Cap. 1. La nascita degli Stati Uniti

Parola chiave

Costituzione

Quando si parla di Costituzione, si fa riferimento in genere alla “legge fondamentale dello Stato”, cioè al testo legislativo che contiene le norme fondamentali relative all’organizzazione dei poteri dello Stato poste alla base di qualsiasi altra legge.
In essa il cittadino trova affermati i suoi doveri e i suoi diritti nei confronti dello Stato.
Costituzione appare dunque un sinonimo di Carta costituzionale.
Benché questa definizione sia prevalente nell’uso comune, essa non è propriamente corretta.
Non tutti gli stati infatti hanno una costituzione scritta.
L’esempio più significativo in proposito è quello dell’Inghilterra.
Quando si parla di “Costituzione inglese” si fa riferimento non a uno specifico testo legislativo ma a un complesso di norme che hanno in parte carattere consuetudinario o convenzionale (derivano cioè da consuetudini affermatesi nel corso del tempo) e in parte sono scritte in testi emanati in periodi diversi.
In generale, nell’uso corrente, con il termine costituzione si fa riferimento a una tipologia di Costituzione largamente prevalente: la Costituzione scritta, la Carta costituzionale.
A l loro apparire, le Costituzioni scritte rappresentarono una profonda rottura col passato.
Le prime ad entrare in vigore furono quelle emanate dagli stati nordamericani: nel 1776 in Virginia, nel New Jersey, nel Delaware, nella Pennsylvania, nel Maryland e nel North Carolina; nel 1777 nella Giorgia e nello Stato di New York; nel 1778 nel Massachusetts.
Nel 1788 la maggioranza degli stati nordamericani, riuniti alla Convenzione di Philadelphia, ratificò la Costituzione degli Stati Uniti d’America, tuttora in vigore.
Nell’ultimo decennio del 18. secolo  videro invece la luce le Costituzioni francesi del 1791, del 1793(anno 1.), del 1795 (anno 3.) e del 1799 (anno 8.), che assegnava il potere esecutivo a Napoleone Bonaparte, divenuto Primo console.
In Italia la prima Costituzione scritta fu quella della Repubblica di Bologna (1796), seguita da quella della Repubblica cispadana (1797) e della Repubblica cisalpina (1797 e 1798), testi legati all’esperienza giacobina, che restarono in vigore per breve tempo.
Fu nel corso della prima metà dell’800, in concomitanza con la diffusione delle idee liberali e costituzionaliste, che la gran parte degli stati europei si dotò di carte costituzionali destinate a rimanere a lungo in vigore.
Secondo il “costituzionalismo”, un indirizzo politico-filosofico emerso nel ‘600 e affermatosi alla fine del ‘700, sono da considerare costituzionali solo gli stati che garantiscono la libertà dei cittadini e la divisione dei poteri; in assenza di radicate consuetudini, tale garanzia può essere assicurata solo da un documento scritto, solennemente adottato come legge fondamentale dello Stato.

Sommario

La colonizzazione inglese del Nord America, iniziata al principio del ‘600 e costantemente legata ad un’aspra lotta contro gli indiani, fu il prodotto dell’iniziativa di compagnie commerciali e dell’emigrazione di minoranze politiche e religiose (anzitutto puritani).
Alla metà del ‘700 i possedimenti inglesi comprendevano tredici colonie, tutte sulla fascia costiera atlantica.
L’economia delle colonie del Nord si fondava sulla coltivazione dei cereali e, nei centri urbani, su una vivace attività commerciale e cantieristica.
Nel Sud prevalevano le piantagioni di tabacco, con grandi proprietà basate sul lavoro degli schiavi.
Nel Centro, l’economia presentava un quadro differenziato e gli squilibri sociali erano più marcati.
Per tutte le colonie, alla forte dipendenza economica dalla Gran Bretagna faceva riscontro una notevole autonomia sul piano politico.
I vincoli delle colonie con la madrepatria erano sempre stati strettissimi.
Il contrasto da cui ebbe origine la lotta per l’indipendenza nacque, negli anni ’60 del secolo 18., in seguito alla decisione della Gran Bretagna di far pagare in misura crescente alle colonie i costi del proprio impero americano (che, dopo la guerra dei sette anni, si estendeva dal Canada alla Florida).
I coloni affermavano il principio che ogni tassa dovesse essere approvata da un’assemblea in cui fossero rappresentati i diritti dei tassati (e non era questo il caso del Parlamento britannico).
Su tale base la protesta di andò sempre più orientando verso la rivendicazione dell’indipendenza.
Nel 1774, dopo dure misure di ritorsioni inglesi, la ribellione divenne aperta.
Nel 1775 si formò un esercito di coloni, sotto il comando di Washington; l’anno successivo il Congresso continentale approvò la Dichiarazione d’indipendenza.
Sul piano militare le colonie avevano un netto svantaggio rispetto alle truppe inglesi, e inoltre erano divise al loro interno; notevoli anche i problemi finanziari della guerra contro la Gran Bretagna.
Poterono valersi della solidarietà dell’opinione pubblica europea e, soprattutto, dell’intervento in loro favore di Francia e Spagna.
Nel 1783 la Gran Bretagna riconobbe l’indipendenza delle tredici colonie.
Nel 1787 una Convenzione costituzionale dette vita ad uno Stato federale, e ad un sistema politico di tipo presidenziale basato sulla divisione e l’equilibrio dei poteri.
Il presidente della repubblica era a capo dell’esecutivo e indipendente dal legislativo (esercitato dalla Camera dei rappresentanti e dal Senato); il potere giudiziario era posto sotto il controllo di una Corte suprema.
La Costituzione doveva però essere approvata dai singoli stati dell’Unione: in questa fase si sviluppò un acceso dibattito tra federalisti (che erano favorevoli ad un forte potere centrale ed esprimevano gli interessi di commercianti, industriali e grandi proprietari terrieri) e antifederalisti (che esprimevano le esigenze dei ceti medio-bassi ed erano portatori di posizioni democratiche e “ruraliste”).
Prevalsero le tesi federaliste, pur se mitigate dall’approvazione di dieci emendamenti alla Costituzione.
Nel 1789 Washington fu eletto presidente.
Negli anni successivi, la politica economica di Hamilton, leader dei federalisti, suscitò l’opposizione dei proprietari del Sud e dei coloni dell’Ovest, che trovarono un punto di riferimento nel partito repubblicano-democratico, il cui esponente più autorevole fu Jefferson.
Contemporaneamente si precisavano i criteri dell’espansione verso ovest: le regioni di nuova colonizzazione acquisivano lo status di “territori” per poi trasformarsi, raggiunti i 60000 abitanti, in Stati dell’Unione.

Bibliografia

Le origini degli Stati Uniti / B. Bailyn, G. S. Wood. – Il Mulino, 1987
La rivoluzione americana: una rivoluzione costituzionale / N. Matteucci. – Il Mulino, 1987
La formazione degli Stati Uniti d’America / A. Aquarone…et al. – Nistri-Lischi, 1961
La rivoluzione americana / T. Bonazzi. – Il Mulino, 1977
Storia degli Stati Uniti / A. Nevins…et al. – Einaudi, 1980
Gli Stati Uniti / R. Luraghi. – Utet, 1974
L’era delle rivoluzioni democratiche / R. R. Palmer. – Feltrinelli, 1971 

Cap. 2. La Rivoluzione francese

Parola chiave

Rivoluzione

Nel linguaggio storico il concetto di rivoluzione ha assunto solo gradatamente il significato corrente di rovesciamento rapido e violento di un assetto politico e sociale.
Nel ‘500 e ‘600 il termine (mutuato dall’astronomia, dove designava il movimento di un corpo celeste e il suo ritorno al punto di partenza, o il compimento di un ciclo temporale) indicava genericamente un mutamento politico.
Poté così  essere riferito, ad esempio in Inghilterra, tanto agli avvenimenti del periodo di Cromwell che alla restaurazione di Carlo 2.; veniva impiegato inoltre nell’accezione che diamo oggi all’espressione “colpo di Stato”.
Nel definire “rivoluzione” l’espulsione della dinastia Stuart nel 1688-89 e l’ascesa al trono di Guglielmo e Maria, il termine conservava il duplice significato di cambiamento politico e di ritorno (ciclico) alle antiche libertà inglesi.
Nel pensiero degli illuministi il concetto cominciò a riflettere idee e aspettative di trasformazione sociale.
“Voi avete fiducia nell’ordine attuale della società – scrisse Rousseau nell’Emilio (1782) – senza pensare che questo ordine è soggetto a rivoluzioni inevitabili […].
Il grande diventa piccolo, il ricco diventa povero, il monarca diventa suddito […].
Ci avviciniamo alla situazione di crisi e al secolo delle rivoluzioni”.
Dopo il 1789 il termine prese il suo significato attuale e assunse, nel vocabolario politico democratico, una valenza fortemente positiva apparendo sempre più come un momento necessario e ineliminabile per lo sviluppo delle istituzioni politiche e il progresso dell’umanità.
Sotto l’influsso del pensiero socialista (e in particolare marxista) la dimensione di necessità della rivoluzione arricchì il termine di contenuti programmatici sul terreno dell’azione politica: obiettivo del socialismo e del comunismo sarà la rivoluzione del proletariato.
Contemporaneamente il concetto divenne chiave di lettura privilegiata del mutamento storico.
Al leader socialista e storico francese Jean Jaurés (1859-1914) la rivoluzione francese apparve come la fase preparatoria dell’ascesa del proletariato, perché contribuì a crearne le due premesse essenziali: la democrazia e il capitalismo.
Ma segnò soprattutto l’avvento della borghesia.
All’interno di questa scala evolutiva la rivoluzione francese fu considerata una rivoluzione borghese, intendendo per borghesia la classe sociale che dà avvio al sistema economico capitalistico.
Come scrisse lo storico Albert Soboul nel 1962, “la rivoluzione costituisce, con le rivoluzioni inglesi del secolo 17., il coronamento di una lunga evoluzione economica e sociale che rese la borghesia padrona del mondo”.
In realtà gli studi storici hanno smentito la visione di una rivoluzione che realizza il passaggio dal feudalesimo al capitalismo, e che si caratterizza per una dinamica di lotta di classe.
Il ceto politico che prese il potere non fu una borghesia imprenditoriale legata al profitto, e l’evoluzione economica verso il capitalismo fu piuttosto ostacolata che favorita dall’egemonia dei notabili e dallo sviluppo della categoria dei proprietari terrieri (borghesi ma anche contadini) che si appropriarono dei beni nazionali.
La radicale trasformazione dei rapporti politici e giuridici realizzata dalla rivoluzione francese autorizza a parlare piuttosto – per gli anni dall’89 al ’92 e poi dal ’95 al ’99 – di una rivoluzione politica della borghesia dove borghesia è da intendere più come ceto che come classe sociale.

Sommario

La debolezza della monarchia francese si riassumeva nell’incapacità di risolvere la crisi finanziaria superando le resistenze della nobiltà e del clero, ostili all’abolizione dei propri privilegi fiscali.
Di fronte all’opposizione dei Parlamenti Luigi 16. si rassegnò alla convocazione degli Stati generali, che determinò la mobilitazione politica del Terzo Stato.
All’inizio del 1789 si tennero le elezioni dei deputati agli Stati generali, nel contesto di forti tensioni popolari determinate dalla crisi economica.
Quando, avviati i lavori degli Stati generali, il Terzo Stato si autoproclamò Assemblea nazionale, iniziò una rivoluzione istituzionale che il re fu costretto a riconoscere: la rappresentanza per ordini veniva meno, come richiesto dal Terzo Stato, e nasceva la nuova Assemblea nazionale costituente.
Il processo rivoluzionario subì un’accelerazione con l’assalto alla Bastiglia il 14 luglio (che segnò l’entrata in scena del popolo parigino), la nascita di nuove municipalità, la sollevazione delle campagne che spinse l’Assemblea a decretare l’abolizione del regime feudale, l’approvazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
La requisizione dei beni ecclesiastici, infine, determinò la vendita di una consistente porzione del territorio nazionale, legando saldamente alla rivoluzione i nuovi proprietari.
A un anno dalla presa della Bastiglia l’ampiezza del consenso mascherava sensibili differenze politiche.
I due maggiori problemi di questa fase furono comunque legati all’opposizione da parte del clero al giuramento di fedeltà (stabilito dalla Costituzione civile del clero) e all’ostilità del re alle conquiste rivoluzionarie, resa evidente dal suo fallito tentativo di fuga.
Alla fine del ’91 nessuna forza era in grado di imporre la propria egemonia: i moderati, che avevano la maggioranza nell’Assemblea legislativa (apertasi il 1° ottobre); i giacobini, presenti soprattutto nell’attività dei club; la corte e gli emigrati, che organizzavano la controrivoluzione, incoraggiati da Austria e Prussia; i ceti popolari, mobilitati dal grave disagio sociale.
In questa situazione si vide nella guerra (dichiarata nell’aprile ’92) una via d’uscita, sia pure per motivi opposti: il re per sconfiggere la rivoluzione, i girondini, il geuppo più attivo della Legislativa, per diffondere gli ideali rivoluzionari.
Di fronte alle prime difficoltà militari, l’iniziativa fu ripresa dal popolo di Parigi, con due manifestazioni alle Tuileries, la seconda delle quali vide il successo degli insorti e determinò l’arresto e la sospensione del re (10 agosto 1792).
La grave situazione militare alimentò le voci di un complotto controrivoluzionario da cui trassero origine i “massacri di settembre”, che rivelarono le potenzialità del radicalismo dei sanculotti.
Poso dopo, la vittoria di Valmy, oltre ad allontanare la minaccia esterna, sancì la nuova identificazione tra passione nazionale e ideali rivoluzionari (cui si legava una politica espansionistica).
Il giorno successivo (21 settembre ’92) venne dichiarata la decadenza della monarchia dalla nuova assemblea eletta a suffragio universale, la Convenzione nazionale (i cui lavori, fino al giugno ’93, furono caratterizzati dalla lotta tra girondini e montagnardi).
Il processo e l’esecuzione del re accentuarono l’ostilità delle altre potenze.
In una situazione grave – e per le tensioni interne (rivolta contadina in Vandea e rivendicazioni del popolo parigino), e per il nemico alle frontiere – i deputati del centro (la Pianura) si allearono con i montagnardi, adottando una serie di misure radicali e istituendo il Comitato di salute pubblica.
Sconfitti i girondini, dal giugno del ’93 prendeva corpo la dittatura dei giacobini (che ormai si identificavano con i montagnardi), il cui principale esponente fu Robespierre.
Proclamandosi unici interpreti del popolo, essi inaugurarono un modello di “democrazia totalitaria”.
La nuova costituzione del ’93 non entrò mai in vigore; fu invece instaurata una dittatura attraverso l’eliminazione fisica degli avversari (il Terrore) e l’accentramento dell’esecutivo.
Fu repressa l’insurrezione “federalista” e, sua pure provvisoriamente, fu domata la Vandea; contemporaneamente la riorganizzazione dell’esercito portò, alla fine dell’anno,  a nuove vittorie.
Se con il maximum dei prezzi e salari i giacobini vennero incontro alle richieste dei sanculotti, tentarono anche di ridurre l’influenza del movimento popolare.
Fu promossa un’opera di scristianizzazione, che portò all’introduzione del calendario repubblicano, alla celebrazione di feste laiche e al culto della dea ragione e dell’Essere supremo.
La lotta del gruppo dirigente robespierrista contro le altre frange rivoluzionarie fece maturare la congiura termidoriana (luglio ’94).
La Convenzione termidoriana smantellò le strutture della dittatura giacobina: fu attenuato l’accentramento dell’esecutivo e furono abolite le norme repressive su cui si era fondato il Terrore, si introdusse la separazione tra Stato e Chiesa, fu abolito il maximum.
La stabilizzazione interna fu consolidata dai successi militari  e da alcuni trattati di pace.
Una nuova Costituzione proclamò la difesa del diritto di proprietà e accentuò il carattere censitario del sistema elettorale; fu creato un parlamento bicamerale e un Direttorio cui era affidato il potere esecutivo.
La debolezza del nuovo regime costrinse il Direttorio ad una politica pendolare tra la destra filomonarchica e la sinistra giacobina (il cui gruppo più radicale, capeggiato da Babeuf, tentò nel ’96 un’insurrezione).
Il rafforzarsi della destra spinse la maggioranza del Direttorio ad un colpo di Stato (settembre ’97) realizzato con l’intervento dell’esercito.
La guerra, l’uccisione del re e il Terrore ridussero notevolmente, in Europa, il numero dei sostenitori della rivoluzione.
La riflessione politica fu aperta dall’inglese Burke, che contrappose la difesa della tradizione all’astrattezza dei principi dell’89.
La rivoluzione da un lato spinse i governi europei a reprimere il dissenso interno, dall’altro stimolò lo sviluppo dei nuclei di opposizione.
L’influenza della rivoluzione fu marcato in Belgio e Olanda, dove l’intervento francese portò nel primo caso all’annessione e nel secondo alla costituzione della Repubblica batava.
In Italia si formarono vari club giacobini, duramente repressi dai governo.
Il Direttorio continuò nella politica di espansione in Europa, che univa il progetto di liberazione dei popoli ad obiettivi di sfruttamento economico.
Nel 1796 Bonaparte ottenne il comando dell’armata in italia.
I suoi straordinari e rapidi successi costrinsero l’Austria alla pace.
Con il trattato di Campoformio(1797) gli austriaci venivano compensati delle loro perdite con il Veneto, l’Istria e la Dalmazia (la Repubblica di Venezia cessò di esistere).
A quel momento i francesi avevano in Italia il controllo diretto di Lombardia, Emilia e Romagna.
Lo sfruttamento dei territori italiani si legava al progetto della creazione di una serie di Repubbliche “giacobine”: nel 1896-97 la Repubblica cispadana (Emilia e Romagna), che si fuse poco dopo con la Cisalpina (Lombardia) e la Repubblica ligure; nel 1798 la Repubblica romana (Lazio, Umbria, Marche); nel 17999 la Repubblica partenopea.
Queste repubbliche ebbero costituzioni moderate e i loro organi legislativi e di governo furono soggetti al controllo francese.
L’estraneità dei ceti popolari al dominio francese determinò frequenti episodi di rivolta (la sollevazione dei contadini fu decisiva per la restaurazione borbonica nell’Italia meridionale, cui seguì una durissima repressione).
Mentre l’instabilità politica caratterizzava la situazione interna francese, Bonaparte organizzò una spedizione in Egitto (1798) per colpire da lì gli interessi commerciali inglesi.
Il suoi successi militari furono annullati dalla distruzione della flotta francese operata da Nelson, mentre l’Inghilterra organizzava una seconda coalizione contro la Francia.
Le sconfitte militari provocarono una ripresa dell’attività giacobina in opposizione al Direttorio.
La situazione di crisi politica si risolse attraverso il colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre ’99), che – ideato da Sieyés – poté realizzarsi solo grazie all’intervento militare di Bonaparte).
Il colpo di Stato pose fine alla dinamica politica rivoluzionaria, pur se la stabilizzazione delle conquiste della rivoluzione si realizzò soltanto negli anni del consolato di Napoleone.
Con la rivoluzione francese cambiarono radicalmente modi e contenuti della politica: in questo senso dà inizio alla storia contemporanea divenendo il punto di riferimento obbligato di tutte le tendenze politiche dell’800.

Bibliografia

La rivoluzione francese / F. Furet, D. Richet. – Laterza, 1974
La Rivoluzione francese / A. Soboul. – Laterza, 1964
La Rivoluzione francese / G. Lefebvre. – Einaudi, 1958
L’età della rivoluzione europea, 1780-1848 / F. Furet. – Vol. 26. della Storia universale Feltrinelli, 1970
La Rivoluzione francese, 1789-1799 / M. Vovelle. – Guerini, 1993
Introduzione alla storia contemporanea, vol. 1.: L’antico regime e la rivoluzione francese, 1750-1815 / P. Remond. – Rizzoli, 1976
Le rivoluzioni, 1770-1799 / J. Godechot. – Mursia, 1975
Dizionario critico della rivoluzione francese / a cura di F. Furet e M. Ozouf. – Bompiani, 1988
Rivoluzione e controrivoluzione: la Francia dal 1789 al 1815 / D. M. G. Sutherland. – Il Mulino, 2000
Le origini culturali della Rivoluzione francese / R. Chartier. – Laterza, 1991
Libri proibiti: pornografia, satira e utopia all’origine della rivoluzione francese / R. Darnton. – Mondadori, 1997
L’Ottantanove / G. Lefebvre. – Einaudi, 1949
La grande paura del 1789 / G. Lefebvre. – Einaudi, 1953
1789: l’anno primo della libertà / A. Soboul. – Episteme, 1975
La Francia rivoluzionaria: la caduta della monarchia, 1787-92 / M. Vovelle. – Laterza, 1974
La mentalità rivoluzionaria: società e mentalità durante la rivoluzione francese / M. Vovelle. – Laterza, 1987
La Grande Nazione: l’espansione rivoluzionaria della Francia nel mondo, 1789-1899 / J. Godechot. – Laterza, 1962
Storia sociale della Francia dal 1789 ad oggi / H.-G. Haupt. – Laterza, 1991
Come uscire dal Terrore: il Termidoro e la Rivoluzione / B. Baczko. – Feltrinelli, 1989
L’autunno della Rivoluzione: lotta e cultura politica nella Francia del Termidoro / S. Luzzatti. – Einaudi, 1994
In nome del popolo sovrano: alle origini della rivoluzione francese / T. Tackett. – Carocci, 2000
Storia dell’Italia moderna, vol. 1.: Le origini del Risorgimento / G. Candeloro. – Feltrinelli, 1956
Italia giacobina / R. De Felice. – Esi, 1965
Vincenzo Cuoco / A. De Francesco. – Laterza, 1997
La rivoluzione francese: miti e interpretazioni, 1789-1970 / A. Gérard. – Mursia, 1972
La società francese e la rivoluzione / A. Cobban. – Vallecchi, 1967
Il mito della rivoluzione francese / a cura di M. Terni. – Il Saggiatore, 1981
Critica della rivoluzione francese / F. Furet. – Laterza, 1980
L’albero della rivoluzione / a cura di B. Bongiovanni e L. Guerci. – Einaudi, 1989
La rivoluzione francese: problemi storici e metodologici / A. Groppi… et al. – Angeli, 1978 

Cap. 3. Napoleone e l’Europa

Parola chiave

Codice

Nella storia del diritto con il termine codice si intende la raccolta di tutti i testi delle leggi e delle disposizioni giuridici riguardanti una determinata materia.
I periodi storici in cui vennero elaborati o rielaborati i codici coincidono strettamente con fasi di profonde trasformazioni politiche, sociali , economiche e culturali.
A distanza di secoli dai codici promossi dagli imperatori romani Teodosio (438) e Giustiniano (534), il 3 marzo 1804 Napoleone promulgò il Codice civile.
Dopo secoli dominati dall’incertezza e dal disordine dei privilegi feudali, un testo che raccoglieva leggi scritte, stabili e uguali per tutti, rappresentò una vera e propria conquista, oltre che una rivoluzione nella storia del diritto.
Il Codice napoleonico costituì allo stesso tempo un monumento ai valori della rivoluzione francese, poiché riprendeva le norme emanate durante gli anni della rivoluzione, e un compromesso trai nuovi valori e le antiche consuetudini.
Il Codice inoltre passò alla storia per l’estrema chiarezza e l’organicità dell’esposizione.
In esso trovarono spazio tutte le novità rivoluzionarie in termini di proprietà privata, laicità dello Stato, certezza del diritto, libertà di coscienza, abolizione del feudalesimo, libertà del lavoro, uguaglianza di fronte alla legge.
L’insieme di queste norme determinò, sul piano giuridico, il passaggio dall’assolutismo allo Stato moderno.
Molto importanti furono le norme legate alla famiglia, alla scuola e alla successione, con il passaggio dal diritto di primogenitura alla divisione in parti uguali tra figli del patrimonio paterno.
Il Codice riordinò anche il sistema di tassazione dello Stato, con l’introduzione di un rapporto molto più stretto tra il governo centrale e la periferia, ossia le unità amministrative in cui era divisa il territorio nazionale.
Il nuovo ordinamento giuridico napoleonico introdusse poi alcuni provvedimenti a favore delle donne, come ad esempio il diritto al divorzio, anche se nel complesso le escludeva dalla cittadinanza politica, riaffermando la loro inferiorità sul piano giuridico.
Il Codice venne applicato in tutti i paesi europei controllati da Napoleone e anche fuori dall’Europa, come in Canada.
La sua influenza andò oltre i confini dell’Impero, divenendo un modello di riferimento per la modernizzazione dello Stato.
Ancora oggi, infatti, il Codice napoleonico è alla base della legislazione vigente in gran parte d’Europa. 

