramite l’analisi di altri elementi, quali la commistione dei nomi propri, con i longobardi che ne adottarono di romani e cristiani e i romani che ne impiegarono a loro volta germanici, o la condivisione della medesima lingua: nell’8. secolo il longobardo sembra essere scomparso dall’uso.
Nello stesso secolo, al tempo di re quali Liutprando, su cui si tornerà, il superamento delle barriere, non solo culturali ma anche giuridiche, appariva ormai definitivamente compiuto e l’intera società del regno mostrava di avere acquisito una fisionomia del tutto nuova.
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Cap. 4. Forme di insediamento e organizzazione del territorio

La gens Langobardorum che scese in Italia era organizzata come un esercito in marcia, cioè in distaccamenti militari di exercitales-arimanni, verosimilmente legati fra loro anche da vincoli di parentela e subordinati a un capo (il dux) al quale giuravano fedeltà e ai cui ordini combattevano.
Il termine fara è stato a lungo interpretato da molti studiosi come un equivalente di Sippe, che designava il gruppo parentale germanico, anche sulla scorta di una testimonianza di Paolo Diacono che traduceva la parola longobarda  come “generatio vel linea”.
In realtà il vocabolo sembra doversi ricondurre piuttosto a faran, o fahren, equivalente del latino expeditio, e va inteso quindi come indicante, etimologicamente, un distaccamento militare che si separava dal corpo della gens per partecipare a una spedizione.
Per alcuni tale struttura, disegnata su assetti tradizionali, era stata ulteriormente elaborata dai longobardi in occasione della loro militanza nell’esercito imperiale in veste di foederati e fu assunta in modo naturale nel momento della grande impresa Italia.
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Concettualmente la dimora del longobardo, detta con termine latino curtis, costituiva un’unità soggetta alla potestà indiscussa del capo famiglia ed era coperta da una fortissima immunità giuridica, per cui la violazione del suo recinto da parte di estranei rappresentava un reato di straordinaria gravità, punito con la massima durezza.
Chi vi faceva ingresso senza essere autorizzato e senza un valido motivo poteva essere ucciso legittimamente dai residenti.
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Un esempio, tra i diversi possibili, di come l’impressione fornita da un testo scritto abbia generato un’interpretazione imprecisa può essere fornito dalla vicenda di Padova, uan città di primaria importanza nel Veneto romano, che secondo Paolo Diacono sarebbe stata distrutta dalle fondamenta dal re Agilulfo, con conseguente fuga in massa dei suoi abitanti.
In realtà la fonte impiegava nella circostanza una terminologia convenzionale, letterariamente rappresentativa della violenza di un’aggressione di barbari, parlando di un centro urbano divorato dalle fiamme e “raso al suolo” per ordine del re; un esito smentito invece da differenti riscontri, dal lato archeologico alla consapevolezza che non molto tempo dopo Padova riacquistò un ruolo di primo piano negli equilibri regionali, recuperando in fretta abitanti e funzioni, come non sarebbe stato possibile se le sue strutture fossero state rovinosamente distrutte.
Più in generale, per i secoli dell’alto Medioevo, e anche al di là della sola epoca longobarda, viene ora sottoposto a revisione il concetto stesso di decadenza urbana, che si dimostra troppo palesemente condizionato dai modelli di raffronto, storici o ideali, di volta in volta assunti, soprattutto quello della città antica.
Per l’età altomedievale si preferisce adesso parlare di fenomeni di ridefinizione degli spazi urbani in ragione delle mutate esigenze  abitative del tempo, anche per il forte calo demografico complessivo, con il verificarsi di fenomeni di selezione, di trasferimento di funzioni, di cambio d’uso delle varie superfici e costruzioni, che non appaiono più interpretabili come casi di semplice abbandono e di regresso.
Il confronto sistematico fra le testimonianze scritte e quelle archeologiche, inoltre, denuncia la difficoltà, e al contempo la necessità, di utilizzare dati per loro natura disomogenei, che spostano continuamente l’analisi per il tema qui considerato dal piano delle rappresentazioni culturali e dei modi di sentire e descrivere a quello delle concrete strutture materiali e della loro evidenza oggettiva.
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Con l’avanzare del processo di romanizzazione e di cristianizzazione, che iniziò molto presto, già nel secolo 7. le tombe longobarde risultano indistinguibili con sicurezza da quelle della popolazione romana (l’unico indicatore certo resta l’eventuale presenza di armi), fino alla totale scomparsa dei corredi, come detto, alla fine del secolo.
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In ogni caso, la sovrapposizione dei diversi indicatori permette di tracciare una carta che mostra una maggiore densità insediativa per il regno lungo tutta la valle del Po, nella valle dell’Adige, strategicamente rilevante, in Friuli e nei territori di particolari ducati quelli di Verona, Trento, Brescia, Reggio Emilia, Torino.
Al di fuori del regno, siti importanti si trovano nei ducati di Spoleto (Castel Trosino, Nocera Umbra) e id Benevento.
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Cap. 5. La costruzione del regno

Durante Il regno di Agilulfo (591-615) e della sua consorte Teodolinda si ebbe un primo consapevole, anche se faticoso, tentativo da parte dei monarchi longobardi di connotare il proprio potere in termini che trascendessero la sola tradizione della stirpe, facendo ricorso pure al bagaglio concettuale e lessicale proprio del modello ellenistico-cristiano della sovranità imperiale.
La ricerca di moduli teorici e “propagandistici” estranei ai valori radicati nella storia e nel mito della gens Langobardorum rispondeva a una duplice esigenza: per un verso quella di emanciparsi, quanto più possibile, dal condizionamento posto dall’assemblea del populus-exercitus, cioè in sostanza dall’aristocrazia di stirpe, depositaria di ogni fonte del potere; dall’altra parte quella di superare una caratterizzazione solo etnica dell’autorità regia, alla ricerca, piuttosto, di una sua definizione territoriale, capace di renderla accettabile anche dai sudditi romani.
Così, ad esempio, nella corona del tesoro del duomo di Monza appariva inciso il titolo di rex totius Italiae anziché quello di rex Langobardorum e il figlio ed erede di Agilulfo, Adaloaldo, venne battezzato nella chiesa di San Giovanni a Monza e poi incoronato all’interno del circo di Milano con uan cerimonia dal forte simbolismo d’imitazione imperiale, dato che il circo nella tradizione romana (e così pure a Bisanzio) si configurava come luogo non solo di spettacoli e gare ma anche di espressione di una specifica comunicazione politica, celebrando l’incontro ritualizzato fra il princeps che compariva nella tribuna a lui riservata tra i simboli del potere e il popolo acclamante assiso sugli spalti.
L’avvicinamento ai romani durante l’età di Agilulfo, nello sforzo di definire su basi più ampie e solide l’autorità regia, si manifestò pure nella ricerca della collaborazione di consiglieri romani, che restano, come detto, poco individuabili, eccetto l’ecclesiastico Secondo di Non, padre spirituale di Teodolinda.
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Lo sviluppo della monarchia longobarda nel corso di tutto il secolo 7. fu segnato da un processo di graduale, seppur contrastato, consolidamento della potestas del re, che avvenne attraverso strumenti quali un più sicuro controllo militare del territorio, all’interno e verso l’esterno, l’accentuazione della tendenza all’ereditarietà della carica in senso dinastico (comunque mai raggiunta), in sostituzione dell’antica consuetudine dell’idoneità personale, tramite conquista militare del potere o legittimazione mediante il matrimonio con la vedova o una figlia del predecessore, l’incremento del patrimonio regio, potenziato anche dalle misure di legge che rendevano il fisco regio destinatario  di una quota rilevante delle composizioni, cioè delle somme di indennizzo previste per una vasta serie di reati.
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Tuttavia, se simili coloriture letterarie condizionano il modo di raccontare una vicenda, dando spazio anche a elaborazioni di fantasia, non escludono alcuni elementi concreti: in primo luogo il fatto che durante i due secoli di vita del regno longobardo in Italia le lotte di palazzo, combattute entro la corte, e la costituzione violenta di un re in carica con un nuovo monarca non furono certo rare; inoltre, l’impressione che l’insistenza su una siffatta maniera di rappresentare i conflitti a corte rispondesse a una percezione diffusa, condivisa da chi scriveva e dal pubblico dei lettori, di quali fossero i modi e i luoghi di espressione della lotta politica.
La corte, insomma, era vista non solo come la struttura di sostegno e la sede d’esercizio dell’autorità del re, ma anche come il principale teatro dello scontro per il potere.
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Gli anni di governo del re Rotari (636-652) costituirono un momento di particolare significato nell’opera di consolidamento territoriale e politico del regno.
Innanzitutto egli dimostrò di saper imporre con la forza la disciplina ai duchi più irrequieti; inoltre, si rese protagonista della campagna militare contro i bizantini più impegnativa e fortunata dai tempi di Agilulfo, strappando territori all’impero sia a ovest, con la conquista della costa ligure, sia a est, dove l’avanzata nel cuore del Veneto respinse gli imperiali nella regione entro il solo ambito lagunare, scacciandoli dalla terraferma.
In seguito alle operazioni condotte da Rotari trovò uan sistemazione più netta e stabile l’assetto geopolitico della penisola italiana, già delineatosi nei suoi tratti essenziali all’indomani dell’invasione.
A circa settantacinque anni da questa, l’Italia risultava sostanzialmente bipartita in modo più omogeneo fra la dominazione longobarda e quella imperiale, con la prima che si estendeva su quasi tutto il nord e la Toscana (cioè il regno propriamente inteso), oltre ai ducati autonomi di Spoleto e di Benevento, e la seconda che comprendeva, da nord a sud, le lagune venetiche, Ravenna e la regione esarcale, la Pentapoli (nelle odierne Marche) con il corridoio di castelli appenninici che portava a Roma e la porzione del Mezzogiorno esterna al ducato beneventano (vale a dire, tratti delle coste campana, con Napoli e Amalfi, e pugliese, specie nel Salento, la Calabria meridionale e la Sicilia).
Rispetto all’epoca ostrogota, durante la quale l’intero territorio della penisola aveva conosciuto un governo unitario, così come era accaduto già in età romana, con i longobardi si verificò uan frantumazione politica che era destinata a incrementarsi e a perpetuarsi fino al risorgimento e all’unità nazionale sotto i Savoia nel 19. secolo.
Va tuttavia tenuto presente che i confini tra le regioni longobarde e quelle imperiali, in ambiti quali quello veneto, quello emiliano-romagnolo, quello umbro-marchigiano-laziale, una volta superate le contingenze di emergenza militare ebbero un carattere di sostanziale permeabilità, lasciando ampio spazio alle frequentazioni tra gli uomini delle due parti e ai flussi di merci e di modelli culturali.
Come emerge sempre più dalle ricerche in corso sull’argomento, le frontiere dell’Italia altomedievale non funzionarono affatto quali barriere capaci di separare in modo rigido le dominazioni diverse, ma figurarono piuttosto come fasce di territorio fluide e indeterminate, anche per la scarsa capacità di un loro controllo puntuale, anche per la scarsa capacità di un loro controllo puntuale, aperte agli scambi e pronte, in taluni casi, a proporsi addirittura come tessuto connettivo tra realtà politicamente distinte ma socialmente ed economicamente assai vicine.
Le fonti serbano traccia, per esempio, di patti, nell’area veneta, che consentivano agli allevatori di ciascuno die due lati del confine di attraversarlo per portare su pascoli migliori le proprie bestie.
I rapporti economici attraverso la frontiera vennero proibiti per legge solo durante la guerra, come fece Astolfo in concomitanza con la sua campagna militare contro l’esarcato.