Sommario

Fondato sul ruolo avuto dall’esercito nella vicenda rivoluzionaria, il potere di Napoleone fu sancito dalla Costituzione dell’anno 8. Al Primo Console era attribuito il potere esecutivo e parte di quello legislativo; di fatto si instaurò un governo dittatoriale, basato su un consenso diretto del popolo ottenuto su un consenso diretto del popolo ottenuto attraverso i plebisciti.
L’istituzione dei prefetti fu il principale strumento della centralizzazione burocratica e amministrativa, mentre lo Stato allargò enormemente il campo delle proprie competenze (dedicando, tra l’altro, particolare attenzione all’istruzione).
Sconfitte le opposizioni più radicali di destra e di sinistra, il consolidamento del potere napoleonico restava legato al raggiungimento della pace, conclusa nel 1801 con l’Austria e l’anno successivo con l’Inghilterra, ultimo avversario in campo.
Rafforzato ulteriormente il proprio potere mediante il Concordato con la Chiesa di Roma (1801), Napoleone si fece nominare console a vita nel 1802; due anni dopo, il Codice civile – che accoglieva le più importanti conquiste del’89 – rappresentò il coronamento della sua opera riformatrice.
Dopo la pace con l’Austria proseguì l’espansione francese in Italia (Piemonte, Parma, trasformazione della Repubblica Cisalpina in Repubblica Italiana).
Repressa duramente la congiura realista, nel 1804 Napoleone si fece nominare imperatore dei francesi.
Le guerre dei cinque anni successivi sconvolsero profondamente la carta d’Europa.
Nel 1805 la Repubblica italiana si trasformò in Regno d’Italia e, sconfitti gli austro-russi ad Austerlitz, il dominio napoleonico in Italia si estese a Veneto, Istria e Dalmazia, Regno di Napoli; la vittoria inglese a Trafalgar segnò tuttavia la rinuncia definitiva al progetto di invadere l’Inghilterra.
Nel 1806 Napoleone creò la Confederazione del Reno e proclamò la decadenza del Sacro Romano Impero; sconfisse la Prussia, quindi per minare la potenza inglese proclamò il blocco continentale che stabiliva il divieto per i paesi europei di commerciale con l’Inghilterra.
Nel 1807 la pace di Tilsit con la Russia, inserendo lo zar nella politica internazionale francese, segnò l’apice della potenza napoleonica.
L’espansione francese si scontrò tuttavia con gravi difficoltà in Spagna, dove la sollevazione del paese portò nel 1808 alla prima sconfitta dell’esercito napoleonico.
L’anno successivo una nuova sconfitta dell’Austria determinò altri ingrandimenti territoriali del Regno d’Italia e dell’Impero francese: a quest’ultimo vennero anche annessi nel 1808-1809 Parma, Toscana e – dopo l’arresto del papa – Lazio e Umbria.
Nel 1810 Napoleone volle legittimare il proprio dominio sposando Maria Luisa d’Austria.
L’impero napoleonico si fondava su una supremazia militare basata su un esercito di “cittadini” reclutato attraverso la coscrizione obbligatoria.
L’esercito rappresentò anche la principale via di ascesa sociale, contribuendo fortemente alla formazione della nuova nobiltà napoleonica.
Negli stati conquistati o annessi, ove fu esteso il sistema amministrativo e giuridico francese, il consenso al nuovo regime fu sempre modesto.
Soprattutto in Germania e in Italia il dominio napoleonico portò al superamento della dimensione particolaristica, suscitando aspirazioni all’indipendenza.
L’economia degli stati soggetti all’egemonia napoleonica fu sottoposta alle esigenze della Francia e danneggiata dal blocco continentale; e ciò contribuì ad accrescere l’ostilità antifrancese.
In Spagna e Nella Sicilia (occupata dagli inglesi) furono approvate nel 1812 costituzioni moderate che sarebbero state assunte a modello del movimento liberale dell’età della Restaurazione.
In Prussia la sconfitta militare stimolò una rinascita intellettuale tedesca, una politica di riforme economiche e sociali ed un rinnovamento dell’esercito.
Il periodo relativamente pacifico tra il 1809 e il 1812 non portò a un consolidamento dell’Impero, impedito dall’ostilità inglese, dal conflitto con il papa, dalla ribellione spagnola e dall’opposizione delle forze nazionali.
A ciò si aggiunse lo sganciamento russo dall’alleanza con la Francia, che Napoleone tentò di fronteggiare con l’invasione della Russia (1812).

L’avanzata francese, di fronte a un nemico che faceva terra bruciata e si rifiutava di trattare, si risolse infine in una ritirata a prezzo di fortissime perdite.
Una nuova coalizione tra Inghilterra, Russia, Prussia e Austria sconfisse i francesi a Lipsia; dopo l’occupazione di Parigi, Napoleone dovette abdicare (aprile ’14) e ricevette il possesso dell’Isola d’Elba.
Al trono di Francia saliva Luigi 18. mentre il Congresso di Vienna iniziava la ridefinizione della carta d’Europa.
Nel marzo 1815 Napoleone, tornato in Francia, riassunse il potere facendo leva sul malcontento serpeggiante tra gli strati popolari e l’esercito.
Sconfitto a Waterloo, venne deportato a Sant’Elena.
Di lì a poco un’analoga impresa compiuta da Murat nell’Italia meridionale si risolse tragicamente. 

Bibliografia

L’Europa e l’America all’epoca napoleonica, 1800-1815 / J. Godechot. – Mursia, 1985
Napoleone: il mito del salvatore / J. Tulard. – Rusconi, 1980
Napoleone / G. Lefebvre. – Laterza, 1960
L’età di Napoleone / J.-C. Herold. – Il Saggiatore, 1967
Napoleone / V. Criscuolo. – Il Mulino, 1997
Napoleone e la conquista dell’Europa / S. J. Woolf. – Laterza 1990
Napoleone e la società francese, 1799-1815 / L. Bergeron. – Guida, 1975
Le campagne di Napoleone / D. G. Chandler. – Rizzoli, 1973
L’anti-Napoleone / J. Tulard. – Veutro, 1970 

Cap. 4. Le origini della industrializzazione

4.1 La rivoluzione industriale

Con una serie di profondi mutamenti nelle forme di produzione prese avvio in Inghilterra, tra la fine del 18. e gli inizi del 19. secolo, la “rivoluzione industriale”.
Il termine rivoluzione non deve tuttavia suggerire la repentinità del cambiamento quanto piuttosto indicare il suo carattere irreversibile e radicale.
In un arco di tempo relativamente breve un assetto economico-sociale stabile e sostanzialmente stagnante fu sostituito da una fase di sviluppo economico senza precedenti, caratterizzata da una crescita gradualmente accelerata, non più sottoposta ai limiti imposti dalla pressione demografica.
Il passaggio da un’economia agricolo-artigianale a una economia industriale, fondata sulla fabbrica, si affermò gradualmente in tempi successivi e con differenti modalità anche nel continente europeo, avviando quella trasformazione dell’organizzazione sociale, dei sistemi politici, dei modelli culturali e degli stessi comportamenti individuali che caratterizza ancora oggi el aree sviluppate del mondo contemporaneo e che esercita un profondo condizionamento anche su quelle arretrate.
La diffusione del sistema di fabbrica e delle macchine, lo sviluppo dell’industria e dei servizi a scapito dell’agricoltura, la formazione di nuovi strati sociali (classe operaia e ceti medi) non sono che gli aspetti più significativi delle trasformazioni intervenute nell’Occidente sviluppato a partire dalla fine del ‘700.
Per tutti questi motivi la Rivoluzione industriale ha assunto, con la Rivoluzione francese, il valore periodizzante di inizio di una nuova età – quella contemporanea.
Un’età in cui, fra profondi squilibri e contrasti talora durissimi, si è registrata, per i paesi industrializzati e per una parte del mondo da essi dipendente, l’uscita dalla penuria alimentare e dalla povertà.
Un’età dominata dall’ideologia del progresso e da una nuova mentalità, fatta di disponibilità continua al mutamento e di promozione di ulteriori mutamenti.
A distanza di oltre duecento anni dalle sue origini, la Rivoluzione industriale si è confermata come grande dispensatrice di benessere e di ricchezze materiali, ma non sempre di quella “felicità” che riformatori e utopisti avevano ritenuto dovesse essere il compito e il principale obiettivo del progresso economico e sociale.
Per quali ragioni la Rivoluzione industriale si verificò inizialmente in Inghilterra e quali fattori concorsero a determinarla? Sono questi gli interrogativi a cui la storiografia, in oltre un secolo di dibattiti, ha tentato di fornire una risposta.
Alla fine del ‘600 l’Inghilterra presentava per certi versi caratteristiche simili a quelle di altri paesi europei: l’attività economica prevalente era rappresentata dall’agricoltura, tanto che, secondo stime dei contemporanei, l’80% degli abitanti lavorava nei campi e viveva dei prodotti della terra; le attività industriali, fra le quali predominavano quelle tessili, erano organizzate prevalentemente su scala domestica e l’unità tipica di produzione era costituita dalla famiglia.
Una quota notevole del prodotto, in tutti i rami di attività, era destinata all’autoconsumo, e anche quella parte che veniva commercializzata entrava in un mercato estremamente ristretto a base locale o al massimo regionale.
La popolazione era infatti dispersa nelle campagne e i contatti e gli scambi erano precari anche per la scarsità delle vie di comunicazione interne.
Tanto i redditi individuali che la ricchezza nazionale e la sua distribuzione tra i diversi ceti sociali conoscevano modeste oscillazioni lungo intervalli di tempo secolari.
La crescita economica si scontrava con quelle che sembravano essere leggi naturali e immodificabili dell’equilibrio fra popolazione e disponibilità di risorse alimentari, descritte dall’economista inglese Thomas Robert Malthus nel suo Saggio sul principio di popolazione (1798).
A questa condizione “malthusiana” si aggiungeva la strozzatura energetica legata al ridotto rendimento delle fonti disponibili: acqua, aria, animali, lavoro umano.
Se molti erano dunque gli elementi che accomunavano l’Inghilterra al resto d’Europa, molte erano anche le differenze, divenute ancor più significative alla metà del ‘700.
Come scrive lo storico inglese Eric Hobsbawn, la Gran Bretagna, intorno al 1750, avrebbe colpito un viaggiatore straniero
“come un paese ricco e ricco soprattutto grazie al suo commercio e al suo spirito d’iniziativa; come uno Stato di potenza formidabile, ma la cui forza si basava sulla marina, un’arma cioè essenzialmente fondata sul commercio e orientata verso i traffici; come uno Stato in cui erano straordinariamente presenti la libertà e la tolleranza, cose a loro volta strettamente collegate col commercio e la classe media. E sebbene il paese non brillasse per aristocratiche leggiadrie di vita, spirito e Joie de vivre, e fosse incline a eccentricità religiose e d’altro genere, pure aveva senza dubbio un’economia fra le più fiorenti e progressive, e vantava una parte di spicco nei campi scientifico e letterario, per non parlare di quello tecnologico.


Parola chiave

Luddismo

Il luddismo fu una delle prime forme di contestazione delle trasformazioni del lavoro causate dalla rivoluzione industriale.
Tra la fine del 18. secolo e l’inizio del 19., gruppi di artigiani impegnati nel settore tessile, messi in crisi dalla diffusione dei telai meccanici, reagirono organizzandosi nelle bande dell’”esercito del generale Ludd”, giustiziato nel 1779 per aver distrutto il telaio su cui lavorava.
I luddisti iniziarono perciò a distruggere le macchine introdotte dagli imprenditori in sostituzione dei lavoratori a domicilio del settore tessile.
La distruzione delle macchine fu quindi la principale forma di lotta adottata dagli operai in quel periodo.
I luddisti sono stati considerati a lungo i promotori di una rivolta sociale caotica e disorganizzata, simile per molti aspetti a quelle dei contadini d’età moderna, messa in atto dalla manodopera operaia a cui la severa legislazione penale inglese impediva qualsiasi forma di organizzazione in difesa delle proprie condizioni di lavoro.
Emblematicamente, le grandi sommosse del biennio 1811-13, che tanto colpirono l’opinione pubblica inglese, furono represse ricorrendo all’impiego di forze militari.
Secondo lo storico Eric Hobsbawm, contro i luddisti furono dispiegati più soldati di quelli condotti nel 1808 dal duca di Wellington nella penisola iberica per combattere Napoleone.
Nonostante lo sbigottimento causato nelle classi medio-alte della società britannica, le forme estreme di lotta adottate dalle bande luddiste non erano affatto inedite.
Per tutto il ‘700, infatti, nei conflitti sviluppatisi nel mondo del lavoro, specie nel settore della manifattura e del lavoro a domicilio, la distruzione dei macchinari, ma anche delle materie prime, dei prodotti finiti e, nei casi estremi, delle proprietà individuali dell’imprenditore, rientrava tra le pratiche adottate dai lavoratori per esercitare pressione sui datori di lavoro al dine di strappare migliori condizioni lavorative.
Nella fase di passaggio dal sistema di lavoro a domicilio a quello di fabbrica al centro della contestazione dei lavoratori c’era la questione del controllo del mercato del lavoro e non quella dell’introduzione delle macchine.
In altre parole, per i lavoratori inglesi il problema era costituito non dalle macchine in sé, ma dall’uso che ne facevano i datori di lavoro, i quali spesso e volentieri le utilizzavano per licenziare le maestranze e ridurre i salari.
Lo scompiglio sociale che ne derivava spesso finiva col coinvolgere anche ceti diversi dai lavoratori manuali, come i piccoli produttori e imprenditori, che a modo loro parteciparono alle agitazioni, magari non svelando alle forze dell’ordine i nomi degli esecutori materiali delle distruzioni delle macchine.
Ciò tuttavia non bastò a vincere la guerra contro i telai meccanici: finché venne praticata la lavorazione a domicilio la distruzione del macchinario rafforzò il potere contrattuale dei lavoratori, ma con l’avvento della moderna fabbrica quel modo di lotta divenne inefficace e, soprattutto, troppo pericoloso per chi lo praticava.

Sommario

Si dà il nome di “rivoluzione industriale” al complesso di profondi mutamenti nelle forme di produzione che si verificò in Inghilterra tra fine ’700 e inizio ‘800, mutamenti che successivamente si sarebbero affermati anche nel continente europeo.
L’affermazione del capitalismo industriale e i profondi mutamenti sociali che l’accompagnarono (con la nascita di nuovi ceti e classi) determinarono, insieme alla rivoluzione francese, l’inizio di una nuova età, quella contemporanea, contrassegnata – nonostante profondi squilibri – dal raggiungimento del benessere economico nei paesi più sviluppati.
L’economia dell’Inghilterra preindustriale presentava alcune peculiarità che spiegano perché proprio lì avrebbe preso avvio la rivoluzione industriale.
Il controllo  inglese del commercio internazionale favorì le manifatture tessili inglesi (rapido e poco costoso approvvigionamento di cotone grezzo, ampio mercato di vendita per i prodotti) e la diffusione di una mentalità imprenditoriale.
La concentrazione nella proprietà della terra e l’introduzione di nuove tecniche di coltivazione configurarono una rivoluzione agricola che stimolò in vari modi il processo di industrializzazione: maggiori disponibilità alimentari per una popolazione in crescita, estensione del mercato interno (dovuta al diffondersi del lavoro salariato e alla riduzione dell’autoconsumo), disponibilità di capitali per impieghi industriali, aumento della popolazione ed esodo dalle campagne (che consentirono la formazione di un proletariato industriale).
Infine, la rivoluzione industriale fu favorita anche dalle particolari caratteristiche del sistema politico e dalla vivacità della società inglese.
Alla rivoluzione industriale si collegò l’introduzione di nuove tecnologie.
Il rapporto di reciprocità tra invenzione e produzione è evidente nel settore tessile: l’aumentata capacità della tessitura (grazie alla “navetta volante”) spinse alla meccanizzazione della filatura, che a sua volta stimolò l’invenzione del telaio meccanico.
La fase successiva della innovazione tecnologica fu quella dell’utilizzazione del vapore come forza motrice.
La prima attività in cui si sviluppò il sistema di produzione basato sulla fabbrica fu quella cotoniera, la cui produzione aumentò enormemente grazie a vari fattori fra i quali: i costi limitati delle nuove tecnologie, la possibilità di alti profitti, la disponibilità di manodopera a basso costo, l’espansione del mercato.
La meccanizzazione favorì l’industria siderurgica, che riuscì a far fronte alla nuova domanda soprattutto attraverso l’innovazione tecnologica.
Il sistema di fabbrica comportò la trasformazione del lavoratore in operaio, inserito in una crescente divisione del lavoro  e soggetto a condizioni di lavoro (disciplina , rari) e di vita durissime.
La semplificazione del processo produttivo rese possibile inoltre, soprattutto nell’industria tessile, l’impiego di donne e bambini.
La prima reazione al sistema di fabbrica fu opera di lavoranti a domicilio e artigiani del settore tessile, tra cui si diffuse il luddismo.
Spentesi le agitazioni luddiste all’inizio dell’800, e nonostante la politica repressiva del governo inglese, cominciarono a diffondersi tra gli operai nuove forme di organizzazione (società di mutuo soccorso, leghe di categoria).
Le trasformazioni legate all’industrializzazione sollecitarono, nell’ambito del radicalismo inglese, una nuova riflessione sui temi della partecipazione politica e della riforma sociale.
Bentham, principale teorico dell’utilitarismo, individuò nel concetto di utile il criterio fondamentale cui deve conformarsi l’azione politica.
Ricardo, il maggiore teorico dell’economia “classica”, pose in relazione la conflittualità sociale con la distribuzione del prodotto complessivo tra le varie classi.
La rivoluzione industriale inglese, inoltre, diede l’avvio a un nuovo sistema produttivo che, dal 1830 circa, si sarebbe esteso al resto dell’Europa e agli Stati Uniti.
Complessivamente considerato, il quadro dell’economia dell’Europa continentale dal 1815 alla metà dell’800 si presenta contraddittorio, per la compresenza di elementi di arretratezza e di fattori economici.
Tale economia era dominata dalle attività agricole, che rimanevano tecnicamente arretrate. Inoltre, la lentezza nei trasporti e l’esistenza di barriere doganali determinavano una frammentazione del mercato: anche per questo le crisi agricole (le più gravi si ebbero nel 1816-17 e 1846-47) potevano portare a vere e proprie carestie.
Tar i fattori che favorirono lo sviluppo economico va ricordato anzitutto l’incremento demografico (dovuto soprattutto a un calo della mortalità), che determinò un allargamento del mercato e dunque stimolò la crescita produttiva.
Inoltre, rilevanti furono le conseguenze economiche del progresso scientifico: in questo periodo la novità maggiore, e davvero rivoluzionario, fu rappresentata dalla ferrovia.
Nell’Europa continentale l’affermarsi dell’industria moderna fu assai lento.
L’industrializzazione era ritardata dalla scarsezza di capitali (che si dirigevano principalmente verso l’agricoltura), dall’arretratezza del sistema bancario, dal basso livello dei prezzi e del tenore di vita della popolazione.
Intorno al 1830 si verificò una accelerazione del processo di industrializzazione nell’Europa continentale.
Il primato, in questo periodo, spettava al Belgio, seguito dalla Francia,  (qui, però, si faceva sentire il peso di un’agricoltura di piccoli e medi proprietari).
Più lenta fu l’industrializzazione nei paesi tedeschi, ove tuttavia furono poste alcune premesse per il decollo dei decenni successivi.
Nell’Impero asburgico lo sviluppo industriale fu ostacolato dalle aristocrazie terriere e dai particolarismi nazionali.
Alla diffusione dell’industria moderna si accompagnò lo sviluppo di una nuova classe, il proletariato.
Le condizioni di vita degli operai di fabbrica erano estremamente pesanti e favorirono la spinta a raccogliersi in associazioni e a ribellarsi: anche per questo la “questione operaia” si impose sempre più all’attenzione dell’opinione pubblica e delle classi dirigenti.