Tutto ciò non significa che non ci fosse affatto lo scrupolo di proteggere il confine da ingressi indesiderati: le leggi prescrivevano che chi entrava in Italia dal regno dei franchi per recarsi in pellegrinaggio a Roma, lungo l’itinerario della futura via Francigena, doveva munirsi di un lasciapassare da mostrare a ogni richiesta lungo il cammino.
Chi violava la frontiera per spiare, o chi faceva entrare le spie da oltre confine, era colpito da durissime sanzioni.
Particolarmente tutelati erano i delicatissimi valichi alpini, porta d’accesso all’Italia per ogni invasore passato e futuro (longobardi inclusi).
Lungo la catena alpina i longobardi riutilizzarono il sistema di chiuse già introdotto dai romani e sfruttato dai romani e sfruttato dai goti, che aveva il compito di serrare le vie d’accesso sui passi montani, controllando gli ingressi e, in caso di invasione, cercando di rallentare l’avanzata del nemico dando il tempo agli eserciti stanziati nella pianura retrostante di preparare le difese.
Fu proprio violando una chiusa alpina nella Val di Susa che Carlo magno nel 774 penetrò nel regno, fino a prendere Pavia.
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Le leggi raccolte nell’Editto si applicarono inizialmente ai soli longobardi, mentre i romani del regno continuarono a regolarsi secondo il proprio diritto.
Si può immaginare che, come con gli ostrogoti, particolarmente delicate dovessero risultare le cause miste, sempre più frequenti nel corso del tempo con l’incremento dei rapporti tra i due gruppi etnici, incerte nella loro risoluzione ed esposte a possibili arbitrii da parte della stirpe dominante.
L’ingresso dei romani nell’esercito e di conseguenza nel ceto dirigente, concomitante con la ridefinizione su base non più etnica dell’intera società del regno, condusse però nel secolo 8. all'estensione della validità dell’Editto anche ai romani, con carattere territoriale.
Ciò non significò peraltro l’uniformità giuridica piena, dal momento che continuarono a coesistere nel territorio del regno altri sistemi normativi, tra cui quello romano, che restava il diritto del clero.
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A partire dal 666 si verificò pure l’ultimo deciso tentativo da parte bizantina di rientrare in possesso di almeno una parte dei territori italiani occupati dai longobardi, allorquando lo stesso imperatore Costanzo 2. sbarcò in Puglia e mise sotto assedio Benevento.
Le scarse risorse militari e finanziarie su sui il princeps poteva contare e le pronta reazione del re Grimoaldo, che scese subito nel suo ex ducato alla testa di un forte esercito, costrinsero Costante a riparare dapprima a Napoli, poi a Roma e infine a Siracusa, dove fu assassinato da un uomo del suo seguito nel 668.
Il fallimento del tentativo di Costante confermò come per l’Impero fosse ormai impossibile sperare di riprendersi le regioni perdute in Italia, dovendo accontentarsi piuttosto solo di puntellare i residui possessi, sparsi dal nord al sud specie lungo le coste, che a loro volta si governavano con crescenti margini di autonomia da Costantinopoli.
Un ulteriore fattore della politica dei re longobardi del 7. secolo fu la loro ricerca di un nuovo atteggiamento nei riguardi della chiesa cattolica, non solo, com’è comprensibile, da parte dei monarchi che abbracciarono il cattolicesimo nella seconda metà del secolo, quali Ariperto (653-661), Pertarito (671-688), ma perfino a opera di alcuni loro predecessori ariani, come Arioaldo (625-636).
Una simile attenzione si rese concreta nel susseguirsi di fondazioni di nuove chiese e monasteri per iniziativa regia, oltre che nella protezione loro accordata, fino alla sconfessione ufficiale dell’arianesimo con Ariperto, che guadagnò ai re longobardi la piena solidarietà delle istituzioni episcopali e monastiche, prospettando nuove forme di collaborazione istituzionale.
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Cap. 6. L’ottavo secolo: apogeo e rovina

L’ottavo secolo fu decisivo nel perfezionare i diversi processi di trasformazione della società longobarda e di consolidamento delle istituzioni del regno che erano in atto da tempo, giungendo alla definizione di assetti inediti e originali.
Contemporaneamente, un repentino mutamento del quadro politico generale, in termini di buona misura imprevedibili, ebbe quale esito una brusca svolta, l’alleanza in funzione anti longobarda tra il papato e il regno dei franchi, che portò infine, nel 774, alla conquista del regnum Langobardorum da parte del franco Carlo.
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Lo sforzo di consolidamento del potere regio nel corso del secolo ottavo si espresse, in larga misura, oltre che in termini di elaborazione concettuale e nel nuovo rapporto con la chiesa, per mezzo di un’opera che mirava al contempo a creare strutture burocratiche più efficienti e centralizzate e a disciplinare, con la forza o con altri mezzi di controllo politico, le solite spinte centrifughe locali, mai sopite.
Il palazzo di Pavia venne sempre più concepito come un centro amministrativo e id governo, secondo il modello romano, nel quale operavano uffici di cancelleria progressivamente strutturati, che facevano ricorso alla documentazione scritta in precedenza assai poco utilizzata dai longobardi.
Ora le carte venivano prodotte, conservate e sfruttate in misura crescente, anche come prova nei processi.
I vari ufficiali pubblici, centrali o periferici, tendevano ad avere profili definiti e mansioni precise, anche se non è certo possibile pensare a una gerarchia ordinata che rispecchiasse il rigore di quella romano-imperiale o bizantina.
Malgrado l’indiscutibile volontà ordinatrice della monarchia e l’immagine di una qualche coerenza che emerge soprattutto dalle fonti normative, la verifica delle situazioni concrete che si può realizzare attraverso i documenti mostra, al contrario, un quadro ricco di asimmetrie, sovrapposizioni, buchi e apparenti contraddizioni, che non costituiscono un’anomalia rispetto a una piramide ben ordinata che è solo immaginaria (e che costituirebbe un anacronismo, per le condizioni dell’epoca), ma che denunciano piuttosto l’inevitabile natura sperimentale di realizzazioni graduali e non da tutti condivise.