Bibliografia

La prima rivoluzione industriale / P. Deane. – Il Mulino, 1982
Prometeo liberato / D. S. Landes. – Einaudi, 1978
La rivoluzione industriale e l’impero / E. J. Hobsbawn. – Einaudim 1972
La rivoluzione industriale, 1760-1830 / T. S. Ashton. – Laterza, 1969
La rivoluzione industriale / P. Hudson. – Il Mulino, 1995
Leggere la rivoluzione industriale / J. Mokyr. – Il Mulino, 1997
L’età del progresso: l’Inghilterra fra il 1783 e il 1867 / A. Briggs. – Il Mulino, 1987
Storia economica Cambridge. Vol. 6.: La rivoluzione industriale e i suoi sviluppi. – Einaudi, 1974
Storia economica dell’Europa continentale / A. S. Milward, S. B. Saul. – Il Mulino, 1977
La conquista pacifica: l’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970 / S. Pollard. – Il Mulino, 1984
L’industrializzazione in Europa nell’800 / T. Kemp. – Il Mulino, 1975
La trasformazione demografica delle società europee / M. Livi Bacci. – Loescher, 1977
Nascita della classe operaia / J. Kuczinski. – Il Saggiatore, 1967
Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra / E. P. Thompson. – Il Saggiatore, 1969
Classi lavoratrici e classi pericolose / L. Chevalier. – Laterza, 1976

Cap. 5. Le origini della politica contemporanea

Parola chiave

Socialismo/Comunismo

Nel linguaggio politico dell’800 e del ‘900 il termine “socialismo” indica un progetto di riorganizzazione della società volto ad abolire – o a limitare fortemente – la proprietà privata dei mezzi di produzione, a porre le risorse economiche sotto il controllo della collettività, a promuovere in questo modo l’eguaglianza sostanziale – e non solo giuridica – fra i membri della collettività stessa.
In questo senso, il termine si cominciò ad usare negli anni ’20 del 19. secolo  in Francia e in Gran Bretagna per opera dei gruppi sansimoniani e dei seguaci di Owen, legandosi strettamente alle prime lotte e ai primi tentativi di organizzazione della classe operaia.
Nel decennio successivo, altri pensatori e agitatori (Cabet e Blanqui in Francia, Weitling in Germania) preferirono servirsi del termine “comunismo”, che già si usava, a partire dal ‘700, in riferimento alle utopie collettivistiche ed egualitarie sviluppatesi nell’ambito della società preindustriale.
Anche Marx ed Engels si dissero comunisti e parlarono di “società comunista” per definire lo stadio finale dell’evoluzione storica: quello in cui, scomparse le classi e abolito il diritto borghese, ognuno avrebbe potuto dare secondo le proprie capacità e ricevere secondo i propri bisogni.
Da allora si intese per “comunismo” una variante più radicale del socialismo, in cui l’accento era posto sugli obiettivi finali più che sulle tappe intermedie delle lotte proletarie.
Nello stesso tempo – cioè negli anni attorno alla metà del secolo – il termine “socialismo” veniva assumendo una caratterizzazione più generica ed era usato per designare l’atteggiamento di chi cercava soluzioni nuove alla questione operaia, o semplicemente per indicare la tendenza dei poteri pubblici a intervenire attivamente nelle vicende economico-sociali (in questo senso il socialismo era l’antitesi del liberismo).
Nonostante queste oscillazioni di significato, il termine “socialismo” continuò ad essere il più usato per designare il programma e l’organizzazione politica del movimento operaio europeo.
Socialisti (o socialdemocratici) si chiamarono i partiti nati negli ultimi decenni dell’800 come espressione politica delle classi lavoratrici.
Socialista si chiamò l’organizzazione internazionale (la “Seconda internazionale) che riuniva quei partiti.
La distinzione tra socialismo e comunismo tornò d’attualità – e si tradusse in scissione tra due modelli di partito e tra due internazionali – dopo la rivoluzione russa del 1917.
Da allora continuarono a chiamarsi socialisti i partiti che restavano fedeli alla tradizione e ai metodi della Seconda Internazionale e che tendevano gradualmente ad abbandonare le strategie rivoluzionarie; mentre presero il nome di comunisti quelli che si ispiravano direttamente all’esperienza dell’ottobre ’17, all’ideologia leniniana e al modello organizzativo del Partito bolscevico.

Sommario

Il compimento del processo di costruzione dello Stato moderno nel periodo napoleonico si tradusse nella diffusione nell’Europa continentale dello Stato burocratico amministrativo.
Lo Stato si dota di un personale burocratico e tecnico e utilizza i dato prodotti dalla nuova scienza statistica (come i censimenti) per operare nei sempre più ampi settori di sua competenza.
Dopo la rivoluzione francese la sovranità non apparteneva più al sovrano, ma tendenzialmente al popolo e ai suoi rappresentanti.
Nascevano i sistemi politici rappresentativi; i sudditi si trasformavano in cittadini; la costituzione divenne la carta fondamentale dei nuovi diritti.
Nel corso dell’800 si avranno in Europa due forme di governo nei regimi rappresentativi: costituzionale e parlamentare.
Il confronto fra le due grandi ideologie del liberalismo e della democrazia si misurò anche sulla questione elettorale.
I liberali erano sostenitori del suffragio ristretto, i democratici di quello universale.
Durante l’età della Restaurazione si diffuse in tutta Europa la cultura romantica: il Romanticismo – che esaltava la spontaneità del sentimento, i valori della tradizione e della nazione, che guardava con nuovo interesse alla storia – segnava un mutamento profondo rispetto alla cultura e alla mentalità illuministica.
Gli elementi di fondo della mentalità romantica potevano ben corrispondere al nuovo clima politico della Restaurazione.
Ma in realtà il Romanticismo poté costituire altrettanto bene la premessa delle battaglie liberali dell’epoca e stimolare, con il culto del passato e dei valori nazionali, lo sviluppo del nazionalismo.
Il liberalismo, oltre che per alcune idee fondamentali (libertà di opinione, tolleranza, principio rappresentativo, ecc.) si qualificava per l’adesione a un modello istituzionale simile a quello operante in Gran Bretagna.
Sul piano dei principi, il liberalismo si distingueva radicalmente dal pensiero dei democratici (che aspiravano alla repubblica e consideravano l’assemblea eletta a suffragio universale come unica espressione legittima della volontà popolare).
Ma le due correnti si trovavano vicine nella comune lotta per la costituzione, il parlamento elettivo, la garanzia delel libertà fondamentali.
J. S. Mill cercò di mettere il liberalismo in grado di dare una risposta alle nuove esigenze di giustizia sociale e di partecipazione politica.
Tocqueville sostenne l’inevitabilità dell’avvento della democrazia, ma denunciò i rischi di appiattimento e di autoritarismo che tale avvento avrebbe comportato.
L’idea di nazione, nel senso in cui la intendiamo oggi, fu da un lato una conseguenza del principio di sovranità popolare e delle teorie rousseauiane, dall’altro un tipico prodotto della cultura romantica, soprattutto tedesca.
Queste due componenti si fusero nei movimenti di emancipazione nazionale della prima metà del secolo.
All’inizio dell’800 la Chiesa e il mondo cattolico si attestarono su posizioni di radicale rottura con la tradizione illuminista e rivoluzionaria.
Accanto alle utopie reazionarie e teocratiche (come quella di Joseph de Maistre), si sviluppò in Francia, con Lamennais, un pensiero cattolico-liberale.
Dopo che queste aperture furono condannate dalla Chiesa (enciclica Mirari vos del 1832, l’impegno di molti cattolici si sviluppò sul terreno sociale.
I primi decenni del secolo videro un grande sviluppo del pensiero socialista.
L’inglese Owen ebbe un ruolo di rilievo nell’organizzazione del movimento operaio.
Più articolato fu lo sviluppo delle teorie socialiste in Francia.
Se il pensiero di Fourier si qualificava in senso chiaramente utopista e anti-industriale, quello di Saint-Simon si legava invece a una piena accettazione della realtà dell’industrialismo.
Blanc fu per certi versi il capostipite del riformismo socialista.
Ancora diverse le posizioni di Proudhon, caratterizzate da un cooperativismo più anarchico che socialista.
La principale novità, nel panorama delle teorie socialiste, fu il prender forma del nuovo indirizzo “scientifico” di Marx ed Engels.
Nucleo fondamentale del loro pensiero, già presente nel Manifesto dei comunisti (1848), fu la concezione materialistica della storia e la sottolineatura del ruolo rivoluzionario che il proletariato – facendo leva sulle contraddizioni oggettive dello sviluppo capitalistico – era destinato a svolgere per abbattere la società borghese.

Bibliografia

La vicenda dello Stato moderno / G. Poggi. – Il Mulino, 1978
Storia del potere politico in Europa / W. Reinhard. – Il Mulino, 2001
La rivoluzione romantica / A. De Paz. – Liguori, 1984
L’uomo romantico / a cura di F. Furet. – Laterza, 1975
Le nazioni romantiche / J- Plumyene. – Sansoni, 1982
Storia del liberalismo europeo / G. De Ruggiero. – Laterza, 1984
L’idea del nazionalismo nel suo sviluppo storico / H. Kohn. – La Nuova Italia, 1961
L’idea di nazione / F. Chabod. – Laterza, 1961
Nazioni e nazionalismo / E. J. Hobsbawn. – Einaudi, 1991
Aquile e leoni: Stato e nazione in Europa / H. Schulze. – Laterza, 1995
Nazioni e nazionalismi in Europa / G. Hermet. – Il Mulino, 1997
La creazione delle identità nazionali in Europa / A. M. Thiesse. – Il Mulino, 2001
Storia del pensiero socialista / G. D. H. Cole. – Laterza, 1967
Le origini del socialismo / G. Lichtheim. – Il Mulino, 1970
Il pensiero socialista, 1791-1848 / G. M. Bravo. – Editori Riuniti, 1971

Cap. 6. Restaurazione e rivoluzioni, 1815-1848

Parola chiave

Legittimismo

Il termine “legittimismo” si cominciò a usare nell’epoca del congresso di Vienna: quando i rappresentanti della Francia sconfitta – nell’intento di difendere l’integrità territoriale del loro paese – si richiamarono al “principio di legittimità”, che fu accettato dalle potenze vincitrici come base per l’assetto europeo.
La legittimità a cui ci si riferiva era quella dinastica, fondata sul diritto divino dei sovrani: una legittimità contrapposta, nel pensiero dei teorici della Restaurazione, a quella rivoluzionaria che invece vedeva nella volontà popolare l’unica genuina fonte del potere.
Da allora furono definiti “legittimisti” tutto coloro che difendevano i diritti delle antiche dinastie, quando fossero stati violati da eventi rivoluzionari o da vere o presunte usurpazioni; e, più in generale, coloro che si battevano per il ritorno ai principi, alle tradizioni e alle gerarchie sociali dell’antico regime, all’assolutismo monarchico, allo stretto legame fra potere civile e potere religioso.
Nella seconda metà dell’800, col progressivo affermarsi di sistemi politici costituzionali e rappresentativi, la correnti legittimiste vennero rapidamente perdendo consistenza e peso politico.
Esse rimasero tuttavia attive, soprattutto in quei paesi, come la Francia e la Spagna, dove le vecchie famiglie regnanti erano state rovesciate o sostituite.
In Francia, in particolare, sopravvisse fino al nostro secolo, andando a confluire nella più vasta corrente di quel nazionalismo reazionario e clericale che avrebbe creato non pochi problemi alla vita democratica e alle istituzioni repubblicane

Citazione

Non bisogna dimenticare inoltre che la fine dei rapporti feudali significò non solo la liberazione dei contadini da una serie di gravami e di servitù nei confronti dei signori, ma anche lo scioglimento dei signori dai tradizionali doveri di tutela e di assistenza nei confronti dei contadini e delle loro terre.
Anche se in forme diverse e in tempi generalmente più lenti, l’Europa continentale cominciava così a conoscere un fenomeno analogo a quello che già si stava verificando in Inghilterra: la formazione di una massa di lavoratori non più legata alla terra e alle antiche comunità rurali, pronta a spostarsi verso i centri urbani e verso le nuove opportunità di lavoro offerte dall’industria.
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Sommario

Sconfitto Napoleone a Waterloo, si chiudeva il periodo delle guerre tra la Francia rivoluzionaria e le monarchie europee.
Iniziava l’età della Restaurazione.
Ma “restaurare” in tutto e per tutto il vecchio ordine non era in realtà possibile, dopo i mutamenti sociali, istituzionali e giuridici verificatisi nel venticinquennio precedente.
Assai rilevanti furono, comunque, i mutamenti della carta d’Europa sanciti dal congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815), per opera delle quattro maggiori potenze vincitrici (Gran Bretagna, Russia, Prussia, Austria) nonché della stessa Francia.
Il principio di fondo seguito fu quello della “legittimità”, secondo cui dovevano essere restaurati i sovrani spodestati.
Benché sconfitta, la Francia conservò in gran parte la propria integrità territoriale (grazie all’interesse delle altre potenze a creare un nuovo equilibrio europeo stabile e duraturo).
Russia e Prussia si ingrandirono espandendosi verso Occidente.
Gli Stati tedeschi, drasticamente ridotti di numero, furono riuniti in una Confederazione germanica.
L’Impero asburgico perse Belgio e Lussemburgo, ma ottenne la sovranità sul Lombardo-Veneto e, in generale, una vera egemonia sulla penisola italiana (Granducato di Toscana, Ducato di Parma e Piacenza, Ducato di Modena e Reggio, Regno delle Due Sicilie).
Solo il Regno di Sardegna poté mantenere una certa autonomia nei confronti dell’Austria.
Il nuovo assetto europeo fu sancito dalla Santa alleanza (tra Russia, Prussia, Austria e Francia), ispirata – almeno nelle intenzioni del suo promotore, lo zar Alessandro 1. – a un’impostazione fortemente religiosa.
Ad essa si affiancò la Quadruplice alleanza promossa dalla Gran Bretagna, cui aderirono le altre tre potenze vincitrici.
La Restaurazione ebbe caratteri diversi nei singoli paesi, sempre però nel quadro di un indirizzo conservatore e tradizionalista.
In Gran Bretagna si ebbe la prevalenza dell’ala destra del partito conservatore, che favorì gli interessi della grande proprietà terriera.
In Prussia, Austria e Russia venne seguita una linea che si richiamava all’assolutismo settecentesco e ostacolava ogni evoluzione in senso liberale.
Il caso più significativo di Restaurazione “morbida” fu quello della Francia.
Luigi 18. promulgò una costituzione, che tra l’altro prevedeva un parlamento bicamerale, e conservò molte innovazioni del periodo napoleonico.
In Italia la Restaurazione fu particolarmente dura nel Regno di Sardegna, mentre nello Stato della Chiesa e nel Regno delle due Sicilie  le spinte reazionarie furono in parte frenate dalla presenza di correnti moderate.
Nel Lombardo-Veneto l’Austria ispirò il proprio governo ad una miscela di autoritarismo e buona amministrazione.
Per quel che riguarda i rapporti sociali, la Restaurazione non interruppe il processo di crescita della borghesia e di emancipazione dai vincoli feudali accelerato dalla rivoluzione francese.
Tuttavia la borghesia fu danneggiata da politiche dei governi che favorivano gli interessi della proprietà terriera.
Inoltre, in buona parte dell’Europa dell’Est, il processo di emancipazione dai vincoli feudali fu assai lento.
La lotta politica nell’età della Restaurazione fu dominata dalla contrapposizione trai partigiani dell’antico regime, da un lato, e i liberali e democratici dall’altro.
In quasi tutti i paesi europei l’azione dei liberali e democratici si doveva svolgere in forme clandestine, attraverso società segrete.

La Carboneria si ispirava ad un liberalismo moderato, mentre altre sette avevano posizioni più spiccatamente democratiche.
In massima parte la base sociale delle società segrete era costituita da intellettuali, studenti e – soprattutto – militari: furono essi i protagonisti delle rivoluzioni delgi anni ’20.
L’ondata rivoluzionaria partì dalla Spagna: il re fu costretto a concedere la costituzione ma il nuovo regime non riuscì a consolidarsi, anche per i contrasti in seno allo schieramento costituzionale.
Nel napoletano, per iniziativa di alcuni ufficiali, una insurrezione (luglio ’20) obbligò il re a concedere la costituzione; lo schieramento liberale e democratico rimase fragile, anche per il sopraggiungere della violenta rivolta a Palermo a sfondo indipendentista.
I moti piemontesi del marzo ’21 contavano sull’adesione del principe Carlo Alberto; all’ultimo momento, venuta essa meno, non fu possibile fermare la programmata insurrezione, che venne schiacciata.
Nel ’21, dopo che il re Ferdinando 1. ebbe chiesto espressamente l’aiuto delle potenze alleate al congresso di Lubiana, gli austriaci intervennero contro la rivoluzione napoletana.
La rivoluzione spagnola fu schiacciata, invece, dall’intervento militare della Francia (1823).
Trai motivi della sconfitta delle rivoluzioni del ’20-’21 vanno ricordate le divisioni entro lo schieramento rivoluzionario, nonché la mancanza di seguito tra le masse.
L’unica rivoluzione del decennio che si concluse positivamente fu quella greca contro la dominazione turca.
Iniziata nel ’21, questa rivoluzione si concluse solo nel 1830.
Il suo successo fu dovuta in misura determinante alle simpatie dell’opinione pubblica europea e all’intervento militare della Gran Bretagna, Francia e Russia.
La politica di Carlo 10., divenuto re di Francia nel 1824, fu ispirata al disegno degli ambienti oltranzisti di realizzare una restaurazione integrale.
Nel luglio 1839, il popolo di Parigi reagì con un’insurrezione che costrinse il re alla fuga; le camere nominarono nuovo sovrano Luigi Filippo d’Orleans.
La “monarchia di luglio”, benché prodotta da una rivoluzione, si ispirò sin dall’inizio ad una linea di liberalismo moderato.
La rivoluzione di luglio incoraggiò una ripresa delle iniziative rivoluzionarie a livello europeo.
La rivolta del Belgio – che mirava ad ottenere l’indipendenza dall’Olanda – si risolse in un successo, reso possibile dall’atteggiamento favorevole di Francia e Inghilterra.
Esito diverso ebbero i moti rivoluzionari scoppiati in Italia e in polonia, schiacciati dall’intervento militare – rispettivamente – di Austria e Prussia.
La base di consenso della monarchia di luglio era assai ristretta e precaria, fondandosi soprattutto su una identificazione con gli interessi dell’alta borghesia degli affari.
Forte era l’opposizione legittimista e bonapartista, ma ancor più minacciosa quella repubblicana (che si concretizzò in vari tentativi insurrezionali).
Per reazione, la monarchia sposò una linea ancor più conservatrice che accentuò i caratteri oligarchici del regime e la frattura tra ceto dirigente e società civile.
Tra la metà degli anni ’20 e la fine degli anni ’40 in Inghilterra vennero varate alcune decisive riforme: diritto per i lavoratori di unirsi in associazione (e ciò stimolò lo sviluppo delle Trade Unions); parità di diritti politici e civili per tutte le confessioni religiose; riforma elettorale (che estendeva il diritto di voto a consistenti settori del ceto medio); riforma municipale; leggi sociali (sul lavoro nelle fabbriche e sui poveri).
La lotta politica degli anni ’40-’40 vide l’emergere di due movimenti: quello “cartista”, che si batteva per il suffragio universale ed era animato soprattutto dalle Trade Unions; e quello per la riforma doganale, di cui fu principale leader Cobden, che si risolse in una vittoria delle trsi liberiste (abolizione del dazio sul grano).
Negli anni ’30-’48 di contro alle trasformazioni avvenute in Gran Bretagna e Francia, le monarchie autoritarie dell’Est europeo mostravano indirizzi legati a immobilismo politico e conservazione sociale.
Mentre la Russia ribadiva il suo ruolo di pilastro dell’autocrazia, l’Austria-Ungheria vedeva il primo manifestarsi delle spinte autonomistiche delle varie nazionalità dell’Impero.
Il nazionalismo costituì invece un fattore di coesione nell’area tedesca, ove le aspirazioni della borghesia si indirizzarono verso l’attuazione di una Unione doganale (Zollverein).
Negli anni ’30 fu l’intesa franco-britannica a condizionare largamente l’equilibrio europeo.
Tale intesa di spezzò alla fine del decennio in relazione al diverso atteggiamento tenuto dalle due potenze nei confronti della Questione d’Oriente.
Da allora la politica estera francese si andò qualificando sempre più in senso conservatore

Bibliografia

L’età della rivoluzione europea, 1780-1848 / L. Bergeron…et al. – Laterza, 1991
Le rivoluzioni borghesi, 1789-1848 / E. J. Hobsbawn. – Laterza, 1991
L’età della Restaurazione: reazione e rivoluzione in Europa, 1814-1830 / N. Nada. – Loescher, 1981
La diplomazia della Restaurazione / H. Kisisnger. – Garzanti, 1973
Storia dell’Italia moderna. Vol. 2.: Dalla Restaurazione alla rivoluzione nazionale / G. Candeloro. – Feltrinelli, 1958
Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’800 / A. Galante Garrone. – Einaudi, 1951
Con il fuoco nella mente / J. H. Billington. – Il Mulino, 1986
La rivoluzione napoletana del 1820-1821 / A. Lepre. – Editori Riuniti, 1967
Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale / R. Romeo. – Laterza, 1974
Il Risorgimento in Sicilia / R. Romeo. – Laterza, 2001
Il secolo della rivoluzione / F. Furet. – Rizzoli, 1989
Il “secolo borghese” in Francia, 1815-1914 / R. Magraw. – Il Mulino, 1987
Storia della Francia nell’Ottocento / D. Barjot…et al. – Il Mulino, 2003
Storia dell’Inghilterra nel secolo 19. / G. M. Trevelyan. – Einaudi, 1971
La rivoluzione industriale e l’impero: dal 1750 ai giorni nostri / E. J. Hobsbawn. – Einaudi, 1971
L’età del progresso: l’Inghilterra fra il 1783 e il 1867 / A. Briggs. – Il Mulino, 1987
Grandezza e caduta dell’Impero asburgico, 1815-1918 / A. Sked. – Il Mulino, 1987
La Prussia tra riforma e rivoluzione, 1791-1848 / R. Koselleck. – Il Mulino, 1987
Tra Asburgo e Prussia: la Germania dal 1815 al 1866 / H. Lutz. – Il Mulino, 2000
Storia dell’Impero russo, 1801-1917 / H. Seton-Watson. – Einaudi, 1971
La Russia degli zar / M. Raeff. – Laterza, 1984

 Cap. 7. Il Risorgimento italiano

Parola chiave

Federalismo

Per federalismo (dal latino foedus, patto) si ntende quella teoria politica che propugna l’associazione tra diversi stati e la creazione di entità sovranazionali capaci di assicurare la convivenza e la cooperazione fra diverse realtà salvaguardandone al tempo stesso la reciproca autonomia.
Presente come ipotesi teorica nel pensiero illuminista (in particolare in Kant), il federalismo, nella sua versione sovranazionale, trovò le sue prime occupazioni e i suoi primi modelli nella Svizzera e negli Stati Uniti d’America.
In concreto, il federalismo è stato fatto proprio, in tempi e contesti diversi, da correnti politiche molto diverse tra loro.
“Federalisti” si definirono quegli intellettuali americani (Hamilton, Madison, Jay) che, ai tempi del dibattito sulla costituzione degli Usa, si schierarono per un rafforzamento degli organi federali  pur nel rispetto dell’autonomia dei singoli stati.
Successivamente il federalismo è stato spesso invocato, in polemica col modello di Stato accentrato proprio dai fautori delle autonomie, sia di ispirazione liberale, come Cattaneo, sia di tendenza socialista, come Proudhon: capostipite quest’ultimo di una nutrita corrente di federalismo socialista e anarchico.
Un caso a parte è quello di Mazzini, strenuo sostenitore dello Stato nazionale unitario, ma favorevole a una federazione fra le nazioni d’Europa (e, in prospettiva, del mondo intero).
Nel ‘900, l’ideale federalista ha tratto nuovi spunti dall’esperienza delle due guerre mondiali per invocare il superamento dello Stato nazionale e la creazione di entità sovranazionali capaci di bloccare l’insorgere di altri conflitti.
Nell’Europa del secondo dopoguerra, questa corrente ha dato origine al movimento federalista europeo (rappresentato in Italia soprattutto da Altiero Spinelli), attivo nel promuovere e nello stimolare i processi di integrazione politica fra i paesi del vecchio continente.
Negli ultimi decenni del 20. secolo, mentre il progetto di Unione europea procedeva verso una lenta e contrastata realizzazione (sia pure con modalità diverse da quelle auspicate dai federalisti), si manifestava in alcuni paesi del vecchio continente un nuovo tipo di federalismo, a vocazione non più sovranazionale ma infranazionale: orientato cioè non all’unione fra stati già sovrani ma, al contrario, alla divisione di Stati già accentrati in entità autonome, individuate in base a criteri etnici, culturali o anche economici e considerate, al contrario degli “artificiali” Stati nazionali, più vicine ai bisogni e ai sentimenti delle popolazioni.
Questo federalismo – che sui tempi lunghi non esclude la creazione di entità più ampie (l’Europa delle regioni) – può facilmente sfociare in forme di vero e proprio separatismo.
In Italia ciò è accaduto in tempi recenti ad opera del movimento leghista, sviluppatosi prima in Veneto e in Lombardia e poi diffusosi in buona parte delle regioni settentrionali.

Citazione

Come molti altri paesi europei – dalla Polonia all’Irlanda, dalla Grecia all’Ungheria – anche l’Italia conobbe, nella prima metà dell’800, un processo di graduale riscoperta e di sempre più netta rivendicazione della propria identità nazionale.
Questo processo, che avrebbe portato nel giro di pochi decenni alla conquista dell’indipendenza, fu definito dai contemporanei, e poi dagli storici, col nome di “Risorgimento”: una definizione che ne sottolineava il carattere di rinascita culturale e politica, di riscatto da una condizione di servitù e di decadenza morale, di ritorno a un passato glorioso (non importa se reale o mitico).
Per la verità l’Italia, diversamente dalla Polonia o dall’Ungheria, non aveva mai conosciuto, lungo tutto il corso della sua storia, l’esperienza di uno Stato unitario.
Era stata unita politicamente solo ai tempi dell’Impero romano, ma all’interno di un’unità statale di tipo universalistico e sovranazionale.
In seguito, era sempre rimasta divisa e, almeno in parte, subordinata a sovranità straniere: subordinazione che era diventata pressoché completa a partire dal ‘500, proprio in coincidenza con una stagione di splendore artistico e di indiscusso primato culturale.
Eppure, se uno Stato italiano non era mai esistito, un’idea di Italia, in quanto comunità linguistica, esisteva almeno fin dall’epoca dei comuni.
E questa idea era sempre stata viva nel pensiero degli intellettuali italiani, da Petrarca a Machiavelli ad Alfieri.
Nel ‘700, col diffondersi della cultura illuminista, questa consapevolezza si era fatta più viva e assieme ad essa si era manifestata in misura crescente l’aspirazione a una rinascita, a un rinnovamento culturale e morale di tutto il popolo italiano: anche se questa aspirazione non si era tradotta immediatamente in una precisa rivendicazione politica.
Voci unitarie e indipendentiste erano emerse, negli ultimi decenni del secolo, all’interno del movimento giacobino (soprattutto fra le correnti più radicali).
Ma erano rimaste soffocate dalla contraddizione tipica di tutto il giacobinismo italiano: quella di essere portatore di idee rivoluzionarie anche nel campo dei rapporti fra le nazioni e di dover legare la realizzazione di queste idee alle sorti di una potenza straniera.
La stessa esperienza della Repubblica italiana e poi del Regno italico – esperienza per molti aspetti positiva, se non altro per il fatto di aver unito in un unico organismo statale tutte le popolazioni della parte più progredita del paese – era stata minata da questa contraddizione di fondo, aggravata dalla politica nazionalista e assolutista di Napoleone.
Con la Restaurazione e con lo stabilirsi di un’egemonia austriaca su tutta la penisola, la situazione dell’Italia peggiorò sotto molti punti di vista.
Ma certamente per i patrioti italiani i problemi risultarono semplificati: la lotta per gli ideali liberali e democratici poteva ora coincidere con quella per la liberazione dal dominio straniero.
Questo però non significava ancora battersi per l’indipendenza e l’unità italiana.
Nei moti del ’20-’21 la questione nazionale fu pressoché assente, o comunque subordinata alle rivendicazioni di ordine costituzionale, alle spinte per un mutamento politico all’interno dei singoli stati.
Lo stesso programma dei Federati lombardi e piemontesi non andava oltre l’ipotesi di un Regno dell’Italia settentrionale sotto la monarchia sabauda.
Nei moti che ebbero luogo dieci anni dopo nelle regioni del Centro-Nord, l‘assenza di una visione unitaria risultò ancora in modo evidente.
Dal fallimento di questi moti, come vedremo fra poco, avrebbe tratto spunto Giuseppe Mazzini per elaborare una nuova concezione, che aveva il suo punto centrale proprio nella rivendicazione dell’unità e dell’indipendenza nazionale.

Sommario

Se uno Stato italiano non era mai esistito, l’idea di una nazione italiana era presente, sin dall’età comunale, nel pensiero degli intellettuali.
Questa idea acquistò nuovo vigore durante la dominazione napoleonica, che vide il diffondersi tra i giacobini italiani di orientamenti unitari e indipendentisti.
Orientamenti che, messi in ombra durante la Restaurazione e sostanzialmente assenti nel moti del ’20-’21, riemersero nei nuovi moti del 1831.
I moti del 1831 nei Ducati di Modena e Parma e nelle Legazioni pontificie trassero origine, oltre che dalla rivoluzione di luglio in Francia, da una trama cospirativa che tentò di coinvolgere lo stesso duca Francesco 4.
Questi, però, rivelò i suoi veri intenti arrestando i capi della congiura.
La rivolta scoppiò egualmente nelle Legazioni pontificie e si estese successivamente ai Ducati.
La novità dei moti stava nel fatto che i suoi protagonisti furono i ceti borghesi, appoggiati dall’aristocrazia liberale e da una certa mobilitazione popolare.
Divisioni municipaliste e contrasti tra moderati e democratici favorirono l’intervento austriaco, che stroncò l’insurrezione dell’Italia settentrionale.
La sconfitta dei moti del ’31 provocò la crisi definitiva della Carboneria a favore di un nuovo indirizzo che ebbe il suo principale sostenitore in Giuseppe Mazzini.
In lui le aspirazioni democratiche erano inserite in una concezione caratterizzata da aspetti mistico-religiosi e dominata dall’idea di una missione spettante all’Italia.
Non privo di attenzione per le questioni sociali, il pensiero mazziniano era tuttavia incentrato sugli obiettivi nazionali (indipendenza, unità, repubblica) e sulla convinzione che unico mezzo per raggiungerli fosse l’insurrezione popolare.
Fondata la Giovine Italia (1831), Mazzini si impegnò nell’organizzazione di tali insurrezioni; nel ’34 una spedizione in Savoia si risolse in un fallimento.
Gli insuccessi di altre simili iniziative favorirono le critiche all’impostazione data da Mazzini al problema nazionale e il diffondersi di nuovi orientamenti politici.
Il decennio 1830-40 fu segnato in Italia, a differenza di quanto accadeva in Europa, da una sostanziale continuità con l’età della Restaurazione.
L’opposizione a qualsiasi riforma caratterizzò lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie, mentre la politica del Granduca di Toscana continuò ad essere moderatamente tollerante e il Piemonte, nonostante gli orientamenti clericali e legittimisti di Carlo Alberto, attuò alcune significative riforme.
Lo sviluppo economico del periodo fu assai lento: qualche progresso non bastò a ridurre il divario che si stava accumulando nei confronti dell’Europa più avanzata.
Sul piano degli orientamenti politici, gli anni ’40 si caratterizzarono per l’emergere di un orientamento che cercava di dare soluzioni moderate al problema nazionale.
Tale orientamento, che ebbe il suo maggiore interprete in Gioberti, era imperniato sulla  riscoperta della funzione nazionale della Chiesa Cattolica (neoguelfismo).
Il successo delle correnti moderate era dovuto al fatto che esse sembravano offrire soluzioni graduali e tali da non implicare, a differenza dell’indirizzo mazziniano, via insurrezionali.
Elementi di gradualismo e federalismo erano presenti anche nella corrente democratica e repubblicana lombarda, il cui maggior esponente fi Cattaneo.
L’elezione al soglio pontificio, nel ’46, di Pio 9. suscitò, per le circostanze da cui era risultata, un’ondata di grande entusiasmo in tutta Italia: entusiasmo accresciuto da alcune, pur limitate, riforme che egli varò.
Si vide così nel nuovo papa l’uomo capace di realizzare i disegni del moderatismo neoguelfo (tale tendenza dell’opinione pubblica fu accentuata dall’occupazione austriaca di Ferrara).
Nel corso del 1847 gli altri Stati italiani (escluso il Regno delle Due Sicilie) si trovarono costretti, di fronte alle pressioni dell’opinione pubblica e alle manifestazioni popolari, a concedere anch’essi alcune limitate riforme.

Bibliografia

Dalla Restaurazione alla Rivoluzione nazionale. Vol. 2 della Storia dell’Italia moderna / G. Candeloro. – Feltrinelli, 1958
Le premesse dell’Unità. Vol. 1. della Storia d’Italia / Sabbatucci, Vidotto. – Laterza, 1994
L’Italia del Risorgimento / A. Scirocco. – Il Mulino, 1990
Il Risorgimento italiano / A. M. Banti. – Laterza, 2008
Pensiero e azione del Risorgimento / L. Salvatorelli. – Einaudi, 1943
Mazzini e i rivoluzionari italiani: il “Partito d’Azione” / F. Della Peruta. – Feltrinelli, 1974
La nazione del Risorgimento / A. M. Banti. – Einaudi, 2000
Gioberti / G. Rumi. – Il MUlino, 1999
Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale / R. Romeo. – Laterza, 1974
Il Regno Lombardo-Veneto / M. Meriggi. – Utet, 1987
Società e imprenditori nel Regno borbonico / J. A. Davis. – Laterza, 1979

Cap. 8. Le Americhe

Parola chiave

Frontiera

Nell’uso corrente, e nel senso letterale, il termine “frontiera” altro non è che sinonimo di “confine”.
In senso figurato, la parola ha acquisito un significato più ampio, legato a una dimensione non solo materiale: quella di un limite che si tende continuamente a superare (si parla quindi di “frontiere della scienza”, di “frontiere del sapere”).
Fu uno storico statunitense, Frederick Jackson Turner (1861-1932), a usare questo termine, alla fine dell’800, per indicare il carattere costitutivo e peculiare della storia del suo paese.
Contrariamente ai vecchi Stati europei, confinanti con altri Stati e costretti a combattere contro di essi per accrescere i loro territori, gli Stati Uniti d’America, originariamente dislocati lungo la costa atlantica, avevano come limite alla loro espansione continentale una frontiera “mobile”, costituita dagli immensi spazi disabitati, o abitati da popolazioni seminomadi, che si estendevano a Ovest fino all’Oceano Pacifico.
La conquista e la colonizzazione di questi spazi, durata per oltre un secolo, aveva, secondo Turner, forgiato il carattere nazionale, stimolando l’individualismo e lo spirito di iniziativa e favorendo il radicamento e la crescita della democrazia: nell’Ovest, a contatto con la natura selvaggia,  non esistevano infatti gerarchie sociali consolidate e ognuno si sentiva responsabile del proprio destino.
Le tesi di Turner (esposte compiutamente in un volume pubblicato nel 1920 e intitolato appunto La frontiera nella storia americana) sono state spesso criticate per aver idealizzato eccessivamente una vicenda che in realtà fu intessuta anche di violenza e prevaricazione, ma certamente riflettevano l’immagine prevalente che i cittadini degli Stati Uniti avevano di sé e del loro paese.
Non a caso, un uomo politico del ‘900, John Fitzgerald Kennedy, nel suo discorso di accettazione della candidatura a presidente degli Usa per il Partito democratico (Los Angeles, 15 luglio 1960) avrebbe ripreso quell’immagine additando ai suoi concittadini i traguardi di una “nuova frontiera” tutta immateriale, al di là della quale si estendevano i territori ancora inesplorati della scienza e dello spazio, della pace e della giustizia sociale.

Sommario

Al principio dell’800 le diverse zone dell’America Latina erano caratterizzate da comuni caratteri economici (prevalenza delle aziende agricole di grandi dimensioni) e sociali (una stratificazione imperniata sulla distinzione razziale tra creoli, meticci, indios).
Con l’invasione della Spagna da parte di Napoleone si mise in moto la lotta per l’indipendenza.
Dopo una battuta di arresto dovuta alla restaurazione della monarchia spagnola, la lotta riprese nel 1816 (con l’appoggio decisivo della Gran Bretagna), sotto la guida di Bolivar e San Martin. Nel 1824, sconfitti definitivamente gli spagnoli, l’America Latina era ormai indipendente.
La fase successiva all’indipendenza vide il fallimento dei progetti di unire l’America Latina in una grande confederazione sul modello degli Usa; si ebbe invece una frammentazione politica in diversi stati.
Né, sul piano economico, l’indipendenza segnò una svolta verso lo sviluppo: l’economia latino-americana continuò infatti ad essere modellata in funzione delle esportazioni verso l’Europa.
Gli squilibri sociali ereditati dall’età coloniale non si attenuarono, e anzi il peso dei grandi proprietari terrieri divenne maggiore.
Tutti questi fattori contribuirono a determinare, dal punto di vista politico, una costante instabilità in cui trovava spazio  l’azione di capi militari.
L’eccezionale sviluppo degli Stati Uniti nei decenni successivi all’indipendenza traeva origine da alcuni caratteri peculiari della società americana.
Anzitutto il fattore geografico: esistevano ad Ovest immensi spazi, occupati da poche centinaia di migliaia di indiani, su cui si riversò una ondata di pionieri.
Questo carattere “mobile” della frontiera contribuì a plasmare profondamente la mentalità americana, favorendo uno spirito individualista ed egualitario.
La naturale tendenza verso la democrazia era poi rafforzata dalle peculiarità di una rivoluzione borghes, che non si era dovuta scontrare contro retaggi feudali ed aristocratici.
Fino agli anni ’20 la scena politica negli Usa fu dominata dal contrasto tra federalisti (che esprimevano gli interessi della borghesia urbana ed erano favorevoli ad un rafforzamento del potere centrale e al protezionismo) e repubblicani (che esprimevano gli interessi degli agrari del Sud e dei coloni dell’Ovest, difendevano l’autonomia dei singoli stati e richiedevano una politica liberistica).
Saliti al potere nel 1800 con Jefferson, i repubblicani vi rimasero per quasi trent’anni.
Scomparsi dalla scena i federalisti e dopo la scissione dei repubblicani in due correnti, nazionali e democratici, questi ultimi si affermarono nel 1828 con l’elezione alla presidenza di Jackson, tipico rappresentante dello spirito della frontiera.
L’espansione territoriale degli Stati Uniti si attuò, nella prima metà dell’800, secondi due direttrici: verso ovest e verso sud.
La corsa all’Ovest fu il risultato dell’iniziativa dei pionieri ma fu anche appoggiata dal potere centrale, soprattutto per quel che riguardava i continui conflitti con gli indiani (progressivamente scacciati verso ovest).
L’espansione a sud si realizzò attraverso l’acquisto della Louisiana  (dalla Francia) e della Florida (dalla Spagna).
Negli anni ’40, dopo una guerra contro il Messico, gli Stati Uniti ottennero i territori compresi tra il golfo del Messico e il Pacifico.
Nel 1823 il presidente Monroe aveva affermato l’egemonia degli Usa su tutto il continente, sostenendo che ogni intervento europeo sarebbe stato considerato ostile.

Bibliografia

Storia dell’America Latina / T. Halperin Donghi. – Einaudi, 1972
L’America Latina / C. Gibson…et al. – Utet, 1976
La grande illusione delle oligarchie / M. Carmagnani. – Loescher, 1981
Gli Stati Uniti / R. Luraghi. – Utet, 1974
Storia degli Stati Uniti / A. Nevins, H. S. Commager. – Einaudi, 1980
Espansione e conflitto: gli Stati Uniti dal 1820 al 1877 / D. B. Davis, D. H. Donald. – Il Mulino, 1987
La frontiera nella storia americana / E. J. Turner. – Il Mulino, 1959

Cap. 9. Le rivoluzioni del 1848

Parola chiave

Suffragio universale

Nell’antica Roma lo jus suffragis era il diritto del cittadino di votare nei comizi, ossia nelle assemblee popolari in cui si prendevano le decisioni più importanti.
Dopo aver assunto nel corso del tempo altri e diversi significati (nel linguaggio della Chiesa la parola sta per “aiuto”, “soccorso”, e anche “preghiera” per le anime dei defunti), il termine “suffragio” è tornato in età moderna e contemporanea come sinonimo di voto o diritto di voto per l’elezione dei membri delle assemblee rappresentative.
Il suffragio può essere diretto, se serve a designare direttamente i rappresentanti, o indiretto, se esprime un corpo ristretto che poi procederà all’elezione; uguale, quando ogni voto conta come gli altri, o plurimo se si riconosce un peso maggiore al voto di alcune categorie di elettori rispetto ad altre.
Può essere inoltre – e su questo punto soprattutto si incentrò il dibattito nel corso dell’800 – universale, se attribuito a tutti i cittadini senza distinzione, o ristretto, se limitato in base a requisiti economici (censo) o di merito (titolo di studio, professione o altro).
In realtà anche il suffragio nominalmente universale poteva soffrire di limitazioni di diverso tipo: la più vistosa era quella che riguardava le donne, i cui diritti per tutto l’800 furono sostenuto solo da poche voci isolate (fra queste quella di John Stuart Mill).
Ma si poteva essere esclusi dal voto anche per motivi di “indegnità morale” o perché di condizione servile.
Nei primi decenni del 19. secolo il suffragio universale – s’intende maschile – fu invocato dai democratici, mentre i liberali moderati erano per lo più favorevoli al suffragio ristretto (di fatto limitato a strati assai sottili della popolazione).
Dopo l’esperienza delle rivoluzioni del ’48, le cose si fecero più complicate: molti democratici, infatti, pur mantenendo ferma la richiesta di principio, si mostrarono in realtà perplessi nei confronti di una riforma che avrebbe portato alle urne anche i ceti rurali, sospetti quanto influenzabili dai grandi proprietari e dal clero.
Per gli stessi motivi, alcuni conservatori, sull’esempio di quanto avevano fatto Napoleone 3. in Francia e Bismarck in Prussia, si schierarono a favore del suffragio universale, visto come strumento di stabilizzazione politica e sociale.
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, anche in coincidenza con al diffusione dell’istruzione, il suffragio universale maschile si affermò, a prescindere dai regimi politici, in tutti i paesi dotati di istituzioni rappresentative.
Per il suffragio veramente universale, quello esteso ad ambo i sessi, si dovette aspettare ancora qualche decennio.
In Italia le donne votarono per la prima volta nelle elezioni del 1948.

Sommario

La crisi rivoluzionaria del ’48 interessò gran parte dell’Europa continentale, anche a causa di alcuni elementi comuni presenti nei vari paesi: crisi economica del 1846-47, azione dei democratici, attesa di un nuovo grande sommovimento rivoluzionario.
Simili furono anche i contenuti delle varie insurrezioni: richiesta di libertà politiche e di democrazia e – in Italia, in Germania e Impero asburgico – spinta verso l’emancipazione nazionale.
La novità delle rivoluzioni del ’48 risiedette nella massiccia partecipazione dei ceti popolari urbani e nella presenza di obiettivi sociali accanto a quelli politici.
Il centro di irradiazione del moto rivoluzionario fu la Francia.
L’insurrezione parigina di febbraio portò alla proclamazione della repubblica, che ebbe all’inizio un indirizzo democratico-sociale.
Le elezioni per l’Assemblea costituente dell’aprile ’48 sancirono la vittoria dei repubblicani moderati.
L’insurrezione di giugno dei lavoratori di Parigi fu duramente repressa e segnò la svolta in senso conservatore della Repubblica, concretizzatasi in dicembre con l’elezione a presidente di Luigi Napoleone Bonaparte.
In marzo il moto rivoluzionario si propagò all’Impero asburgico, agli stati italiani e alla Confederazione germanica.
A Vienna, Metternich dovette lasciare il potere e venne concesso un parlamento dell’Impero.
In Ungheria l’agitazione ebbe un accentuato carattere indipendentistico.
Anche a Praga e negli altri territori della monarchia asburgica si estesero, sia pure in forma meno accentuata, le rivendicazioni di autonomia.
La repressione militare della sollevazione di Praga (giugno 1848) segnò la riscossa del potere imperiale, che utilizzò abilmente le rivalità fra gli slavi e i magiari.
Dopo la repressione di una nuova insurrezione a Vienna (ottobre ’48), saliva al trono imperiale Francesco Giuseppe.
La rivoluzione di Berlino portò inizialmente ad alcune concessioni da parte del re Federico Guglielmo 4.; il movimento liberal-democratico conobbe però un rapido declino.
In maggio, sulla spinta delle agitazioni e sommosse scoppiate nei vari stati tedeschi, si era riunita a Francoforte un’Assemblea costituente con l’obiettivo di avviare un processo di unificazione nazionale tedesca.
Il rifiuto  da parte di Federico Guglielmo 4. della corona imperiale offertagli dall’Assemblea di Francoforte nell’aprile ’49 segnò in pratica la fine di quest’ultima.
All’inizio del 1848, e prima della rivoluzione di febbraio in Francia, negli stati italiani c’erano forti aspettative di un’evoluzione interna dei vecchi regimi.
La sollevazione di Palermo, in gennaio, induceva Ferdinando di Borbone a concedere una costituzione; il suo esempio era subito seguito da Carlo Alberto, Leopoldo 2. di Toscana e Pio 9.
Lo scoppio della rivoluzione in Francia dava nuova spinta all’iniziativa dei democratici italiani e riportava n primo piano la questione nazionale.
A Venezia si proclamava la repubblica; a Milano, dopo “cinque giornate” di insurrezione, fu costituito un governo provvisorio.
Il 23 marzo ’48 Carlo Alberto dichiarava guerra all’Austria, ottenendo l’appoggio del re delle Due Sicilie, del granduca di Toscana e del papa, appoggio che sarebbe stato ritirato di lì a poco.
I piemontesi, anche per la scarsa risolutezza con cui condussero le operazioni militari, vennero sconfitti a Custoza (luglio’48) e costretti a firmare un armistizio con l’Austria.
A combattere contro l’Impero asburgico restavano i democratici italiani (oltre a quelli ungheresi).
In Sicilia esistevano i separatisti, a Venezia era proclamata di nuovo la repubblica, in Toscana si formava un triumvirato democratico, a Roma, dopo la fuga del papa (novembre ’48), si proclamava la repubblica.
Nel marzo ’49 il Piemonte riprendeva la guerra contro l’Austria.
Subito sconfitto a Novara, Carlo Alberto abdicava a favore del figlio Vittorio Emanuele 2.
I governi rivoluzionari venivano sconfitti in tutta Italia: terminava la rivoluzione autonomistica siciliana, gli austriaci ponevano fine alla Repubblica toscana e occupavano le Legazioni pontificie, i francesi intervenivano militarmente contro la Repubblica romana.
Gli ultimi focolai rivoluzionari a soccombere furono quelli ungherese e veneto, in entrambi i casi per l’intervento asburgico.
La causa fondamentale del generale fallimento delle rivoluzioni del ’48 va individuato nelle fratture all’interno delle forze che di quelle rivoluzioni erano state protagoniste: nei contrasti, cioè, fra correnti democratico-radicali e gruppi liberal-moderati.
Aveva pesato inoltre, nel determinare la sconfitta delle esperienze rivoluzionarie italiane, l’estraneità delle masse contadine, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione.
In Francia si accentuava, nel 1849, l’evoluzione della situazione politica in senso conservatore.
Nel dicembre 1851 Bonaparte effettuò un colpo di Stato e riformò la costituzione.
L’anno successivo un plebiscito sanzionava la restaurazione dell’impero: Luigi Napoleone Bonaparte diventava imperatore col nome di Napoleone 3.