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Simili forme di controllo rimanevano, però, pur sempre deboli, consentendo alle aristocrazie locali di continuare a perseguire le proprie strategie, con sufficiente libertà d’azione e spiccata empiria, giocando sugli equilibri politici generali in continua evoluzione, con il crescente ruolo svolto, accanto all’impero, dal papato; e mantenendo come obiettivo di fondo la salvaguardia dei propri interessi personali e della propria identità.
Esemplare risulta al riguardo, tra gli altri casi, la condotta tenuta nell’ultimo, convulso, trentennio di vita del regno longobardo in Italia dai beneventani e dagli spoletini, che alternativamente si collocarono al fianco dei re pavesi oppure fecero riferimento, all’opposto, al nascente asse franco-pontificio.
In uan tale prospettiva non deve sorprendere quindi se, mentre nel 756 i longobardi di Benevento avevano preso parte all’assedio di Roma insieme con il re Astolfo, appena due anni più tardi venivano presentati, nelle parole rivolte dal papa Paolo 1. al re franco Pipino, quali ottimi alleati su cui poter contare contro Pavia, tanto da lamentare l’aggressione contro Benevento compiuta dal nuovo re Desiderio, che aveva imposto al vertice del ducato un proprio fedele.
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Le emergenze per Bisanzio erano allora costituite piuttosto dal dilagare in oriente degli arabi, accelerato dal collasso dell’Impero sassanide avvenuto nel secolo precedente, e dalla pressione nei Balcani di bulgari e slavi, che portavano una minaccia diretta alla stessa capitale.
Per queste ragioni l’investimento di risorse finanziarie e militari in Italia dovette necessariamente essere ridotto al minimo, lasciando l’incombenza di fronteggiare i longobardi alle realtà bizantine locali, le quali, da parte loro, pur se continuavano a riconoscersi politicamente nell’impero, avvertivano ormai in maniera evidente tutta la propria lontananza dal cuore dello stesso e vivevano in uno stato di sempre più spinta autonomia di fatto.
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Il crollo dell’esarcato, rimuovendo l’estremo cuneo imperiale nel cuore dell’Italia longobarda, lasciò campo aperto a evoluzioni ulteriori dagli esiti potenzialmente ancor più radicali: il regno aveva ora l’opportunità di estendersi a tutta la penisola, inglobando al proprio interno la stessa Roma.
Agli occhi dei papi non rappresentavano affatto garanzie rassicuranti al fede cattolica dei re longobardi e la loro pretesa di proporsi addirittura quali difensori della chiesa.
La soddisfazione per le cessioni al patrimonio di San Pietro effettuate da Ariperto e da Liutprando non bilanciava, nel racconto del Liber Pontificalis romano, l’angoscia per lo stringersi del cappio longobardo attorno a Roma, con uno stillicidio di occupazioni di città e di castelli.
Viva era la memoria di come Liutprando, nella sua campagna contro Spoleto e Benevento, avesse potuto agevolmente accamparsi nella piana compresa tra il Tevere, il Vaticano e Monte Mario, minacciando i romani e venendo placato solo dall’intervento del papa, in conformità con il solito paradigma introdotto da Leone con Attila e rinnovato da Gregorio Magno con Agilulfo.
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Di fronte alla crescente minaccia longobarda, constatata la debolezza di Bisanzio con cui si era oltretutto in urto sul culto delle icone, ai papi non era rimasto allora che cercare l’aiuto dell’unico interlocutore presente sulla scena che apparisse in grado di soccorrerli in maniera efficace; vale a dire il regno dei franchi, nel quale il maestro di palazzo di Austrasia Pipino il Breve aveva da poco soppiantato la dinastia dei Merovingi.
Da costui, a Ponthion, si era recato personalmente il papa Stefano 2., nel 754, per sollecitare un intervento dei franchi in Italia, allo scopo di strappare ai longobardi tutti i territori già appartenuti all’esarcato e di affidarli alla chiesa di Roma, che si proponeva ormai come la sostituta dell’impero in Italia nella rappresentanza e nella tutela delle popolazioni romane.
Quest’ultimo attributo rivestiva a quest’epoca un’accezione meramente politica, cioè identificava coloro che abitavano province già imperiali da poco occupate dai longobardi, come l’esarcato e la Pentapoli, per contro al regno longobardo propriamente inteso, e non aveva dunque più alcuna connotazione etnica, dal momento che, coem si è detto, gli stessi “longobardi” del tempo erano in realtà un ceto dirigente etnicamente misto.
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Peraltro, a differenza di quanto era occorso in Italia con la breve parentesi ostrogota, con i longobardi si ebbe la genesi di una nuova società e di una nuova cultura, almeno in un’assai ampia porzione del paese.
La conclusione del regno longobardo non ebbe un carattere di inevitabilità nei modi in cui si svolse, ma scaturì piuttosto dalla combinazione di fattori contingenti, per il precipitare di fenomeni di larga scala che andavano maturando da tempo ma che conobbero d’un tratto accelerazioni improvvise e svolte imprevedibili.
Si combinarono insieme, nel giro di pochi decenni, l’impossibilità per il papato di superare l’antica diffidenza politica e la sostanziale estraneità culturale verso i longobardi, malgrado la loro conversione al cattolicesimo, il definitivo disimpegno dall’Italia dell’Impero bizantino, che si accompagnava al processo di crescente divaricazione politica e culturale fra le sue province italiche e il suo baricentro greco-orientale, l’improvvisa saldatura d’interessi fra Roma e la dinastia franca dei Pipinidi, bisognosa a sua volta della legittimazione dei pontefici per giustificare la propria presa del potere violenta a danno dei Merovingi.