Bibliografia

L’età della borghesia / a cura di G. Palmade. – Vol. 27 della Storia universale Feltrinelli
La Francia della Seconda Repubblica, 1848-1852 / M. Agulhon. – Editori Riuniti, 1979
Grandezza e caduta dell’Impero asburgico, 1815-1918 / A. Sked. – Laterza, 1992
Storia della Germania moderna / H. Holborn. – Rizzoli, 1973
Tra Asburgo e Prussia: la Germania dal 1815 al 1866 / H. Lutz. – Il Mulino, 1992
La rivoluzione nazionale / G. Candeloro. – Vol. 3. della Storia dell’Italia moderna. – Feltrinelli, 1960
Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 / K. Marx. – Editori Riuniti, 1973
Una rivoluzione fallita / A. De Tocquevile. – In: Scritti politici, vol. 1. – Utet, 1969

Cap. 10. Società borghese e movimento operaio

Parola chiave

Progresso

Nel linguaggio comune, “progresso” è “sinonimo” di avanzamento o di “sviluppo”.
In termini storico-filosofici, credere nell progresso significa pensare che il corso della storia sia necessariamente orientato verso il graduale miglioramento della condizione umana, verso un aumento della felicità – o del benessere materiale, o della ricchezza spirituale – dei singoli e della collettività.
L’idea moderna di progresso è nata con l’Illuminismo: tipica della cultura illuministica è infatti una concezione laica della storia, che considera la natura umana perfettibile e la felicità realizzabile nel mondo degli uomini (e non solo dell’aldilà).
Nell’età romantica, l’idea di progresso viene mutando i suoi tratti e si lega alle concezioni idealistiche e storicistiche che vedono la storia come un processo di continuo arricchimento dello spirito universale: un processo che è inarrestabile e necessario, ma non dipende dall’azione dell’uomo, anzi la determina.
L’epoca del positivismo è stata quella in cui l’ideale di progresso ha conosciuto la sua maggiore affermazione, fino a costituire il nucleo centrale e l’idea-guida della cultura borghese nella seconda metà dell’800.
Anche per i positivisti il progresso è il risultato di leggi immanenti allo sviluppo storico, più che della volontà dei singoli (gli uomini possono tutt’al più agire per accelerare il progresso o per rallentarlo).
Ma si tratta di leggi scientifiche, analoghe a quelle che regolano l’evoluzione del mondo naturale; e l’accento è posto non tanto sul progresso “spirituale”, quanto sullo sviluppo tecnico e materiale.
Questa idea di progresso è entrata in crisi alla fine dell’800, assieme a tutto il sistema culturale e filosofico legato al positivismo.
Le vicende drammatiche del ‘900 – in particolare le due guerre mondiali – hanno ulteriormente incrinato la fiducia in un corso razionale e ordinato della storia dell’umanità; e la cultura del ‘900, in tutte le sue molteplici correnti, ha assunto nei confronti dell’idea di progresso un atteggiamento più critico e disincantato.
Nemmeno il grande processo di sviluppo economico e di avanzamento scientifico verificatosi nell’epoca successiva al secondo conflitto mondiale (epoca per altro verso dominata dall’incubo della guerra nucleare) è valso a riproporre l’idea del progresso nei termini ottimistici in cui veniva concepita nell’800.

Citazione

Molti furono i fattori che resero possibile il boom degli anni ’50 e ’60.
Fra questi possiamo elencarne cinque principali.
1. Dopo il 1848, soprattutto in quei paesi dell’Europa centro-orientale dove più forti erano le sopravvivenze dell’antico regime, furono cancellate o lasciate cadere in disuso molte leggi che fin allora avevano inceppato le attività economiche.
Furono smantellati gli ordinamenti corporativi che regolamentavano l’esercizio dei mestieri, ostacolando la mobilità del lavoro e l’innovazione tecnologica.
Furono definitivamente abrogate le vecchie (e mai seriamente applicate) leggi che proibivano il prestito a interesse.
Furono mitigate le pene dei condannati per debiti o per fallimento.
Fu perfezionata la disciplina dei brevetti.
Si diffuse sempre più l’uso della carta-moneta e degli assegni.
2. Assieme ai vecchi vincoli giuridici, caddero, nel giro di pochi anni, le numerose barriere che si frapponevano alla ibera circolazione delle merci: imposte sul traffico delle vie d’acqua, dazi interni e soprattutto dazi di entrata e di uscita ai confini tra gli stati.
Una fitta rete di trattati commerciali, che prevedevano congrue riduzioni delle tariffe doganali, fu stretta tra le principali potenze europee, Russia compresa.
Il trionfo del libero scambio favorì in primo luogo la Gran Bretagna che, grazie alla sua più collaudata struttura industriale, poteva offrire i suoi prodotti a prezzi competitivi sui mercati stranieri; ma finì col giovare anche agli altri paesi europei, in quanto, provocando la scomparsa delle imprese meno attrezzate per reggere la concorrenza, favorì la modernizzazione dell’apparato produttivo.
3. Dopo la metà del secolo, la scoperta e lo sfruttamento di nuovi giacimenti minerari nell’Europa continentale (come quelli di Pas de Calais in Francia o del bacino della Ruhr in Germania) aumentarono in misura considerevole la disponibilità delle materie prime più importanti: i minerali ferrosi e soprattutto il carbone, prima ed essenziale fonte di energia per i paesi industrializzati.
4. La scoperta, nel 1848, di nuovi giacimenti auriferi in California fece affluire in Europa cospicue quantità di metalli preziosi.
Ne derivò un rapido aumento della circolazione monetaria, che causò a sua volta l’abbassamento dei tassi di interesse e l’espansione del credito.
Le banche assunsero una funzione decisiva nel promuovere lo sviluppo, incanalando i capitali disponibili verso gli investimenti produttivi.
Nacquero a questo scopo, soprattutto in Francia e in Germania, “banche di investimento” (o “banche d’affari”), la cui funzione principale non consisteva tanto nel fornire prestiti a breve termine per operazioni commerciali, quanto nel sostenere iniziative di ampio respiro con finanziamenti a lunga durata.
Fu questo il caso delle banche di credito mobiliare sorte nella Francia del Secondo Impero o delle banche miste tedesche, chiamate così perché svolgevano contemporaneamente due funzioni: quella tradizionale della raccolta di risparmio e dell’offerta di credito a breve termine  e quella nuova dell’investimento a lungo termine nelle imprese industriali.
5. Ai fattori che abbiamo appena elencato ne va aggiunto un altro non meno importante, che fu insieme causa ed effetto dello sviluppo industriale: l’affermazione e la diffusione di nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, primo fra tutti la ferrovia, simbolo dell’età industriale, ma al tempo stesso contribuì potentemente ad alimentarla: sia perché allargava a dismisura le possibilità di circolazione dei prodotti dell’industria, sia perché determinava essa stessa una domanda in continua espansione per i settori siderurgico e meccanico. 

Sommario

Al conservatorismo politico che, dopo il fallimento delle rivoluzioni del ’48-49, caratterizzava la situazione europea, faceva riscontro un processo di profondo mutamento sociale.
Il ventennio successivo al ’48 vide la crescita della borghesia: un ceto sociale attraversato da notevoli differenziazioni interne e tuttavia portatore di uno stile di vita e di un insieme di valori sostanzialmente unitari.
Centrale, tra questi valori, era la fede nel progresso generale dell’umanità, che poggiava sull’imponente sviluppo economico e scientifico della seconda metà dell’800.
Sul piano culturale, il progresso scientifico diede origine a una nuova corrente filosofica, il positivismo, che diventò l’ideologia della borghesia in ascesa e influenzò tutta la mentalità dell’epoca.
Il rappresentante più noto del nuovo spirito “positivo” fu Darwin, cui si deve la teoria dell’evoluzione e della selezione naturale.
Dalla fine degli anni ’40 l’economia europea conobbe una fase id forte sviluppo durata quasi un quarto di secolo.
Lo sviluppo interessò anzitutto l’industria, principalmente nei settori siderurgico e meccanico.
Si generalizzò in quest’epoca l’impiego delle macchine a vapore e del combustibile minerale.
I fattori principali del boom industriale degli anni ’50 e ’60 furono: la rimozione dei vincoli giuridici che ostacolavano le attività economiche, l’affermarsi del libero scambio, la disponibilità delle materie prime, la diminuzione dei tassi di interesse e l’espansione del credito a favore degli impieghi industriali, lo sviluppo dei nuovi mezzi di trasporto (navi a vapore e, soprattutto, ferrovie) e di comunicazione (telegrafo).
Si diffondeva, nello stesso periodo, la figura dell’operaio di fabbrica, le cui dure condizioni di vita e di lavoro favorivano il formarsi di una coscienza di classe e delle prime associazioni operaie (soprattutto in Gran Bretagna, Germania e Francia).
La teoria socialista assunse, con l’opera di Marx, il carattere di teoria “scientifica” contenente un’indicazione di superamento del capitalismo.
Progressivamente il marxismo si sarebbe affermato quale dottrina ufficiale del movimento operaio.
Nel 1864 venne fondata la Prima internazionale, la cui storia fu caratterizzata dai contrasti fra le varie correnti – principalmente tra marxisti e anarchici – che avrebbero presto condotto alla sua dissoluzione.
Il maggior teorico dell’anarchismo  fu Bakunin, le cui teorie si distinguevano per alcuni aspetti sostanziali da quelle di Marx.
Bakunin, tra l’altro, riteneva che, una volta abbattuto il potere statale, il comunismo si sarebbe instaurato spontaneamente, senza dunque la fase di “dittatura del proletariato” prevista da Marx.
Egli considerava, inoltre, le masse diseredate (e non il proletariato industriale) il soggetto della rivoluzione.
Per quest’ultimo motivo il bakunismo si diffuse soprattutto nei paesi più arretrati.
Di fronte alla società borghese, il mondo cattolico da un lato assunse un atteggiamento di dura condanna (Sillabo, 1864), dall’altro, si fece promotore, con i movimenti cristiano-sociali, di un intervento dello Stato a favore dei lavoratori e di un associazionismo cattolico.

Bibliografia

Il trionfo della borghesia, 1848-1875 / E. J. Hobsbawm. – Laterza, 1976
Il Secolo di Darwin / L. Eiseley. – Feltrinelli, 1975
Prometeo liberato / D. S. Landes. – Einaudi, 1978
Storia economica dell’Europa continentale / A. S. Milward, S. B. Saul. – Il Mulino, 1977
La conquista pacifica: l’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970 / S. Pollard. – Il Mulino, 1984
Storia del pensiero socialista / G. D. H. Cole. – Laterza, 1967
Introduzione a Marx / G. Bedeschi. – Laterza, 1981
Liberalismo e integralismo: tra stati nazionali e diffusione missionaria, 1830-1870. – Vol. 8/2 della Storia della Chiesa / a cura di H. Jedon. – Jaca Book, 1977
Il pontificato di Pio 9., 1846-1878 / R. Aubert. – Ed. Paoline, 1976. – Vol. 21/1-2 della Storia della Chiesa dalle origini ai nostri giorni / a cura di A. Fliche e V. Martin

Cap. 11. Città e campagna

Parola chiave

Piano regolatore

Il piano regolatore è lo strumento normativo – ossia l’insieme di regole e prescrizioni – impiegato per dare ordine alla costruzione delle città.
I regolamenti per lo sviluppo urbano sono in realtà antichissimi: si ritrovano nelle città mesopotamiche, cinesi, romane.
La maglia regolare delle strade, la distinzione tra le diverse funzioni dei quartieri non riguarda solo la città contemporanea.
In età moderna è celebre il piano del papa Sisto 5. (1585-90) per Roma con la definizione di un tridente che si diparte da piazza del Popolo e collega i percorsi verso le grandi basiliche (S. Maria Maggiore, S. Croce in Gerusalemme, S. Giovanni in Laterano).
Ma con la trasformazione delle città tradizionali in centri industriali e commerciali, con l’ampliamento delle loro funzioni burocratico-amministrative, con la costruzione delle grandi stazioni ferroviarie, dei parlamenti e dei municipi (tutti fenomeni che furono accompagnati, nel corso del 19. secolo, da un vistoso incremento della popolazione urbana) la redazione dei piani regolatori divenne un passaggio obbligato.
La spinta iniziale venne dalla necessità di risanare igienicamente i vecchi quartieri e dotarli di una rete fognaria.
Seguirono i grandi interventi di trasformazione delle città: i boulevards di Haussmann a Parigi (1855-70), la costruzione del Ring a Vienna (1860), gli inizi della metropolitana a Londra (1863).
L’Italia fissò in una legge del 1865 (rinnovata e ampliata con una nuova legge urbanistica del 1942)le norme relative ai piani regolatori e ai criteri di espropriazione per cause di pubblica utilità.
Nel 1865 Firenze (allora capitale d’Italia) ebbe il suo piano regolatore, seguita da Roma nel 1882, Napoli nel 1885, Milano nel 1889.
In molti casi, però, il piano regolatore non veniva rispettato nella sua integrità: lo sviluppo urbano non riusciva a seguire le previsioni del piano e gli interessi in gioco – rappresentati da proprietari di aree, da costruttori e anche dalle esigenze dei cittadini alla ricerca di una casa – erano troppo forti per essere disciplinati.
Si aprivano così innumerevoli contese con le autorità pubbliche per modificare e attenuare le disposizioni vigenti tanto da rendere la redazione dei nuovi piani regolatori un’impresa lunga e difficile, realizzabile solo in presenza di amministrazioni comunali in grado di costruire (o di imporre) un largo consenso tra le parti.
In anni recentisi è giunti a rinunciare a un piano regolatore generale per ricorrere a strumenti più agili per risolvere i problemi caso per caso.

Sommario

Nell’800 ebbe inizio quel grande processo storico che va sotto il nome di urbanesimo: aumentò non solo la popolazione  urbana ma anche il numero delle grandi città.
In Gran Bretagna, in particolare, piccoli centri si trasformarono in grandi città in pochi decenni: accadde in quei luoghi che, per la particolare posizione geografica, acquisirono nuova importanza dopo la rivoluzione industriale.
Nella seconda metà dell’800 furono soprattutto gli Stati Uniti a offrire un nuovo modello di sviluppo della città, con la costruzione dei grattacieli e l’espansione dei sobborghi periferici.
Nella seconda metà dell’800 molti grandi centri urbani assunsero una forma simile a quella che ancora oggi conosciamo.
Punti di riferimento essenziali divennero le stazioni ferroviarie, la Borsa, i centri commerciali, il tribunale, i palazzi dei ministeri.
I ceti popolari andarono ad addensarsi nelle grandi periferie, ben distinte dai quartieri residenziali borghesi.
Nello stesso periodo, quasi tutte le grandi  città europee videro moltiplicarsi le iniziative dei poteri pubblici per favorire lo sviluppo dei trasporti e per cercare di risolvere i più urgenti problemi igienici.
La ristrutturazione di Parigi fu un esempio di intervento attuato dallo Stato.
Haussmann sventrò buona parte del centro medievale e aprì una serie di larghi viali.
Principi completamente diversi guidarono lo sviluppo di Londra.
Qui l’intervento pubblico risultò quasi assente: l’espansione della città rimase nelle mani dell’iniziativa privata.
Vienna rappresentò invece un modello urbanistico per la costruzione della Ringstrasse, dove furono collocati i principali edifici pubblici e una serie di eleganti palazzi privati.
Alla fine dell’800 Chicago fu uno dei simboli più efficaci del dinamismo americano.
Distrutta da un incendio nel 1871, la città venne in breve tempo ricostruita e da allora cominciò a espandersi a ritmi straordinari.
Alla metà dell’800, in tutta l’Europa continentale erano i lavoratori della terra a costituire la grande maggioranza della popolazione attiva.
Diversi furono gli effetti della privatizzazione delle terre: in alcune regioni la scomparsa del regime feudale lasciò il posto alla piccola e media proprietà, in altre invece andò a vantaggio dei grandi latifondisti.
Ovunque, comunque, i lavoratori agricoli occupavano i gradini inferiori della scala sociale.
Fra il 1849 e il 1870 milioni di persone lasciarono il vecchio continente per andare a dissodare le terre vergini del Nord America.

Bibliografia

Storia della città / L. Benevolo. – Laterza, 1975
La città moderna e contemporanea / A. Caracciolo. – Guida, 1982
La città europea dal Medioevo a oggi / P. M. Hohenberg…et al. – Laterza, 1987
La città europea dal 15. al 20. secolo / C. De Seta. – Rizzoli, 1996
La città dell’Ottocento / G. Zucconi. – Laterza, 2001
Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea / a cura di P. Bevilacqua. – Marsilio, 1989-1991. – 3 voll. 

Cap. 12. L’unità d’Italia

Parola chiave

Plebiscito

Nella Roma repubblicana con il termine plebiscitum (“decisione della plebe”) si indicavano le deliberazioni che venivano espresse dai comizi della plebe, su proposta dei tribuni e che, in alcuni casi, assumevano valore di legge.
Il termine riapparve nella Francia rivoluzionaria per indicare un solenne pronunciamento del popolo, unico depositario della sovranità.
Il primo vero plebiscito dell’età moderna fu quello a cui Napoleone Bonaparte fece ricorso per legittimare a posteriori il colpo di Stato del 1799.
Anche le successive tappe della costruzione del potere napoleonico – dalla nomina a Primo console in quello stesso anno all’assunzione del titolo imperiale nel 1804 -  furono segnate da plebisciti, ovvero da consultazioni popolari, a suffragio universale maschile, in cui gli elettori dovevano semplicemente approvare decisioni già prese, conferendo ad esse la ratifica della sovranità popolare.
L’istituto del plebiscito fu ripreso in Francia da Luigi Napoleone Bonaparte, che anche in questo senso ripercorse un cammino analogo a quello del primo Napoleone (attraverso le due tappe della presidenza a vita, dopo il colpo di Stato del 1851, e della restaurazione dell’Impero l’anno seguente) e fu successivamente adottato in Italia dalla monarchia sabauda, che se ne servì per legittimare le annessioni con cui nacque e poi si ingrandì il Regno d’Italia e per rendere omaggio al principio della sovranità  popolare, rompendo con la tradizione della monarchia per diritto divino.
Gli elettori furono chiamati a pronunciarsi con un sì o con un no, senza alcuna garanzia di segretezza del voto, sulla scelta di una “Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale”.
Nel ‘900 il ricorso alle forme plebiscitarie fu ampiamente praticato dai regimi totalitari: sia per ratificare la scelta imposta dall’alto dei componenti degli organismi rappresentativi (in Italia le elezioni fasciste su lista unica del 1929 e 1934), sia per conferire maggior forza a decisioni di speciale importanza (ad esempio, nella Germania nazista, l’uscita dalla Società delle nazioni nel novembre 1933).
Da allora il termine, usato per lo più in senso negativo, sta a indicare lo strumento di cui si servono i regimi autoritari per richiamarsi alla legittimazione popolare e rafforzare così il ruolo del capo, senza correre i i rischi connessi alla libera espressione del voto democratico, che presuppone la possibilità di scegliere senza costrizioni fra alternative reali.
Più in generale si parla di “voto plebiscitario” o di “consenso plebiscitario” per designare l’esito schiacciante, e per questo a volte sospetto, di una consultazione elettorale.

Sommario

In Italia, la “seconda restaurazione” – cioè il ritorno dei sovrani legittimi dopo il fallimento delle rivoluzioni del ’48-49 – bloccò ogni esperimento riformatore e frenò pesantemente lo sviluppo economico dei vari stati, mentre veniva sancita l’egemonia austriaca nella penisola.
Aumentava anche il fossato che separava i sovrani dall’opinione pubblica borghese, fenomeno evidente soprattutto nei due stati che più perseguirono una politica repressiva e autoritaria: lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie
Solo in Piemonte la situazione era diversa.
Qui fu conservato il regime costituzionale: inoltre, superata la crisi legata alla ratifica del trattato di pace con l’Austria, venne intrapresa dal governo D’Azeglio un’opera di modernizzazione dello Stato, soprattutto nel campo dei rapporti con la Chiesa (leggi Saccardi).
Nel 1850 Cavour entrava nel governo (come ministro dell’Agricoltura e del Commercio) e, due anni dopo, diveniva presidente del consiglio.
Si affermava, così, un politico dai vasti orizzonti culturali e d’ampia conoscenza dei problemi economici, animato dalla fede nelle virtù della libera concorrenza e da un liberalismo pragmatico e moderno.
Spostato a sinistra l’asse del governo (“connubio” con Rattazzi), Cavour pose mano anzitutto alla modernizzazione economica del paese, attraverso l’adozione di una linea liberoscambista, il sostegno dello Stato all’industria, la riorganizzazione delle attività creditizie, le opere pubbliche.
La conservazione delle libertà costituzionali, lo sviluppo economico, l’accoglienza data agli esuli provenienti dagli altri stati italiani fecero del Piemonte cavouriano il punto di riferimento per l’opinione pubblica liberale di tutta la penisola.
Proseguiva instancabile, dopo le sconfitte del ’48-49, l’attività di Mazzini, volta al raggiungimento dell’indipendenza e dell’unità per via insurrezionale.
I tragici insuccessi contro cui la sua strategia si scontrò fecero crescere i dissensi entro il movimento democratico.
Si affacciava, soprattutto con Pisacane, un’ipotesi “socialista” di liberazione nazionale, che cioè facesse leva  sulle masse diseredate del Mezzogiorno.
Il tragico esito della spedizione di Sapri (1857) – dovuto soprattutto all’ostilità delle popolazioni locali – sollecitò l’iniziativa di quegli esponenti democratici che vedevano nell’alleanza con la monarchia sabauda l’unica possibilità di successo (nel 1857 si costituì la Società nazionale).
Dopo aver ottenuto un successo diplomatico dalla partecipazione piemontese alla guerra di Crimea e alla Conferenza di Parigi (1855-56), Cavour si convinse che era indispensabile l’appoggio di Napoleone 3. per scacciare gli austriaci dalla penisola.
Favorito dagli effetti che l’attentato di Orsini ebbe sull’imperatore, strinse con questi a Plombières (1858) un’alleanza militare in vista della guerra contro l’Austria, che scoppiò nell’aprile dell’anno successivo.
Le sorti del conflitto volsero subito a favore dei franco-piemontesi.
Ma l’armistizio di Villafranca – improvvisamente stipulato da Napoleone 3. – assegnava allo Stato sabaudo la sola Lombardia.
Si dové alla nuova situazione creata dalle insurrezioni nell’Italia centro-settentrionale se il Piemonte poté annettere anche Emilia, Romagna e Toscana.
Rimanevano scontenti i democratici, che cominciarono a pensare a una prosecuzione della lotta attraverso una spedizione nel Mezzogiorno.
Nel maggio 1860 Garibaldi sbarcò in Sicilia con mille volontari e, sconfitte le truppe borboniche, formò un governo provvisorio.
Le aspirazioni dei contadini – desiderosi anzitutto di una trasformazione dei rapporti di proprietà – causarono presto la fine del clima di concordia che aveva salutato i “liberatori”.
Spaventati dalle agitazioni agrarie, i proprietari terrieri guardarono con favore all’annessione al Piemonte.
Dopo lo sbarco di Garibaldi in Calabria e il suo ingresso a Napoli, divenne urgente per il governo piemontese un’iniziativa al Sud tale da evitare complicazioni internazionali e garantire alla monarchia sabauda il controllo della situazione.
Con l’intervento dell’esercito piemontese e le annessioni, la liberazione del Sud veniva così ricondotta entro i binari della politica cavouriana.
Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele 2. fu proclamato de d’Italia.

Bibliografia

Dalla rivoluzione nazionale all’unità / G. Candeloro. – Vol. 4. della Storia dell’Italia moderna. – Feltrinelli, 1964
Cavour: un europeo piemontese / H. Hearder. – Laterza, 2000
Cavour e il suo tempo / R. Romeo. – Laterza, 1969-84
Cavour / L. Cafagna. – Il Mulino, 1999
Garibaldi / A. Scirocco. – Laterza, 2001
Garibaldi: l’invenzione di un eroe / L. Riall. – Laterza, 2007
Democrazia e socialismo nel Risorgimento / F. Della Peruta. – Editori Riuniti, 1965
La monarchia e il Risorgimento / F. Mazzonis. – Il Mulino, 2003
Le interpretazioni del Risorgimento / W. Maturi. – Einaudi, 1962
Il Risorgimento: storia e interpretazioni / L. Riall. – Donzelli, 2007

Cap. 13. L’Europa delle grandi potenze, 1850-1890

Parola chiave

Potenza

Nel linguaggio della diplomazia, sono definiti potenze quegli Stati che si dimostrano in grado, in virtù della loro forza economica e militare o della loro capacità politica, di essere soggetti attivi, e non solo oggetti, della politica internazionale, di assumere autonomamente impegni ed iniziative senza essere condizionati da vincoli di subordinazione.
Si parla poi di grandi potenze in riferimento a quegli Stati che, in un dato periodo, acquistano un ruolo egemonico in una determinata area e sono chiamati per questo ad assumere responsabilità speciali nella conduzione degli affari internazionali.
Nell’800 le grandi potenze erano cinque: Francia, Gran Bretagna, Russia, Prussia (poi Germania) e Austria.
Negli ultimi decenni del secolo a esse si aggiunsero l’Italia (cui non tutti, per la verità, riconoscevano questo ruolo) e le nuove potenze extraeuropee, gli Stati Uniti e il Giappone.
Dopo la prima guerra mondiale, l’Austria, non più centro di un impero, uscì dal novero delle grandi potenze e ne furono escluse, ma solo temporaneamente, la Germania e la Russia (che vi sarebbe rientrata come Unione Sovietica).
Quella di grande potenza è naturalmente una condizione di fatto, non prevista dal diritto internazionale, fondato sulla presunzione di uguaglianza formale fra tutti i soggetti indipendenti.
Eppure essa fu sancita ufficialmente nello statuto delle Nazioni Unite, che implicitamente attribuiva questa qualifica a cinque Stati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina), designati come membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
In realtà, all’indomani del secondo conflitto mondiale, stava già emergendo un nuovo equilibrio internazionale, basato sull’esistenza di due sole superpotenze (Stati Uniti e Urss) capaci di far sentire il loro peso sull’assetto dell’intero pianeta e di esercitare così una sorta di condominio conflittuale a livello mondiale.
Con la crisi del blocco comunista e la fine dell’Urss (1991), gli scenari mutavano di nuovo.
Gli Stati Uniti restavano l’unica superpotenza planetaria.
Ma nel frattempo emergevano altre candidate al ruolo di grande potenza (le due sconfitte della seconda guerra mondiale, la Germania riunificata e il Giappone, la stessa Russia portata ad ereditare il ruolo dell’ex-Unione Sovietica) e nuove potenze regionali (il Brasile e l’Argentina, la Turchia e l’Iran, l’India e l’Indonesia) pronte a inserirsi in una realtà internazionale diventata di nuovo fluida dopo la fine dell’equilibrio bipolare durato quasi mezzo sesolo.

Sommario

Nella seconda metà del secolo 19., la scena europea continuò a essere dominata dalla cinque “grandi potenze”, impegnate in una lotta per l’egemonia che, fra il 1850 e il 1870, provocò ben 4 guerre.
In questo periodo, il ruolo più attivo fu svolto dalla Francia del Secondo Impero, che però, nel suo tentativo di indebolire l’Austria, finì col facilitare l’ascesa della Prussia.
Dalla guerra franco-prussiana del ’70-71 uscì un nuovo equilibrio che faceva perno sulla Germania riunificata.
Il regime di Napoleone 3. cercò di coniugare l’autoritarismo allo sviluppo economico.
Al tempo stesso si impegnò in una politica estera ambiziosa e aggressiva, volta a modificare l’assetto europeo uscito dal Congresso di Vienna.
Una prima manifestazione di tale politica si ebbe con la guerra di Crimea (1854-55), quando Francia e Inghilterra si unirono per contrastare le mire della Russia sull’Impero ottomano.
Un’altra fu l’appoggio dato ai movimenti nazionali, soprattutto attraverso l’alleanza col Piemonte e la guerra con l’Austria del ’59.
Negli anni ’60 si avviò un’evoluzione liberale del regime.
L’Impero asburgico, dopo le rivoluzioni del ’48-49, accentuò i suoi caratteri autoritari e burocratici.
L’appoggio dei contadini e della Chiesa cattolica non fu sufficiente ad arrestare il declino dell’Impero, travagliato dai contrasti fra i diversi gruppi nazionali.
Nello stesso periodo la Prussia, anch’essa retta da un regime autoritario e dominata dai ceti aristocratici, ripropose la sua candidatura alla guida dei paesi di lingua tedesca, grazie soprattutto al suo sviluppo industriale.
Con l’ascesa al governo di Bismarck, la Prussia scelse la strada di un’unificazione da ottenersi soprattutto per mezzo della forza militare.
La vittoriosa guerra del ’66 contro l’Austria portò alla formazione di una Confederazione della Germania del Nord sotto l’egemonia prussiana e all’adesione della borghesia tedesca alla politica di Bismarck.
L’Impero asburgico sconfitto si riorganizzò in forma “dualistica”, dividendosi in una parte austriaca e una ungherese, dotate di larghe autonomie.
Nel 1870 Bismarck riuscì a provocare una guerra con la Francia (ultimo ostacolo ai suoi progetti di unificazione tedesca), che fu rovinosamente sconfitta a Sedan.
Col trattato di Francoforte (1871) nasceva il nuovo Reich tedesco.
La sconfitta, che rappresentò per la Franci un’autentica umiliazione nazionale, comportò la caduta di Napoleone 3. e la perdita dell’Alsazia e della Lorena.
La sconfitta ebbe tra le sue conseguenze la ribellione di Parigi e la proclamazione della Comune, radicale esperienza di democrazia diretta.
Isolata dal resto del paese, la Comune venne schiacciata dalle truppe governative dopo durissimi combattimenti nelle strade della capitale.
Dopo la guerra franco-prussiana si diffuse in Europa un nuovo clima politico: si affermò l’ideologia della forza e tramontò la politica del libero scambio.
Ciononostante l’Europa godette di un lungo periodo di pace destinato a protrarsi fino al 1914.
Fino al 1890 l’equilibrio europeo si fondò soprattutto sul sistema di alleanze costruito da Bismarck allo scopo principale di isolare la Francia.
Il sistema bismarckiano si fondò sul “patto dei tre imperatori” con Austria e Russia, reso però precario dalla rivalità fra queste due potenze: rivalità che emersero con la guerra russo-turca del ’77 e col successivo congresso di Berlino del ’78.
Il sistema di alleanze bismarckiano fu completato nel 1882 dalla Triplice Alleanza con Austria e Italia.
Dal punto di vista degli assetti interni, l’Imero tedesco era caratterizzato dalla prevalenza dell’esecutivo sul legislativo e dalla presenza di un blocco sociale dominante, fondato sull’alleanza fra industriali e aristocrazia agraria.
Ciò non impedì la nascita di nuove formazioni politiche, quali il Centro Cattolico e il Partito socialdemocratico.
La lotta di Bismarck contro i cattolici (Kulturkampf) si risolse in un insuccesso e fu abbandonata anche per la necessità di fronteggiare la socialdemocrazia.
Ma né le leggi repressive promulgate a tale scopo né le avanzate riforme sociali varate da Bismarck in materia di assistenza e previdenza per i lavoratori riuscirono a bloccare la crescita elettorale dei socialisti.
Ripresasi rapidamente dalla sconfitta del ’70-71, la Francia si diede nel ’75 una nuova costituzione repubblicana.
Il nuovo regime, dominato dai repubblicani moderato (gli “opportunisti”), riuscì a consolidarsi e a evolversi in senso parlamentare, nonostante l’instabilità dei governi e i frequenti scandali politico-finanziari.
Alla fine degli anni ’80 una minaccia fu rappresentata dall’emergere di un movimento nazionalista guidato dal generale Boulanger.
In Gran Bretagna gli anni centrali del lungo regno della regina Vittoria coincisero con un periodo di notevole prosperità economica, col rafforzamento del regime parlamentare e con alcune importanti riforme, soprattutto in materia di allargamento del suffragio.
Dopo un lungo periodo di incontrastata egemonia liberale, fra il ’66 e l’86 si alternarono al governo il liberale Gladstone, espressione dell’ala progressista del suo partito, e il conservatore Disraeli, fautore di una politica imperialistica non priva di aperture sociali.
Gladstone affrontò fra l’altro la questione irlandese cercando, senza fortuna, di concedere all’isola un regime di autonomia.
In Russia all’arretratezza politica e sociale faceva riscontro una grande vivacità della vita culturale e del dibattito ideologico.
L’avvento al trono di Alessandro 2. alimentò grandi speranze di rinnovamento, in conseguenza di alcune riforme varate dal sovrano: la più importante di tutte fu l’abolizione della servitù della gleba (1861), che però non produsse  i risultati sperati.
Seguì una nuova stretta autoritaria, con conseguente accrescersi del distacco fra potere statale e ceti intellettuali

Bibliografia

L’Europa delle grandi potenze / A. J. P. Taylor. – Laterza, 1961
Il secolo della rivoluzione / F. Furet. – Rizzoli, 1989
Il “secolo borghese” in Francia, 1815-1914 / R. Magraw. – Il Mulino, 1987
La Comune di Parigi: le otto giornate di maggio dietro le barricate / P. O. Lissagaray. – Feltrinelli, 1979
La Comune del 1871 / J. Bruhat…et al. – Editori Riuniti, 1971
La febbre francese: dalla Comune al maggio ’68 / M. Winock. – Laterza, 1987
Da contadini a francesi: la modernizzazione della Francia rurale, 1870-1914 / E. Weber. – Il Mulino, 1989
Grandezza e caduta dell’Impero asburgico, 1815-1918 / A. Sked. – Laterza, 1982
La monarchia asburgica / A. A. May. – Il Mulino, 1973
Tra Asburgo e Prussia: la Germania dal 1815 al 1866 / H. Lutz. – Il Mulino, 1992
I militari e la politica nella Germania moderna / G. Ritter. – Einaudi, 1967
L’ascesa della Germania a grande potenza: economia e politica nella formazione del Reich, 1848-1881 / H. Bohme. – Ricciardi, 1970
Bismarck: l’uomo e lo statista / A. J. P. Taylor. – Laterza, 1988
L’Impero guglielmino, 1871-1918 / H. U. Wehler. – De Donato, 1981
L’impero inquieto: la Germania dal 1866 al 1918 / M. Sturmer. – Il Mulino, 1986
L’Inghilterra vittoriana / E. Grendi. – Sansoni, 1975
L’Inghilterra vittoriana / A. Briggs. – Editori Riuniti, 1978
L’Inghilterra vittoriana: genesi e formazione / G. Kitson Clark. – Jouvence, 1980
Democrazia e impero: l’Inghilterra fra il 1865 e il 1914 / E. J. Feuchtwanger. – Il Mulino, 1989
La Russia degli Zar / M. Raeff. – Laterza, 1984
La Russia nell’età della nazione e delle riforme, 1801-1881 / D. Saunders. – Il Mulino, 1997 

Cap. 14. I nuovi mondi: Stati Uniti e Giappone

Parola chiave

Modernizzazione

“Modernizzazione” è un termine creato dalla sociologia e dalla scienza politica del ‘900 per designare quell’insieme di trasformazioni politiche, economiche e sociali che hanno avuto luogo nelle società occidentali negli ultimi due secoli (a partire, grosso modo, dalle grandi rivoluzioni politiche del ‘700 e dalla rivoluzione industriale inglese) e si sono successivamente verificate – o si stanno verificando, pur fra molte resistenze e contraddizioni – nella maggior parte del mondo.
Nel linguaggio politico contemporaneo il concetto di modernizzazione tende a sostituirsi a quello di progresso (parola chiave del capitolo 10) e a superarne la genericità mediante il riferimento a una serie di parametri “oggettivi”.
Sul piano politico, si ha modernizzazione quando l’autorità statale acquista autonomia dagli altri poteri (in particolare da quello religioso) e capacità di far rispettare le proprie decisioni; quando esistono leggi valide per tutti; quando per la popolazione si verifica il passaggio dalla condizione di sudditi a quella di cittadini dotati, almeno in teoria, di uguali diritti.
Sul piano economico, la modernizzazione è quel processo mediante il quale un sistema acquista razionalità ed efficienza e accresce la sua capacità di produrre beni e di soddisfare bisogni; in questo senso la modernizzazione coincide col passaggio da un’economia agricola a un’economia industriale e si misura con indici quali il prodotto nazionale, il reddito pro-capite e, soprattutto, il tasso di sviluppo annuo.
Sul piano sociale, la modernizzazione si identifica con una serie di processi tutti in qualche modo legati fra loro: la diffusione dell’istruzione, premessa essenziale per lo sviluppo della partecipazione politica e per la stessa crescita economica; l’urbanizzazione, conseguenza dello sviluppo industriale; l’aumento della mobilità geografica e sociale della popolazione; la rottura delle vecchie stratificazioni legate alla società tradizionale e la creazione di gerarchie basate non più, o non solo, sulla nascita, ma piuttosto sul merito individuale.
Tutti i processi cui abbiamo accennato hanno, nella tradizione culturale occidentale, un valore implicitamente positivo; e il processo di modernizzazione nel suo complesso è considerato, in questo contesto, come un fenomeno auspicabile e in qualche misura necessario.
Ma una simile prospettiva non è condivisa universalmente, né all’interno delle società industrializzate, né soprattutto in molti di quei paesi che oggi si definiscono “in vi di sviluppo”.

Se alcuni di questi paesi hanno imboccato con decisione la strada dell’industrializzazione, cercando, con alterna fortuna, di imitare l’esempio del Giappone (o quello delle economie pianificate dell’Est europeo), in altri la modernizzazione è stata vista come una “occidentalizzazione” più o meno forzata e ha provocato reazioni talora molto aspre, a sfondo nazionalistico o religioso-tradizionalistico.

Sommario

Alla metà dell’800 gli Stati Uniti erano un paese in crescente espansione, benché attraversato da forti differenze tra le diverse zone: il Nord-Est industrializzato, il Sud agricolo e tradizionalista nelle cui grandi piantagioni lavoravano milioni di schiavi neri, gli stati dell’Ovest con una popolazione di liberi agricoltori e di allevatori di bestiame.
Le popolazioni dell’Ovest cominciarono intorno alla metà del secolo a stringere invece i loro rapporti con il Nord-Est.
Lo scontro sull’estensione della schiavitù ai nuovi territori dell’Unione vide dunque una contrapposizione tra gli stati dell’Ovest e del Nord-Est e quelli del Sud.
Questa nuova dislocazione dei rapporti tra le varie zone del paese trovò riscontro nella crisi del Partito democratico e nella nascita del Partito repubblicano (che faceva proprie sia le rivendicazioni protezionistiche degli industriali settentrionali sia le richieste di terre dei coloni dell’Ovest, e si qualificava in senso nettamente antischiavista).
La vittoria del repubblicano Lincoln alla elezioni presidenziali del ’60 fece precipitare il contrasto, provocando la secessione degli stati del Sud.
Era la guerra civile (1861.65), che – dopo i primi successi dei “confederati” – doveva concludersi con la vittoria degli “unionisti”, superiori come popolazione e potenza economica.
La liberazione degli schiavi fu uno dei portati più rilevanti della guerra, benché si riproducesse presto, per la popolazione nera, una situazione di segregazione di fatto.
Superati i traumi della guerra civile, gli Stati Uniti vissero una stagione di intenso sviluppo economico e di grandi trasformazioni sociali, cui non fu estranea la continua crescita del flusso migratorio.
Sul piano della politica estera, gli Stati Uniti – impegnati a proseguire la colonizzazione dell’Ovest e il consolidamento dell’espansione nei territori di recente acquisizione – si limitarono per tutto l’800 a una interpretazione difensiva della “dottrina Monroe”, senza un grande coinvolgimento nelle vicende dell’emisfero meridionale del continente.
Unica eccezione fu l’aiuto dato ai repubblicani messicano contro il tentativo di egemonia francese in Messico (1864-67).
L’isolamento della Cina dal resto del mondo fu violentemente interrotto, alla metà dell’800, dalla pressione esercitata, dopo le due “guerre dell’oppio” (1839-42 e 1856-60), dagli stati europei (soprattutto l’Inghilterra), che imposero al paese l’apertura al commercio straniero.
Diverse furono invece, in Giappone, le conseguenze dell’impatto con l’Occidente.
Anche qui fu la costrizione a permettere, dopo i “trattati ineguali” del 1858, la penetrazione economica delle grandi potenze.
Ma l’umiliazione subita spinse i grandi feudatari e i samurai a una rivolta consto lo shogun, che di fatto esercitava il potere di sovrano assoluto relegando l’imperatore a un ruolo puramente simbolico.
La “restaurazione Meiji” (1868) si risolse in una modernizzazione accelerata dell’intera società giapponese: una “rivoluzione dall’alto” che coinvolse l’economia e la legislazione, il sistema politico e i rapporti sociali, e che consentì al Giappone di compiere in pochi anni la transizione dal feudalesimo allo Stato moderno.

Bibliografia

Gli Stati Uniti / R. Luraghi. – Utet, 1974
Storia degli Stati Uniti / A. Nevins, H. S. Commager. – Einaudi, 1980
Espansione e conflitto: gli Stati Uniti dal 1820 al 1877 / D. B. Davis, D. H. Donald. – Il Mulino, 1987
L’economia politica della schiavitù / E. D. Genovese. – Einaudi, 1972
Storia della guerra civile americana / R. Luraghi. – Einaudi, 1976
La guerra civile americana / a cura di R. Luraghi. – Il Mulino, 1978
L’Asia orientale nell’età dell’imperialismo: Cina, Giappone, India e Sud-Est asiatico nei secoli 19. e 20. / J. Chesneaux. – Einaudi, 1969
La nascita del mondo moderno in Asia orientale: la penetrazione europea e la crisi delle società tradizionali in India, Cina e Giappone / G. Borsa. – Rizzoli, 1977
Storia della Cina: dalle origini alla fondazione della Repubblica / M. Sabattini, P. Santangelo. – Laterza, 1986
La Cina. Vol. 1.: dalle guerre dell’oppio al conflitto franco-cinese, 1840-1885 / J. Chesneaux. – Einaudi, 1974
Storia del Giappone / E. O. Reischhauer. – Rizzoli, 1974
La nascita del Giappone moderno / E. H. Norman. – Einaudi, 1975
Il Giappone contemporaneo / a cura di F. Gatti. – Loescher, 1976
Le origini sociali della dittatura e della democrazia: proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno / B. Moore jr. – Einaudi, 1969 

Cap. 15. La seconda rivoluzione industriale

Parola chiave

Liberismo / Protezionismo

“Liberismo” è quella dottrina che affida al mercato – e solo al mercato – il compito di regolare l’attività economica, che si oppone all’intervento dello Stato nel mondo della produzione e del commercio, che sostiene il principio del libero scambio nei traffici tra paese e paese.
In quest’ultimo senso il liberismo si oppone al “protezionismo”: ossia quella pratica che tende a proteggere la produzione nazionale imponendo sui prodotti di importazione dazi doganali così elevati da scoraggiarne l’acquisto.
Al contrario del protezionismo – che è solo una pratica adottabile, o adottata, da regimi diversi per motivazioni diverse – il liberismo è anche un’ideologia a sfondo ottimistico che ha il suo fondamento nelle teorie di Adam Smith.
Un’ideologia che vede nella libertà economica non solo il mezzo più sicuro per ottenere il maggior benessere possibile per l’intera collettività (attraverso il perseguimento del benessere privato da parte dei singoli soggetti, ma anche il complemento indispensabile della libertà politica.
Il momento di maggior fortuna del liberismo si può collocare attorno alla metà del 19. secolo: in particolare nel periodo che seguì l’abolizione del dazio sul grano in Gran Bretagna (1846).
In questo periodo il liberismo fu, non solo in Inghilterra, l’ideologia delle correnti progressiste (che vedevano in esso anche un mezzo per sconfiggere i privilegi dell’aristocrazia terriera); e finì quasi per identificarsi col liberismo politico.
Successivamente, a partire dagli anni ’70 dell’800, le fortune del liberismo andarono declinando in tutti i paesi, salvo che in Gran Bretagna.
Negli ultimi decenni del secolo si assisté ovunque all’imposizione di elevati dazi protezionistici e, più in generale, a un intervento crescente dei poteri pubblici nelle vicende economiche (sotto forma sia di leggi sociali, sia di provvedimenti a favore di singoli comparti produttivi).
Nel corso del 20. secolo l’intervento statale si è andato continuamente sviluppando in quantità e in qualità, anche all’interno dei sistemi economici fondati sulla proprietà privata e sulla libera impresa.
Soprattutto negli anni della “grande depressione” seguita alla crisi del ’29, l’era del lassez-faire sembrò definitivamente conclusa.
Tuttavia, anche nel ‘900, le teorie liberiste hanno trovato numerosi e autorevoli sostenitori, soprattutto fra gli economisti.
Fra gli studiosi formatisi  alla fine dell’800, è il caso di ricordare Luigi Einaudi, che diede vita negli anni ’30 a una celebre polemica con Benedetto Croce, postulando un inscindibile legame fra il liberismo economico e liberalismo politico (legame che Croce contestava).
Nel secondo dopoguerra, il liberismo ha conosciuto una fase di rilancio, grazie anche alle opere di economisti come Friedrich Hayek e Milton Friedman.
Alle loro teorie si sono in parte ispirate le politiche “neoliberiste” affermatesi verso la fine degli anni ’70 come reazione alla crisi dello “Stato sociale” e applicate nei decenni successivi soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Sommario