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Le diverse parti della penisola italiana si trovarono dunque sottoposte, in seguito all’avvento dei franchi, a dominazioni politiche distinte, con il nord assorbito nella sfera carolingia e il sud ripartito fra longobardi e bizantini (prima dell’ulteriore sopraggiungere degli arabi in Sicilia), venendo così a far riferimento ad ambiti anche culturali distinti.
Tutto ciò, comunque, non impedì affatto gli scambi e gli incroci di esperienze e modelli istituzionali, sociali, economici e culturali di diversa matrice, a formare un quadro d’insieme particolarmente ricco e fertile.
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Cap. 7. Il Ducato di Spoleto

Se in momenti del genere non mancarono motivi di contrasto tra i papi e i duchi di Spoleto, è anche vero, a riprova dell’estrema fluidità degli schieramenti in campo, che nello stesso giro di anni gli spoletini intervennero in armi al Ponte Salario, con altri longobardi delle regioni limitrofe e a fianco dei cittadini romani, per difendere il papa Gregorio Secondo dal tentativo di cattura messo in atto dalle forze imperiali, decise a costringerlo ad accettare i decreti iconoclastici.
E, da qualche tempo dopo , lo stesso Transamondo, cioè colui che aveva aggredito Gallese, e che aveva giurato fedeltà al re Liutprando attorno al 729, riparò a Roma, ponendosi sotto la protezione del  pontefice Gregorio Terzo e del duca di Roma Stefano, quando Liutprando marciò su Spoleto per imporre al vertice dei ducato un proprio uomo, do nome Ilderico.
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Nel momento del collasso del regno dei longobardi e della sua conquista per mano del franco Carlo, mentre il duca di Benevento Arechi si autoproclamava erede della tradizione politica autonoma dei longobardi assumendo il titolo di princeps e garantendo l’indipendenza della sua gente, le aristocrazie spoletine, preoccupate piuttosto di salvaguardare la propria egemonia sociale e politica locale, non trovarono altra soluzione che quella di individuare nel papato romano il proprio termine di riferimento e di garanzia.
Si trattò di una scelta che, se in buona sostanza, risultava priva di alternative in quella specifica contingenza, era tutt’altro che nuova nella condotta dei longobardi di Spoleto, i quali a più riprese nel corso del secolo ottavo si erano rivolti a Roma quando avevano voluto controbilanciare la montante pressione dei re di Pavia, in un gioco di equilibri sempre precari, ridefiniti volta per volta.
Alla fine del 775 Ildeprando di Spoleto  si sganciò dall’alta protezione del papa, che pure egli stesso aveva ricercato, per subordinarsi direttamente alla potestà del nuovo dominatore Carlo.
I missi del re franco ricevettero i sacramenta del duca longobardo.
Solo nel 781 il papa avrebbe formalmente rinunciato a Spoleto in cambio di una porzione della Sabina, il cosiddetto patrimonium Sabinense, il cui scorporo danneggiò non poco sul piano economico diversi individui eminenti del ducato spoletino, che vi avevano loro proprietà.
Nel 779 Liutprando si recò di persona da Carlo a Vircinianum (Verzenay, vicino a Reims) per ribadire la propria fedeltà al sovrano.
Con questo atto il vecchio ducato longobardo di Spoleto cessò la propria esistenza autonoma, sempre difesa in passato con tenacia e a ogni costo, seppur con fortune alterne, di fronte ai re longobardi di Pavia, per sottomettersi al potere dei franchi e inserirsi nel nuovo ordine politico e istituzionale carolingio.
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Cap. 8. La “Langobardia” meridionale

Con Grimoaldo si ebbe forse un’opportunità di più piena integrazione territoriale di tutta l’Italia longobarda, compresi cioè i due ducati autonomi di Spoleto e di Benevento, ma essa non venne colta e svanì del tutto con la sua morte per un incidente di caccia e l’ascesa al trono dell’esule Pertarito.
In questa vicenda si espressero ancora una volta i cronici antagonismo tra i diversi schieramenti dell’aristocrazia, un blocco friulano legato a Benevento da una parte e uno occidentale (sostenitore di Pertarito), lungo l’asse Pavia-Asti, dall’altra, che sempre impedirono un assetto per davvero unitario del potere longobardo e un pieno rafforzamento in senso dinastico della carica regia.
Tra la fine del secolo settimo e gli anni Trenta dell’ottavo alcuni duchi di Benevento, Romualdo 1., Gisulfo 1. e Romualdo 2., aumentarono la superficie del ducato conquistandosi Brindisi e Taranto, sottoponendo quindi alla propria autorità quasi tutta la Puglia, e avanzando nel Lazio, fino alla valle del Liri.
Da questo momenti i bizantini si accontentarono di difendere il poco che loro rimaneva (Napoli e le costiere sorrentina e amalfitana, il Salento, la Calabria meridionale) e non costituirono più una minaccia per i duchi, i quali dovettero piuttosto guardarsi dalle pretese dei vari re longobardi, a cominciare da Liutprando e fino a Desiderio, di portare Benevento sotto il loro diretto controllo.
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Contro la nuova realtà longobarda del Mezzogiorno si appuntò subito l’ostilità dei pontefici, che stimolarono Carlo magno a condurre una spedizione al sud nel 786/787.
Arechi si asserragliò subito a Salerno e convinse il franco a ritirarsi dopo averne riconosciuto la sovranità e avergli concesso un tributo e dato in ostaggio il proprio figlio di nome Grimoaldo.
Allo stesso tempo però Arechi riallacciò i rapporti con Costantinopoli, cui promise fedeltà: s’inaugurò allora una lunga stagione in cui Benevento per salvaguardare la propria indipendenza dovette giocare costantemente su due sponde, barcamenandosi tra i due grandi imperi con spregiudicato pragmatismo.
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Una nuova fase della vicenda storica della Longobardia meridionale, ormai tripartita fra Benevento, Salerno e Capua, si aprì in seguito alla morte di Ludovico 2., nell’975, e all’affievolirsi dell’ascendente carolingio sul mezzogiorno d’Italia, dopo anni di assidua presenza e pure di collaborazione con i longobardi in funzione anti saracena.