L’ultimo trentennio dell’800 vide una profonda trasformazione economica (“seconda rivoluzione industriale”).
La crisi di sovrapproduzione del 1873 dette inizio ad una fase di rallentamento dello sviluppo durata oltre un ventennio.
La prolungata caduta dei prezzi che le si accompagnò era però conseguenza soprattutto di profonde trasformazioni organizzative e innovazioni tecnologiche.
Vari fattori – tra cui la diminuzione dei prezzi e l’acuirsi della concorrenza internazionale – portarono allo sviluppo delle grandi concentrazioni produttive e finanziarie e a una stretta compenetrazione tra banche e industrie.
Si affermava contemporaneamente nei vari stati una politica di appoggio all’economia nazionale attraverso il protezionismo e una maggiore aggressività sul piano dell’affermazione economica all’estero, che fu tra le principali cause della politica di espansione coloniale seguita dalle maggiori potenze.
Gli effetti più gravi della caduta dei prezzi si ebbero nell’agricoltura.
Qui i progressi tecnici rimasero limitati ad alcune aree europee più sviluppate.
Diverso, invece, perché privo di tali squilibri, il rilevante sviluppo degli Stati Uniti, i cui prodotti a buon mercato inflissero un colpo durissimo alla più arretrata agricoltura europea.
Di conseguenza nelle campagne d’Europa aumentarono la conflittualità sociale e l’emigrazione (soprattutto quella transoceanica, che conobbe un vero e proprio boom).
Anche la crisi agraria spinse in direzione di politiche doganali che proteggessero la produzione nazionale dalla concorrenza estera.
Nel complesso, comunque, il calo dell’agricoltura in rapporto al complesso  delle attività economiche fu comune a tutti i paesi industrializzati.
Caratteristica fondamentale della seconda rivoluzione industriale fu la stretta integrazione fra scienza e tecnologia e fra tecnologia e attività produttive, il rinnovamento tecnologico si concentrò nelle industrie giovani: chimica, elettrica, dell’acciaio (la prima rivoluzione industriale del secolo precedente era stata invece dominata dal cotone e dal ferro).
Soprattutto gli sviluppi della chimica aprirono nuove prospettive un po’ in tutti i settori produttivi: dalla produzione di alluminio a quella dei prodotti “intermedi” (come acido solforico e soda) con impieghi estesissimi, dalle fibre tessili artificiali ai nuovi metodi di conservazione degli alimenti.
L’invenzione del motore a scoppio e la produzione di energia elettrica furono tra le caratteristiche salienti della seconda rivoluzione industriale.
L’energia elettrica, in particolare, forniva una nuova importante forza motrice per gli usi industriali e rivoluzionava – anzitutto con l’illuminazione – la vita quotidiana.
Questo periodo vide anche la trasformazione scientifica della medicina, dovuta a quattro fattori: prevenzione e contenimento delle malattie epidemiche attraverso la diffusione delle pratiche igieniste; identificazione dei microrganismi; progressi della farmacologia; nuova ingegneria ospedaliera.
I progressi della medicina e dell’igiene, sommandosi allo sviluppo dell’industria alimentare, determinarono in Europa una riduzione della mortalità.
Nonostante il calo delle nascite verificatosi nei paesi economicamente più avanzati (dovuto alla diffusione dei metodi contraccettivi e a una nuova mentalità tesa a programmare razionalmente la famiglia), si ebbe così un sensibile aumento della popolazione.

Bibliografia

Prometeo liberato / D. S. Landes. – Einaudi, 1978
Storia economica Cambridge. Vol. 7. – Einaudi, 1979-80
Storia economica e sociale del mondo / a cura di P. Leon. – Laterza, 1980
Malattia e medicina / a cura di F. Della Peruta. – Vol. 7. Degli Annali di Storia dell’Italia. – Einaudi, 1984
Storia della medicina e della sanità in Italia / G. Cosmacini. – Laterza, 1987
La trasformazione demografica delle società europee / M. Livi Bacci. – Loescher, 1977
La popolazione italiana dal Medioevo ad oggi / L. Del Panta…et al. – Laterza, 1996 

Cap. 16. Imperialismo e colonialismo

Parola chiave

Imperialismo

Coniato in Francia ai tempi del Secondo impero in riferimento ai disegni egemonici di Napoleone 3., il termine “imperialismo” si affermò in Inghilterra alla fine degli anni ’70 per indicare il programma di espansione coloniale del primo governo Disraeli, per entrare poi nell’uso comune come sinonimo di politica di potenza e di conquista territoriale su scala mondiale.
In generale, l’imperialismo rappresentò la tendenza degli Stati europei a proiettare più progressivamente verso l’esterno i propri interessi economici, le proprie esigenze di difesa, la propria immagine nazionale e la propria cultura: la fusione di queste diverse componenti (economiche, politiche, ideologiche) si tradusse in una politica di potenza realizzata con la forza e spesso perseguita come fine a sé.
Nel tentativo di identificare le forze profonde che erano alla base di questi sviluppi, molte delle teorie dell’imperialismo, avanzate all’inizio del ‘900 soprattutto – ma non soltanto – da parte di studiosi marxisti, hanno posto l’accento sui suoi moventi economici (la ricerca di materie prime a buon mercato e di nuovi sbocchi per merci e capitali in eccedenza) e sui suoi legami con le trasformazioni interne del sistema capitalistico (la svolta protezionistica, le concentrazioni, la prevalenza del capitale finanziario), lasciandone in secondo piano gli aspetti ideologici e politico-militari.
Per il liberale progressista John A. Hobson  e per la marxista rivoluzionaria Rosa Luxemburg, la causa principale del fenomeno stava nel “sottoconsumo”, ossia nel divario fra la capacità sempre crescente del sistema capitalistico di produrre merci e la possibilità di acquistarle da parte dei consumatori: donde la necessità di trovare sbocchi nei mercati esteri.
Per Lenin l’imperialismo era legato alla concentrazione industriale e alla formazione del capitale finanziario e costituiva la “fase suprema” dello sviluppo capitalistico (quella che l’avrebbe condotto alla catastrofe).
Al contrario, il sociologo ed economista austriaco Joseph. A. Schumpeter sosteneva che l’imperialismo andava contro le tendenze politiche dell’economia capitalistica e andava fatto risalire alla permanenza di interessi  valori tipici delle società preindustriali.
Le diverse teorie divergono non solo sugli elementi caratterizzanti dell’imperialismo, ma anche sui suoi termini cronologici.
Secondo molti studiosi il fenomeno va collocati fra gli anni ’70 dell’800 e la prima guerra mondiale.
Altri ne spostano in avanti la data finale, comprendendovi la seconda guerra mondiale o, come alcuni marxisti, lo considerano tuttora operante.
In sede storica, si può dunque affermare che, se da un lato è scorretto identificare l’imperialismo col colonialismo (iniziato, fra l’altro, due secoli prima), dall’altro non sarebbe utile dilatare sino ai giorni nostri l’estensione del concetto, staccandolo dal contesto in cui nacque e si affermò: che è appunto quello della grande espansione delle potenze europee tra la fine del 19. e l’inizio del 20. secolo.

Sommario

Vari fattori determinarono negli ultimi decenni dell’800, quella corsa alla conquista coloniale che costituì il più caratteristico tratto dell’imperialismo europeo.
Vi fu certamente la spinta esercitata dagli interessi economici (ricerca di materie prime a basso costo e di sbocchi per i prodotti industriali e i capitali d’investimento), ma non meno importante fu l’affermarsi delle tendenze politico-ideologiche che affiancavano a un acceso nazionalismo la fede nella missione civilizzatrice dell’uomo bianco.
Le potenze conquistatrici fecero generalmente un uso indiscriminato della forza contro le popolazioni indigene; sconvolsero l’economia dei paesi afroasiatici sottoponendola a un sistematico sfruttamento; colpirono, spesso irrimediabilmente, antiche culture.
Tuttavia gli effetti della conquista non furono sempre e solo negativi: sul piano economico, essa significò anche, in molti casi, un inizio di modernizzazione, sia pure finalizzata agli interessi dei dominatori; su quello culturale, alcuni paesi con tradizioni e strutture politico-sociali più solide riuscirono a difendere la loro identità ovvero ad assimilare aspetti della cultura dei dominatori; sul piano politico, infine, la colonizzazione, a più o meno lunga scadenza, favorì il formarsi di nazionalismi locali che avrebbero alimentato la lotta per l’indipendenza.
Agli inizi dell’età dell’imperialismo, gli europei avevano già numerosi possedimenti in Asia.
Più importanti di tutti, l’India, soggetta dal ‘700 alla dominazione della Gran Bretagna e affidata al controllo della Compagnia della Indie.
I tentativi inglesi di introdurre elementi di modernizzazione nell’arcaica società indiana suscitarono violente reazioni, cui il governo britannico rispose con una sanguinosa repressione e con la riorganizzazione della colonia sotto la diretta amministrazione della corona.
L’apertura del canale di Suez, nel 1689, diede nuovo impulso alla penetrazione europea in Asia.
In questo periodo si ebbero la conquista francese dell’Indocina, la spartizione del Pacifico, lo sviluppo della colonizzazione russa della Siberia.
L’altra direttrice dell’espansionismo russo – quella versa l’Asia centrale – portò l’Impero zarista ad un duro contrasto con l’Inghilterra.
Fu in Africa che l’espansione coloniale si verificò con la velocità più sorprendente, portando nel giro di pochi decenni alla conquista quasi completa – sotto forme di colonie e protettorati – di tutto il continente.
Francia e Inghilterra occuparono rispettivamente Tunisia (1881) ed Egitto (1882).
Poco dopo (1884-85), la Conferenza di Berlino, convocata per risolvere i contrasti internazionali suscitati  dall’espansione belga in Congo, stabiliva i principi della spartizione dell’Africa e riconosceva il possesso di vari territori a Belgio, Francia, Germania e Inghilterra.
L’incidente di Fashoda (Sudan) del 1898, quando Francia e Inghilterra furono a un passo dalla guerra, mostrò quali rischi di conflitti internazionali comportasse la corsa alla conquista.
In Sud Africa l’Inghilterra, soprattutto attraverso la politica di Cecil Rhodes, mirò ad estendere il suo dominio dalla Colonia del Capo alle due repubbliche boere dell’Orange e del Transvaal, ricche di giacimenti d’oro e di diamanti.
Il disegno poté realizzarsi solo dopo una lunga e sanguinosa guerra, vinta dalla Gran Bretagna contro i boeri (1899-1902).

Bibliografia

Teorie dell’imperialismo / T. Kemp. – Einaudi, 1969
L’economia dell’imperialismo / M. Barratt Brown. – Laterza, 1977
L’età dell’imperialismo, 1830-1914 / D. K. Fieldhouse. – Laterza, 1975
Gli imperi coloniali del 18. secolo. – Vol. 29. della Storia universale Feltrinelli
L’età dell’imperialismo / G. Carocci. – Il Mulino, 1979
L’alba illusoria: l’imperialismo europeo nell’Ottocento / R. F. Betts. – Il Mulino, 1986
Al servizio dell’impero: tecnologia e imperialismo europeo nell’Ottocento / D. R. Headrick. – Il Mulino, 1984
Storia dell’India / M. Torri. – Laterza, 2000
La Cina dalla guerra franco-cinese alla fondazione del partito comunista cinese, 1885-1921 / M. Bastid…et al. – Einaudi, 1974
Storia della Cina / M. Sabbatini, P. Santangelo. – Laterza, 2007
Africa: dalla preistoria agli stati attuali / P. Berteaux. – Vol. 32 della Storia universale Feltrinelli
Storia dell’Africa nera / J. Ki-Zerbo. – Einaudi, 1977

Cap. 17. Stato e società nell’Italia unita

Parola chiave

Accentramento / Decentramento

Per tutto il secolo 19. la scena politica europea fu dominata dallo scontro “triangolare” fra conservatori, liberal-moderati e democratici: uno scontro che riguardava essenzialmente le forme e i modi della partecipazione al potere.
Ma un altro scontro non meno importante, anche se meno appariscente, era quello che concerneva l’organizzazione del potere: ovvero la forma accentrata o decentrata delle istituzioni statali.
Su questo tema si fronteggiavano due modelli: quello francese – nato con l’assolutismo regio e rafforzatosi con la rivoluzione giacobina e con l’Impero napoleonico -  prevedeva uno stretto controllo del potere centrale sugli organi di governo locale, realizzato attraverso uan fitta rete di funzionari che facevano capo ai prefetti, rappresentanti del governo nelle singole circoscrizioni amministrative (dipartimenti); quello britannico lasciava invece ampi spazi, nel campo amministrativo e anche in quello giudiziario, all’iniziativa delle comunità locali.
La linea di divisione fra i sostenitori dell’uno o dell’altro modello non coincideva con quella tra conservatori e progressisti.
Nell’800 furono soprattutto i democratici a farsi paladini dell’accentramento e dell’unità amministrativa vista come strumento di uguaglianza, mentre conservatori e moderati difesero le autonomia e le diversità locali come il contesto più adatto a far valere i tradizionali privilegi sociali delle classi alte.
Ma non mancarono, e non sarebbero mancati in seguito, esempi contrari nell’uno e nell’altro senso.
In Italia esisteva fra i democratici una forte corrente autonomista e federalista (si pensi a Cattaneo, mentre i moderati, al potere dopo l’unificazione, realizzarono un ordinamento fortemente accentrato.
Presi in sé, dunque, l’accentramento e il decentramento non sono né “di destra” né “di sinistra”: entrambi possono essere usati con scopi politici opposti.
E’ vero invece che la propensione all’accentramento è propria in qualche misura da chi detiene il potere centrale (e cerca di rafforzarne le basi), mentre il decentramento è solitamente rivendicato dalle forze che da quel potere sono escluse o non vi si sentono adeguatamente rappresentate.

Sommario

Al momento dell’unità l’agricoltura era l’attività economica nettamente prevalente nel paese; si trattava di un’agricoltura per lo più povera, caratterizzata da una grande varietà negli assetti produttivi: aziende agricole moderne (Pianura Padana), mezzadria (Italia centrale), latifondo (Mezzogiorno).
La condizione di vita dei contadini era generalmente ai limiti della sussistenza fisica.
Questa realtà di arretratezza economica e disagio sociale era assai poco conosciuta dalla classe dirigente.
Morto Cavour (giugno ’61), il gruppo dirigente che tenne le redini del paese proseguendone l’opera – sia pure senza al sua genialità e abilità – fu quello della Destra.
Le si contrapponeva la Sinistra, che faceva proprie le rivendicazioni della democrazia risorgimentale (suffragio universale, decentramento amministrativo, completamento dell’unità attraverso l’iniziativa popolare).
Destra e Sinistra erano espressione d’una classe dirigente molto ristretta (gli aventi diritto al voto erano 400000): il che diede un carattere accentrato e personalistico alla vita politica.
I leader della Destra realizzarono, sul piano amministrativo e legislativo, una rigida centralizzazione.
Tra le circostanze che li spinsero in tale direzione va ricordata soprattutto la situazione del Mezzogiorno, dove l’ostilità delle masse contadine verso i “conquistatori” assunse col brigantaggio caratteristiche di vera e propria guerriglia.
Il brigantaggio fu sconfitto grazie a un massiccio impiego dell’esercito; restò tuttavia irrisolto il problema di fondo del Mezzogiorno, cioè quello della terra (non favorirono i contadini né la divisione dei terreni demaniali né la vendita dei beni ecclesiastici).
Sul piano economico, la linea liberista seguita dal governo produsse un’intensificazione degli scambi commerciali che favorì lo sviluppo dell’agricoltura e consentì l’inserimento del nuovo Stato nel contesto economico europeo.
Fu importante anche l’impegno della Destra nella creazione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo economico (strade, ferrovie).
Nell’immediato, tuttavia, il tenore di vita della popolazione non migliorò, anche a causa della dura politica fiscale seguita dalla Destra, soprattutto quando, dopo il ’66, alla necessità di coprire gli ingenti costi dell’unificazione si sommarono le conseguenze di una crisi internazionale e le spese per la guerra contro l’Austria.
Particolarmente impopolare fu la tassa sul macinato, che provocò violente agitazioni sociali in tutto il paese.
Il completamento dell’unità costituì uno dei problemi più difficili che la Destra si trovò di fronte.
Falliti i tentativi di conciliazione con la Chiesa, riacquistava spazio l’iniziativa dei democratici: nel 1862 l’iniziativa garibaldina di una spedizione di volontari si risolse in uno scontro con l’esercito regolare (Aspromonte).
Nel 1864 fu firmata la Convenzione di settembre con la Francia, che prevedeva il trasferimento della capitale a Firenze.
L’alleanza con Bismarck contro l’Austria e la vittoria prussiana consentirono nel 1866 l’acquisto del Veneto, cui si accompagnò però una profonda amarezza nell’opinione pubblica: solo grazie alla Prussia, infatti, l’Italia allargava il suo territorio dopo una guerra in cui aveva subito due cocenti sconfitte (Custoza e Lissa).
Il problema della conquista di Roma – fallito a Mentana (1867) un nuovo tentativo garibaldino -  poté risolversi inaspettatamente con la caduta del Secondo Impero, che permise al governo italiano la presa della città (20 settembre 1870).
Con la legge delle guarentigie lo Stato italiano si impegnava a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale.
L’intransigenza di Pio 9. si manifestò nel divieto peri cattolici italiani di partecipare alle elezioni.
Nel marzo 1876, il governo fu battuto alla Camera su un progetto di legge relativo alla statizzazione delle ferrovie.
Il nuovo governo presieduto da Depretis segnava il definitivo allontanamento della Destra dal potere.
L’avvento al potere della Sinistra segnò l’inizio di una nuova fase nella politica italiana: si allontanava il periodo delle lotte risorgimentali e si allargavano in qualche misura le basi dello Stato.
Tuttavia – approvate le leggi Coppino sull’istruzione e la riforma elettorale dell’82 – gran parte del programam riformatore della Sinistra fu accantonato.
Il sistema politico italiano perse, col “trasformismo” di Depretis, il suo carattere bipartitico, finendo con l’essere dominato da un grande centro che emarginava le ali estreme.
La Sinistra abolì la tassa sul macinato e aumentò la spesa pubblica.
Se si escludono le zone più sviluppate del Nord, l’agricoltura italiana versava in condizioni assai arretrate.
Situazione ulteriormente aggravata dalle ripercussioni della crisi agraria, tra i cui effetti vi fu un rapido incremento dell’emigrazione.
La crisi agraria finì col favorire indirettamente il “decollO” industriale italiano, dimostrando quanto fosse illusoria l’idea che lo sviluppo economico del paese potesse basarsi solo sull’agricoltura.
Si affermò così una linea di appoggio dello Stato all’industria, che si manifestò anzitutto nell’adozione di tariffe protezionistiche (1878 e, soprattutto, 1887).
Il protezionismo era una strada obbligata per l’industrializzazione del paese.
Restava, e anzi si aggravava, lo squilibrio economico fra Nord e Sud.
La stipulazione della Triplice alleanza (1882) segnò nella politica estera italiana una svolta, determinata dal timore di un isolamento internazionale e dal trauma rappresentato dall’occupazione francese della Tunisia.
Il trattato costringeva l’Italia a rinunziare implicitamente alla rivendicazione di Trentino e Venezia Giulia, tenuta viva dal movimento irredentista.
Fu avviata in quegli anni un’espansione coloniale sulle coste del Mar Rosso.
Il tentativo di estendersi verso l’interno portò al contrasto con l’Etiopia e all’eccidio di Dogali (1887).
Dati i ritardi nello sviluppo industriale, la classe operaia italiana era costituita solo per una minoranza da proletariato di fabbrica.
Le società di mutuo soccorso, inizialmente dominate da mazziniani e moderati, perdettero via via terreno a favore del movimento internazionalista che in Italia ebbe essenzialmente indirizzo anarchico.
Gli anni ’80 videro una notevole crescita del movimento operaio, con la fondazione di federazioni di mestiere e Camere del lavoro, leghe bracciantili e cooperative agricole.
Nel 1892 fu fondato il Partito dei lavoratori italiani (poi Partito Socialista).
Benché il non expedit (1874) vietasse la partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche (ma non alle amministrative), la presenza cattolica nella società italiana, soprattutto nelle campagne, era massiccia.
L’Opera dei congressi sorse per organizzare tale presenza, secondo una linea di rigida opposizione a liberalismo e al socialismo.
L’elezione di papa Leone 13. (1878), più aperto ai problemi della società moderna, favorì l’impegno sociale dei cattolici e lo sviluppo delle loro organizzazioni.
Alla morte di Depretis (1887) divenne presidente del consiglio Crispi: la sua politica autoritaria e repressiva si accompagnò a una importante riorganizzazione dell’apparato statale.
La sua politica estera portò alla “guerra doganale” con la Francia e a un maggiore impegno in Africa orientale.
Nettamente diversa la politica di Giolitti, a capo del governo nel ’92-93, imperniata su una più equa pressione fiscale e su una linea non repressiva nei confronti dei conflitti sociali.
Il rifiuto di Giolitti di adottare misure eccezionali contro i Fasci siciliani e lo scandalo della Banca romana provocarono le sue dimissioni.
Gli atti di maggio rilievo del nuovo governo Crispi (1893) furono: la riforma bancaria (nascita della Banca d’Italia), la proclamazione dello stato d’assedio in Sicilia e Lunigiana, le leggi antisocialiste, l’ulteriore spinta all’azione coloniale che portò alla guerra con l’Etiopia.
La sconfitta di Adua (1896) causò la fine politica di Crispi.