Gli arabi erano diventati un problema per l’Italia meridionale almeno dalla metà del 9. secolo, quando, dopo aver militato come mercenari per i principi longobardi in lotta fra loro, avevano preso ad agire in proprio, razziando diffusamente e anche conquistando una città dell’importanza di Bari, che era stata ordinata in emirato.
Ludovico 2. aveva condotto diverse spedizioni anti saracene nel Mezzogiorno, con il sostegno dei longobardi, anche se alla fine, entrato in urto con loro, era stato tenuto prigioniero per quaranta giorni a Benevento.
Il vuoto politico lasciato nel sud dai Carolingi nell’ultimo quarto del 9. secolo fu colmato da Bisanzio, cui allora soprattutto le città pugliesi si rivolsero per essere protette dalla costante minaccia araba.
Tra l’881 e l’883 i saraceni avevano razziato anche i due grandi monasteri di San Vincenzo al Volturno e Montecassino.
La flotta di Costantinopoli riuscì allora a riprendere il controllo di numerosi centri costieri in Puglia (tra cui Taranto) e in Calabria, mentre truppe di terra dell’impero aiutarono Guaimario 1. di Salerno contro la roccaforte di Agropoli.
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Nella seconda metà del 10. Secolo, un mutamento del quadro internazionale, con l’affermazione in Occidente della dinastia imperiale ottoniana, e il conseguente ennesimo riposizionarsi dei longobardi meridionali a fianco degli imperatori germanici e contro Bisanzio, coincise con al massima espansione dell’egemonia capuana sull’intero Mezzogiorno longobardo, grazie all’azione di Pandolfo Capodiferro (961-981).
Resosi longa manus di Ottone nell’Italia del sud, Pandolfo compattò sotto il proprio controllo tutta la Langobardia, non solo acquisendo Salerno, ma anche limitando l’influenza dei pontefici romani tramite la creazione delle metropoli ecclesiastiche di Capua e di Benevento.
Le chiede del Mezzogiorno, prima incardinate direttamente alla Sede di Roma, trovarono ora un termine di riferimento negli episcopati che coincidevano con le città principesche e che erano magari retti da congiunti del principe stesso (come Giovanni, fratello di Pandolfo, imposto come presule di Capua).
Dopo che Ottone ebbe concesso al fedelissimo Pandolfo anche il ducato di Spoleto (che rimase ai capuani-beneventani fino al 982) e la marca di Camerino, il longobardo si trovò a essere il signore più potente di tutta l’Italia centro-meridionale.
Peraltro nemmeno l’energica opera accentratrice di Pandolfo, abile nello sfruttare la congiuntura internazionale a proprio favore, riuscì a contrastare le spinte autonomistiche dal tempo in atto e negli anni 981-982 anche i principati tornarono a separarsi.
Con la sua morte, infatti, la sua vasta creazione politico-territoriale unitaria andò in frantumi: sia a Salerno sia a Benevento i suoi eredi designati furono cacciati e sostituiti da esponenti locali e la stessa Spoleto fu consegnata a Transamondo 3., il figlio del conte di Chieti.
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La vera novità del quadro italo-meridionale del tempo era tuttavia data dalla comparsa sulla scena di un protagonista destinato ben presto a far saltare ogni equilibrio e a provocare la rovina finale dei longobardi.
Dalla fine del 10. secolo cavalieri normanni erano stati reclutati dai vari principi longobardi per essere impiegati come mercenari nelle incessanti guerre intestine ai due principati e al ducato capuano e contro i bizantini.
I normanni avevano combattuto al soldo di tutti ma avevano poi assunto iniziative autonome, consapevoli sia delle grandi ricchezze e quindi delle opportunità di bottino che il Mezzogiorno, malgrado tutto, offriva sia della debolezza militare e politica dei loro stessi reclutatori.
Soprattutto dopo la vittoria da loro riportata sugli eserciti del papa a Civitate nel 1053 e l’immediatamente successiva alleanza con la chiesa di Roma, ai normanni si offriva l’opportunità di procedere alla conquista di un sud che, dissanguato dalle ripetute guerre e indebolito dalla frammentazione politica, appariva ormai alla loro mercé.
Capua cadde nelle loro mani nel 1057, quando ottenne il controllo della città il conte normanno Riccardo di Aversa.
A Benevento nel 1053 il principe Landolfo 6. si sottomise al papa Gregorio 7., portando a definitiva realizzazione un orientamento già delineatosi da almeno un ventennio.
La città, originaria sede del ducato longobardo e cuore dell’intera Langobardia meridionale, passò così sotto il dominio diretto della chiesa di Roma, che la governò tramite rettori scelti tra il patriziato locale.
L’ultima a cedere fu Salerno, difesa fino al 1076 da Gisulfo 2., ma infine, rimasta ormai isolata, costretta ad arrendersi nelle mani di Roberto il Guiscardo, che l’affidò al figlio, il duca Ruggero Borsa
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Cap. 9. I longobardi nella storia d’Italia

Il periodo della storia d’Italia compreso tra la fine dell’Impero romano d’Occidente nel 476 e la conquista delle regioni centro-settentrionali della penisola già appartenute al Regno dei longobardi a opera di Carlo Magno nel 774 ha tradizionalmente goduto nel suo complesso di un limitato interesse storiografico e di una valutazione nella sostanza negativa, in quanto bollato come un’epoca non solo di generale declino nei diversi campi delle istituzioni, dell’economia, delle strutture sociali, della cultura, rispetto al precedente della Roma imperiale, ma anche di arretratezza in confronto alle posteriori e più significative realizzazioni originali del Medioevo italiano, dalla civiltà comunale fino allo splendore dell’Umanesimo e del Rinascimento.
L’arco cronologico che comprese il breve governo del capo barbaro Odoacre, il regno dei goti fondato da Teodorico l’Amalo e il più lungo regno dei longobardi (cioè, in totale, dall’anno 476 all’anno 774), con la minima parentesi della restaurazione del potere imperiale per iniziativa di Giustiniano tra il 554 e il 568, destinata a perpetrarsi in seguito solo in alcune regioni della penisola, è stato, insomma, a lungo ridotto a cupo intervallo nel fluire della storia patria, a una vera e propria “epoca buia”, esito dell’”assassinio” della civiltà romana per mano dei barbari invasori, incapaci di costruirne uan nuova e di lasciare alcuna eredità significativa ai secoli successivi.
Solo una volta superato tale diaframma la vicenda storica della penisola avrebbe ripreso a scorrere verso nuovi brillanti risultati, frutto anche della riscoperta dell’eredità classica in età umanistica.
Una simile lettura dell’alto Medioevo “barbarico” dell’Italia è stata innanzitutto influenzata, in misura determinante, dal pregiudizio circa l’indiscussa eccellenza dell’antichità romana, in senso quasi più assoluto che storicamente  determinato, spesso considerata quale fondamento della tradizione italiana più autentica.
Basti pensare, a questo proposito, all’esaltazione della  classicità romana compiuta dal fascismo, pronto a indicare una pretesa linea di continuità diretta, perfino in termini razziali, fra gli antichi romani e gli italiani del secolo 20. e fra la politica, estera e interna, della Roma imperiale e quella del regime di Mussolini.
Inoltre, la riluttanza a formulare un giudizio obiettivo, scientifico, sull’età delle dominazioni barbare è stata conseguenza anche della singolare capacità di quei secoli di prestarsi a letture impropriamente attualizzanti: immediata è risultata infatti la creazione di un parallelismo più o meno consapevole tra l’”assoggettamento” degli italici dei secoli 5.-8. a stirpi “germaniche” quali quelle dei goti o dei longobardi e la subordinazione politica di buona parte dell’Italia agli austriaci nel secolo 19. o all’occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale.
In questo quadro d’insieme, il periodo longobardo, con tutte le complicazioni che presentò (il rapporto fra un’etnia immigrata dominante e una maggioranza romana politicamente subordinata, la bipartizione politica della penisola tra le regioni occupate dai nuovi arrivati e quelle rimaste all’impero, dopo lunghi secoli di unità, l’assunzione di un ruolo politico da parte del papato,  a difesa dei valori della romanità cristiana), da sempre si è prestato a deformazioni di prospettiva e di giudizio.
Ben nota è la lettura che ne è stata fatta durante il Risorgimento negli ambienti cattolico-liberali antiasburgici, immortalata in letteratura dalla tragedia di Alessandro Manzoni Adelchi, ambientata per l’appunto nell’Italia longobarda: l’asserita, ma in realtà inesistente, schiavitù dei romani sotto il giogo degli “occupanti” longobardi simboleggiava la sottomissione degli italiani del 19. secolo al potere della casa d’Asburgo.
Analogamente, in pieno Novecento gli echi della drammatica occupazione tedesca hanno indotto molti storici a respingere il contributo alla costruzione dell’identità italiana di un “popolo giovane” quale poteva essere etichettato quello longobardo sulla scia della repulsione per le teorie razziste del nazismo.
Non sono mancate nel tempo anche forme di rivalutazione della vicenda longobarda che rappresentarono attualizzazioni di segno opposto rispetto a quelle elencate in precedenza, ma che pure risultano altrettanto criticamente infondate.
Così Niccolò Machiavelli poté scorgere nella fine del regno dei longobardi per iniziativa dei papi e dei loro alleati franchi l’”occasione mancata” di una possibile unificazione politica della penisola sotto i re longobardi, nonché il primo episodio della per lui biasimevole prassi, costante nella storia d’Italia, di far intervenire gli stranieri (qui, i franchi) nella contesa politica nazionale.
Dal canto loro, gli illuministi dimostrarono di apprezzare molto l’azione da loro attribuita ai longobardi contro la chiesa (o, meglio, contro il papato) e le sue ingerenze temporali.
Insomma, siano stati visti come i potenziali artefici di un regno “italiano” unitario e i paladini di un’opposizione alla “prepotenza” pontificia, oppure, al contrario, come un corpo estraneo rispetto all’identità nazionale, mai assimilato e infine rimosso proprio dalla chiesa,  vera custode della tradizione romano-cristiana, e comunque percepiti sempre come rozzi al cospetto di una civiltà incomparabilmente superiore, i longobardi hanno di rado beneficiato di un’analisi che non fosse condizionata da tesi precostituite.
Le eccezioni in passato sono state scarse e si possono osservare soprattutto nel grande sforzo storiografico compiuto dal pioniere della longobardistica italiana, Gian Piero Bognetti, di proiettare la vicenda longobarda su uno sfondo più ampio della sola storia nazionale, quale incontro di civiltà su dimensioni europeo-mediterranee.
Oggi sul piano della ricerca scientifica l’attenzione per i secoli “barbari” della storia d’Italia appare più viva ed è contraddistinta da nuovi approcci epistemologici e metodologici, in gran parte interdisciplinari, coinvolgendo anche diversi studiosi stranieri (mentre gli altomedievalisti italiani restano nel complesso pochi).
A tutto questo concorrono sia una prospettiva più generalmente europea della ricerca, capace di scavalcare nello studio del passato i confini geopolitici attuali emancipandosi dalla pura storia nazionale, sia un miglior incrocio di fonti di natura diversa e di differenti specialismi.
Appare soprattutto importante la propensione ad adottare una nuova periodizzazione capace di abbattere lo steccato convenzionale tra l’età classica e il Medioevo, per considerare piuttosto una lunga epoca di transizione fra il mondo antico e quello medievale in cui le trasformazioni, le persistenze, le radicali innovazioni vengono ricostruite e valutate sui tempi lunghi, al di fuori degli stereotipi del tipo “continuità/decadenza”.
Con approcci di tal genere si svuotano di significato le vecchie classificazioni e convenzioni e si può rinnovare in profondità la ricerca, recuperando al grande fluire della storia d’Italia anche l’esperienza longobarda, senza pregiudizi di sorta.
Negli ultimi decenni in Italia uan rinnovata attenzione per i longobardi sembra testimoniata anche dal buon successo riportato presso un pubblico più vasto di quello dei soli specialisti di diverse mostre e iniziative loro dedicate, spesso anche con realizzazioni su scala locale e di piccola entità, o con espliciti fini didattici e divulgativi, a cominciare dalla grande mostra tenutasi in Friuli, tra Cividale e Passariano, nel 1990.
In questo fenomeno talora giocano anche, accanto alle più serie motivazioni scientifiche, facili mode pseudo-culturali o perfino qualche strumentalizzazione politica, per esempio quando si vogliono individuare asserite componenti “germaniche” delle regioni dell’Italia settentrionale per contro a quelle “romane” del centro-sud nel tentativo di contrapporre un’area settentrionale sviluppata perché parte integrante dell’Europa continentale, anche in forza di tali sue pretese radici etniche, a una meridionale, “naturalmente” appartenente a un contesto mediterraneo più arretrato.
Qualche volta la dicotomia fra origini “longobarde” e “romano-bizantine” si esprime anche nel gioco della contrapposizione di campanile, per esempio tra l’Emilia “longobarda” e la Romagna “esarcale”, o, al sud, tra le “longobardissime” Benevento e Salerno e la “bizantina” Napoli.
Contro le perduranti tendenze a una qualche distorsione (o banalizzazione) dei dati storici appare auspicabile non solo l’ulteriore intensificarsi della ricerca scientifica (con il sistematico incrocio tra il dato archeologico e le fonti scritte) ma anche un’opera di corretta divulgazione storica da parte degli studiosi professionisti, secondo un modello soprattutto anglosassone che in Italia è assai poco seguito.
A smentire ogni sovrastima del peso e della distribuzione delle componenti  etniche “germaniche” nella miscela dell’Italia odierna, basti poi rammentare, in primo luogo, come le stirpi barbare immigrate nella penisola, anche se acquisirono il predominio politico come i goti e i longobardi, costituirono pur sempre un’infima minoranza quantitativa rispetto alla massa della popolazione romana.
Inoltre, se il regno longobardo propriamente inteso occupò le regioni del centro-nord, si deve tener conto del fatto che, dopo l’avvento dei franco-Carolingi nel 774,  la tradizione politica longobarda autonoma continuò fino all’11. secolo nell’Italia meridionale, che fu quindi in una sua larga porzione longobarda per un totale di oltre quattrocento anni, il doppio del nord.
Ma soprattutto non va mai scordato che le istituzioni e la cultura dell’Italia longobarda ebbero un carattere non certo “etnicamente” puro e distintivo, ma al contrario misto, ibridato, con componenti diverse che non rimasero giustapposte ma si influenzarono a vicenda, adottando di volta in volta le soluzioni più adatte al mutare degli equilibri complessivi e alle esigenze di una società in perenne trasformazione.
Le più tradizionali letture dell’esperienza dei longobardi in Italia hanno in genere posto l’accento sulla drastica rottura degli assetti tardoromani prodotta dall’invasione di questa stirpe.
In qualche modo riecheggiando le testimonianze delle fonti del tempo, molti studiosi hanno insistito a loro volta sulla particolare estraneità culturale dei longobardi rispetto ai valori della civitas romana, sulla radicale disarticolazione dal oro causata degli ordinamenti sia civili sia ecclesiastici dei territori conquistati,  sulla rapacità dei loro saccheggi, sulle persecuzioni a danno dei romani, o almeno dei loro ceti dirigenti, e sull’esclusione di questi ultimi della vita politica del nuovo regno.
Con forza è stata marcata al contrapposizione fra gli ordinamenti delle regioni prese dai longobardi e di quelle conservate delle regioni prese dai longobardi e di quelle conservate dall’Impero.
Oggi, invece, l’interpretazione appare assai più articolata e delimitata semmai ai primi tempi dell’invasione gli effetti di più accentuato stravolgimento dei quadri tradizionali e l’antagonismo dell’exercitus barbaro invasore nei confronti della popolazione romana.
Per il resto del percorso storico del regno longobardo in Italia, attraverso tutto il 7. secolo e per quasi due terzi dell’8., si privilegia piuttosto l’individuazione di un processo di progressiva, anche se lenta e non priva di contrasti, acculturazione romano-cattolica della gens Langobardorum e di adattamento dei suoi istituti originari, che portò alla trasformazione degli stessi e a una sostanziale fusione etnico-culturale con l’elemento romano, fino a formare, come detto, una società del tutto nuova e significativa in sé.
Questa, se rimase travolta al nord dall’imposizione del dominio carolingio, fu libera di completare  le proprie dinamiche evolutive nella Langobardia meridionale, che si offre pertanto all’attenzione del ricercatori quale campo d’indagine particolarmente interessante e fertile.
I Longobardi devono essere recuperati alla storia d’Italia, e di tutta l’Italia, a pieno e giusto titolo, senza forzature e con rigore scientifico.
E il lascito, contenuto rispetto ad altre esperienze ma non irrilevante, da loro trasmesso alla multiforme identità del nostro paese ha trovato proprio di recente un’importante sanzione nel riconoscimento da parte dell’Unesco del sito seriale I Longobardi in Italia: i luoghi del potere, 568-774 d. C., con il correlato Centro di studi longobardi a Milano, che raccoglie e tutela sette luoghi (Cividale del Friuli, Brescia, Castelseprio, Spoleto, Campello sul Clitunno, Benevento, Monte Sant’Angelo), in cui la presenza di monumenti longobardi ancora integri continua a tramandare la memoria di quella antica stirpe e della sua vicenda italiana.
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