Bibliografia

La costruzione dello Stato unitario / G. Candeloro. - Vol. 5. della Storia dell’Italia moderna. – Feltrinelli, 1968
Lo sviluppo del capitalismo e del movimento operaio.- Vol. 6. della Storia dell’Italia moderna. – Feltrinelli, 1970
L’Italia liberale, 1861-1900 / R. Romanelli. – Il Mulino, 1979
Il nuovo Stato e la società civile, 1861-1900. – Vol. 2. della Storia d’Italia / a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto. – Laterza, 1995
Storia politica dell’Italia liberale, 1861-1901 / F. Cammarano. – Laterza, 1999
Dall’Unità ad oggi. – Vol. 4. della Storia d’Italia / a cura di R. Romani e C. Vivanti. –Einaudi, 1975-76. – 3 t.: La storia economica / V. Castronovo. – La cultura / A. Asor Rosa. – La storia politica e sociale / E. Ragionieri
Il lungo Risorgimento: la nascita dell’Italia contemporanea, 1770-1922 / G. Pécout. – Mondadori, 1999
Storia costituzionale d’Italia, 1848-1948 / C. Ghisalberti. – Laterza, 1974
Storia dello Stato italiano dall’unità ad oggi / a cura di R. Romanelli. – Donzelli, 1995
Storia dell’amministrazione italiana / G. Melis. – Il Mulino, 1996
Storia economica dell’Italia liberale, 1850-1918 / G. Toniolo. – Il Mulino, 1988
Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia / L. Cafagna. – Marsilio, 1989
Dalla periferia al centro: la seconda rinascita economica dell’Italia, 1861-1981 / V. Zamagni. – Il Mulino, 1990
Unità nazionale e sviluppo economico / G. Pescosolido. – Laterza, 1998
Risorgimento e capitalismo / R. Romeo. – Laterza, 1959
Breve storia della grande industria in Italia, 1861-1961 / R. Romeo. – Cappelli, 1972
La formazione dell’Italia industriale / a cura di A. Caracciolo. – Laterza, 1963
L’industrializzazione in Italia 1861-1900 / a cura di G. Mori. – Il Mulino, 1981
Storia della borghesia italiana: l’età liberale / A. M. Banti. – Donzelli, 1996
Il comando impossibile / R. Romanelli. – Il Mulino, 1988
Fare gli italiani. – Vol. 1.: La nascita dello Stato nazionale / a cura di S. Oldani e G. Turi. – Il Mulino, 1993
Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 / F. Chabod. – Laterza, 1951
Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887 / G. Carocci. – Einaudi, 1956
Creare la nazione: vita di Francesco Crispi / Ch. Duggan. – Laterza, 2000
Il socialismo nella storia d’Italia: storia documentaria dal Risorgimento alla Repubblica / a cura di G. Manacorda. – Laterza, 1966
Storia del socialismo italiano, 1892-1926 / G. Arfé. – Einaudi, 1965
Storia del socialismo italiano: dalle prime lotte nella Valle Padana ai fasci siciliani / R. Zangheri. – Einaudi, 1997
Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale: il caso italiano, 1880-1900 / S. Merli. – La Nuova Italia, 1972
Movimento operaio e lotte sindacali, 1880-1922 / A. Pepe. – Loescher, 1976
Il Fasci siciliani, 1892-94 / R. Renda. – Einaudi, 1977
Storia del movimento cattolico in Italia / G. De Rosa. – Laterza, 1966
Il movimento cattolico in Italia / G. Candeloro. – Editori Riuniti, 1961 

Cap. 18. Verso la società di massa

Parola chiave

Secolarizzazione

Nel linguaggio della Chiesa, “secolarizzazione” (da “secolo”, inteso come vita terrena) significa passaggio allo stato laicale di chi ha ricevuto gli ordini religiosi oppure destinazione all’uso profano di beni già destinati al culto.
Nel linguaggio delle scienze sociali contemporanee, per secolarizzazione si intende il processo di emancipazione della società dal condizionamento dei valori sacri e dal controllo delle autorità religiose.
Una società secolarizzata non è necessariamente uan società irreligiosa.
E’ piuttosto una società laica, in cui le credenze e le pratiche religiose non si traducono in norme vincolanti per tutti; in cui i comportamenti collettivi – in materia di attività economiche, di istruzione, ma anche di morale familiare e sessuale – tendono ad allontanarsi dagli schemi della tradizione e a orientarsi secondo criteri di pura razionalità
In questo senso la secolarizzazione è componente essenziale della modernizzazione e si accompagna ai processi di sviluppo industriale e di urbanizzazione.
Ma è soprattutto con l’avvento della società di massa – e con la conseguente crisi delle culture e tradizionali legate al mondo rurale -  che la secolarizzazione riceve una spinta decisiva.
Non si deve pensare però alla secolarizzazione come a una tendenza irreversibile, a un portato necessario del progresso scientifico e dello sviluppo economico.
Se nei paesi industrializzati dell’Occidente il processo può considerarsi in larga parte compiuto, nonostante i molti segni del risveglio religioso e nonostante la tenace opposizione delle Chiese (lo testimonia la scarsa osservanza, negli stessi paesi cattolici, delle prescrizioni ecclesiastiche in materia di contraccezione e in genere di morale sessuale), la situazione è molto diversa in altre parti del mondo.
In particolare nei paesi islamici, e non solo in quelli più arretrati economicamente, si è assistito negli ultimi decenni a un prepotente ritorno dell’integralismo, ossia al tentativo di sottomettere all’autorità della religione le scelte dei pubclici poteri e dei privati cittadini.

Sommario

Alla fine dell’800 cominciarono a delinearsi, nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, i caratteri della moderna società di massa.
La maggioranza della popolazione viveva ormai nei centri urbani ed era inserita nel circolo dell’economia di mercato; i rapporti sociali si facevano più intensi e si basavano non più sulle comunità tradizionali, bensì sulle grandi istituzioni nazionali (apparati statali e organizzazioni di massa).
Gli anni 1896-1913 furono, per paesi industrializzati, un periodo di intensa espansione economica, cui si accompagnò, tra l’altro, un aumento del reddito pro-capite che determinò un allargamento del mercato.
Le dimensioni di massa assunte dalla domanda stimolarono la produzione in serie, nonché la diffusione di processi di meccanizzazione e razionalizzazione produttiva (catena di montaggio, taylorismo).
Mutava, parallelamente, la stratificazione sociale.
Se nella classe operaia si accentuò la distinzione fra lavoratori generici e qualificati, la maggiore novità fu il crescere di nuovi strati del ceto medio.
Di fondamentale importanza nel determinare i caratteri della nuova società di massa fu il diretto impegno dello Stato nel campo dell’istruzione, che ebbe per conseguenza una drastica diminuzione dell’analfabetismo in tutta Europa.
Si allargava, anche per l’incremento nella diffusione dei giornali, l’area dell’opinione pubblica.
Anche l’introduzione generalizzata del servizio militare obbligatorio e la creazione di eserciti di massa (imposta dall’evoluzione delle strategie e delle tecniche militari) contribuirono ad accelerare i processi di socializzazione.
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 si ebbe un processo di allargamento della partecipazione alla vita politica determinato dall’estensione del diritto di voto, dall’affermarsi di un nuovo modello di partito (il partito di massa) e dalla crescita di grandi organismi sindacali nazionali.
Parallelamente, la politica delle classi dirigenti tenne in maggior conto le esigenze delle classi lavoratrici (legislazione sociale, servizi pubblici urbani, aumento della tassazione diretta).
I primi albori della società di massa segnarono il manifestarsi di una questione femminile, anche per le conseguenze dell’industrializzazione sull’assetto della famiglia e il ruolo della donna.
I primi movimenti di emancipazione femminile, all’epoca nettamente minoritari, concentrarono la loro azione nella lotta per il suffragio delle donne.
Alla fine dell’800 sorsero nei principali paesi europei dei partiti socialisti che si ispiravano per lo più al modello della socialdemocrazia tedesca e facevano capo alla Seconda Internazionale, fondata nel 1889.
Nella maggioranza di questi partiti il marxismo fu assunto come dottrina ufficiale; si affacciarono presto, tuttavia, contrasti fra il revisionismo riformista di Bernstein, gli esponenti dell’ortodossia marxista e le correnti rivoluzionarie, tra la quali va ricordata quella “sindacalista rivoluzionaria”, che aveva il suo maggior ispiratore in Georges Sorel.
L’ascesa al soglio pontificio di Leone 13. (1878) ne non mitigò l’intransigenza dottrinaria della Chiesa favorì però l’impegno dei cattolici in campo sociale, stimolato soprattutto dall’Enciclica Rerum Novarum (1891).
Significativa espressione dei fermenti in atto nel mondo cattolico fu l’emergere, soprattutto in Francia e Italia, di movimenti democratici-cristiani e, sul piano più strettamente religioso, del modernismo (colpito, nel 1907, dalla scomunica di Pio 10.)
Sul piano delle ideologie politiche, nell’Europa di fine ‘800 trovò larga diffusione il nazionalismo, ormai divenuto una corrente nettamente conservatrice.
In varia commistione con esso – e grazie all’appello alle componenti irrazionali della psicologia collettiva – si diffusero tendenze apertamente razziste e antisemite.
In Germania e nell’Europa orientale il nazionalismo prese anche la forma, rispettivamente, di pangermanesimo e panslavismo.
Espressione particolare del generale risveglio nazionalistico, ma anche reazione contro l’antisemitismo, fu il sionismo.
Sul piano culturale, la fine del secolo vide la crisi del positivismo, a favore del diffondersi di nuove correnti che ponevano l’accento sul ruolo del soggetto, considerando elementi costitutivi dell’attività umana fattori quali l’istinto e la volontà.
Le certezze del positivismo in campo scientifico entrarono in crisi anche per le scoperte della fisica contemporanea.

Bibliografia

La ribellione delle masse / J. Ortega y Gasset. – Il Mulino, 1962
La folla solitaria / D. Rieman. – Il Mulino, 1956
Colletti bianchi: la classe media americana / C. Wright Mills. – Einaudi, 1966
Classi e conflitto di classe nella società industriale / R. Dahrendorf. – Laterza, 1963
Voce: Masse / B. Geremek. – In: Vo. 8. di Enciclopedia. – Einaudi, 1979
La sociologia del partito politico nella democrazia moderna / R. Michels. – Il Mulino, 1966
I partiti politici / M. Duverger. – Comunità, 1971
Storia dell’alfabetizzazione occidentale / H. Graff. – Il Mulino, 1989
Alfabetizzazione e sviluppo sociale in occidente / a cura di H. Graff. – Il Mulino, 1988
Soldati e borghesi nell’Europa moderna / J. Gooch. – Laterza, 1982
Donne, lavoro e famiglia nell’evoluzione della società capitalistica / L. A. Tilly, J. W. Scott. – De Donato, 1981
Storia delle donne in Occidente. – Laterza, 1991-92
Storia del pensiero socialista / G. D. H. Cole. – Laterza, 1968
Storia del marxismo. – Einaudi, 1979
La Chiesa negli stati moderni e i movimenti sociali, 1878-1914. – In: Storia della Chiesa / diretta da H. Jedin. – Jaca Book, 1973
Il cattolicesimo politico nel 19. e 20. secolo / K. E. Lonne. – Il Mulino, 1991
Nazioni e nazionalismo / E. J. Hobsbawn. – Einaudi, 1991
La nazionalizzazione delle masse: simbolismo politico e movimenti di massa in Germania dalle guerre napoleoniche al Terzo Reich / G. L. Mosse. – Il MUlino, 1975
Il razzismo in Europa dalle origini all’olocausto / G. L. Mosse. – Laterza, 1980
L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste / G. L. Mosse. – Laterza, 1982
Coscienza e società: storia delle idee in Europa dal 1890 al 1930 / H. S. Hughes. – Einaudi, 1967

Cap. 19. L’Europa tra due secoli

Parola chiave

Radicalismo

Nel linguaggio politico il termine “radicalismo” indica la tendenza contraria al “moderatismo”: cioè la tendenza favorevole alle innovazioni profonde e decisive, alle misure appunto “radicali”.
In questo senso si può parlare sia di un radicalismo di sinistra sia di un radicalismo di destra.
In senso più stretto, si dicono “radicali” le correnti di sinistra nate dal filone dei movimenti liberali e democratici.
Il radicalismo moderno nacque in Inghilterra tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, in quei circoli intellettuali e politici che, ispirandosi alla filosofia utilitaristica di Jeremy Bentham e al liberalismo economico di Smith e Ricardo, propugnavano una serie di profonde riforme economiche e politiche (prima fra tutte, l’abolizione del dazio sul grano e l’allargamento del suffragio).
Il movimento radicale sopravvisse in Gran Bretagna per tutto il secolo 19., ma non assunse mai la consistenza di un partito vero e proprio, svolgendo per lo più un ruolo di appoggio e di stimolo alla sinistra liberale.
In Francia, l’appellativo di “radicale”, che sino ad allora serviva a designare genericamente le correnti democratico-repubblicane, fu assunto nei primi anni della Terza Repubblica da quell’ala dei repubblicani che, sotto la guida di leader come Clemenceau, si opponeva alla politica “opportunista” dei repubblicani moderati alla Jules Ferry.
All’inizio del ‘900, dopo la crisi dell’”Affare Dreyfus”, i radicali divennero la forza dominante dello schieramento politico francese, facendosi promotori di una politica energicamente anticlericale, ma vennero nel contempo attenuando la loro originaria connotazione democratico-riformista per assumere il ruolo di forza stabilizzatrice, tendenzialmente “centrista”, moderatamente progressista, con solide radici nella media e piccola borghesia rurale.
Il Partito radicale francese costituì un modello per altre formazioni analoghe nate tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 in Italia, in Spagna e in molti paesi latino-americani, sulla stessa piattaforma politica progressista e anticlericale e con la stessa base sociale essenzialmente piccolo- borghese.
In Italia il Partito radicale nacque negli anni ’80 dell’800 come frazione dissidente della sinistra e si sviluppò soprattutto in età giolittiana, ma rimase sempre una forza minoritaria nello schieramento  liberal-democratico e finì col dissolversi come forza politica autonoma dopo la prima guerra mondiale.
Altra e diversa vicenda è quella del “nuovo” Partito Radicale (Pr), nato nel 1956 da una scissione a sinistra del Partito liberale e successivamente caratterizzatosi come una formazione politica molto diversa da quelle tradizionali e vivacemente polemica nei confronti dell’intero sistema politico, come un gruppo d’opinione strettamente collegato ai movimenti collettivi (pacifisti, ecologisti, femministi ecc.) e promotore di specifiche campagne sui demi dei diritti civili, della pace, della lotta contro la fame nel mondo. 

Sommario

Tra l’ultimo decennio dell’800 e i primi del ‘900 si delineò un mutamento nelle alleanze che segnò la crisi del sistema bismarckiano.
Attraverso l’alleanza tra Francia e Russia, l’”intesa cordiale” franco-inglese, l’accordo anglo-russo sulle questioni asiatiche, si venne a costituire uno schieramento – poi detto Triplice intesa – contrapposto alla Triplice alleanza e di questa potenzialmente più forte.
In Francia, alla fine del secolo, restavano forti le correnti contrarie alle istituzioni repubblicane.
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 queste correnti si coagularono intorno al caso del capitano Dreyfus (un ufficiale ebreo ingiustamente condannato per spionaggio) che divenne simbolo della spaccatura dell’opinione pubblica, divisa tra innocentisti e colpevolisti.
Le forze progressiste ebbero infine una vittoria sul piano elettorale, che diede inizio a un periodo di governi a direzione radicale.
A cavallo fra i due secoli la politica inglese fu dominata dalla coalizione tra conservatori e “unionisti”, che cercarono di unire a una politica imperialistica una certa dose di riformismo sociale.
Il successo dei liberali (1906) segnò un mutamento politico in senso progressista che trovò il suo momento più importante nella battaglia per la riduzione dei poteri della Camera dei Lords.
Contemporaneamente cresceva, a scapito dei liberali, la rappresentanza parlamentare dei laburisti.
Il “nuovo corso” di Guglielmo 2. non segnò, al di là dell’allontanamento di Bismarck (1890), un effettivo mutamento di indirizzi: la più aggressiva politica estera della Germania guglielmina rafforzava, anzi, la tradizionale alleanza tra grande industria, aristocrazia terriera e vertici militari, e finiva con l’ottenere l’appoggio di tutte le forze politiche, socialdemocratici esclusi.
La Spd confermava la sua grande forza, cui si accompagnava però ad un sostanziale isolamento.
Nell’Impero asburgico lo sviluppo economico rimase limitato ad alcune aree; il sistema politico e la struttura sociale delle campagne erano caratterizzati da un sostanziale immobilismo.
Il più grave problema per la monarchia era rappresentato dalle agitazioni autonomistiche delle varie nazionalità, anzitutto gli slavi.
Grazie all’intervento diretto dello Stato e all’afflusso di capitali stranieri si verificò, nella Russia degli anni ’90. Un primo decollo industriale.
Si trattò di uno sviluppo fortemente concentrato (dal punto di vista geografico e per dimensione di imprese); la società russa rimaneva però fortemente arretrata.
Tutte le sue contraddizioni si rivelarono nella rivoluzione del 1905.
Ristabilito l’ordine e svuotato l’esperimento parlamentare della Duma, fu varata dal primo ministro Stolpyn una riforma agraria non in grado, tuttavia, di risolvere gli enormi problemi delle campagne.
Il decennio precedente la prima guerra mondiale vide un acuirsi dei contrasti internazionali.
Dalle due crisi marocchine (1905 e 1911) la Germania uscì sconfitta, mentre la Francia ottenne infine un protettorato sul Marocco.
Più gravi furono gli avvenimenti nella penisola balcanica.
L’annessione della Bosnia-Erzegovina (1908) da parte dell’Austria, la guerra italo-turca (1911), le due guerre balcaniche (1912-13) segnarono un profondo rivolgimento degli equilibri in questa area.
La Turchia – dove nel 1908 si era verificata la rivoluzione dei “giovani turchi” – veniva definitivamente estromessa dall’Europa, mentre si faceva sempre più acuto il contrasto tra Austria e Serbia (protetta dalla Russia)

Bibliografia

L’Età dell’imperialismo: Europa, 1885-1918 / W. Mommsen. – Feltrinelli, 1970. – Vol.  28 della Storia universale Feltrinelli
La decadenza dell’Europa occidentale / M. Silvestri. – Einaudi, 1977
Il potere dell’Ancien regime fino alla prima guerra mondiale / A. J. Mayer. – Laterza, 1982
I socialdemocratici nella Germania imperiale / G. Roth. – Il Mulino, 1971
Storia della Russia contemporanea, 1853-1996 / F. Benvenuti. – Laterza, 1999

Cap. 20. Imperialismo e rivoluzione nei continenti extraeuropei

Parola chiave

Populismo

Per “populismo” si intende un orientamento politico e culturale che si fonda su una visione idealizzata e indifferenziata del “popolo”, visto – in opposizione all’aristocrazia e ai ceti privilegiati – come depositario dei più autentici valori nazionali e come protagonista del processo di rinnovamento sociale.
Il populismo si differenzia dunque dal marxismo, che contrappone all’idea del popolo come un tutto unico la visione di una società divisa in classi individuate in base al loro ruolo nel processo produttivo.
In quanto movimento politico organizzato, il populismo nacque e si sviluppò in Russia nella seconda metà dell’800.
I teorici del populismo russi (Herzen, Cernisevskij) teorizzavano il dovere degli intellettuali di “andare verso il popolo” (identificato soprattutto con le masse contadine) e si ispiravano a ideali di socialismo agrario.
A ideali di democrazia rurale (ma senza sconfinamenti nel socialismo) si ispirò anche il Partito populista che nacque e si affermò negli Stati Uniti nell’ultimo decennio dell’800 ed esprimeva la protesta dei piccoli e medi agricoltori, messi in difficoltà dalle politiche protezioniste e dalla difficoltà di accesso al credito, contro il mondo industriale e finanziario.
In epoche più recenti il termine “populismo” è stato usato anche in riferimento a ideologie e movimenti di stampo nazionalista e autoritario (in questo senso si può parlare di populismo fascista o nazista).
In particolare, sono definiti populisti quei movimenti e quei regimi sviluppatisi in America Latina a partire dagli anni ’30 – come il “getulismo” in Brasile e il “peronismo” in Argentina – che hanno cercato di combinare il nazionalismo col riformismo sociale, la lotta contro le vecchie oligarchie terriere con una gestione più o meno autoritaria e personalistica del potere, e che hanno trovato la loro principale base di sostegno nel proletariato industriale e nella piccola borghesia urbana.

Il ridimensionamento dell’Europa

Nel primo decennio del ‘900, mentre le potenze europee si avviavano verso uno scontro da cui tutte sarebbero uscite profondamente trasformate ed indebolite, si cominciarono ad avvertire i sintomi di un ridimensionamento della posizione del vecchio continente in rapporto al resto del mondo.
Si trattava in realtà di un processo di lungo periodo, cominciato, nonostante tutte le apparenze contrarie, nella seconda metà dell’800 (che aveva visto il boom dell’espansione coloniale, ma anche la crescita di nuove potenze extraeuropee come gli Stati Uniti e il Giappone) e destinato a concludersi dopo la seconda guerra mondiale.
Fu, comunque, all’inizio del ‘900 che l’idea di una minaccia portata alla supremazia europea dall’emergere di nuovi popoli e nuove nazioni cominciò a farsi strada nell’opinione pubblica.
A suggerire questi timori non era tanto l’ascesa degli Stati Uniti, considerati con eccessiva sufficienza e cisti pur sempre come un’appendice dell’Europa, quanto il risveglio dei popoli dell’Estremo Oriente: il Giappone innanzitutto, ormai apertamente lanciato in una politica imperiale che lo avrebbe portato – come vedremo fra poco – a scontrarsi con la Russia; ma anche la Cina, sempre più insofferente dello stato di semi-soggezione impostole dalle potenze europee.
Alle preoccupazioni di ordine politico-militare si aggiungevano quelle indotte dalle tendenze dello sviluppo demografico.
La popolazione europea continuava a crescere, ma non al punto da ridurre significativamente il divario con i popolosissimi paesi asiatici.
Al contrario, in questi paesi l’introduzione, sia pur limitata, di nuove tecniche agricole e di più moderni metodi di cura e prevenzione delle malattie cominciò a far calare il tasso di mortalità senza che si verificassero quei mutamenti culturali che nelle società industrializzate avevano portato a una caduta del tasso di natalità.
Questa tendenza era, ai primi del secolo, appena ai suoi inizi.
Ma già allora la sovrappopolazione dei paesi asiatici fu sentita da molti  come una minaccia all’egemonia europea e, più in generale, alla supremazia dei popoli “bianchi”.
Come sarebbe stato possibile, alla lunga, per le potenze coloniali che per tutto l’800 avevano inondato il mondo intero di coloni e soldati, funzionari e mercanti, mantenere il proprio dominio in condizioni di crescente inferiorità numerica?
E come l’Occidente avrebbe potuto resistere alle ondate migratorie che dall’Oriente cominciavano a riversarsi sugli Stati Uniti e sui dominions britannici?
Fu allora che in Europa si cominciò a parlare sempre più insistentemente di un “pericolo giallo”: un’espressione coniata dall’imperatore di Germania Guglielmo 2. e diventata d’attualità soprattutto dopo la guerra russo-giapponese del 1904-5

Sommario

Il primo quindicennio del ‘900 vide il manifestarsi dei primi segni di un declino dell’Europa di fronte all’emergere di popoli extraeuropei.
Preoccupava in particolare la crescita dei paesi asiatici (Cina e Giappone), che fece parlare di un “pericolo giallo”.
Alla fine dell’800 il Giappone avviò una politica espansionistica in Asia: prima mosse guerra all’Impero cinese (1894), poi attaccò e sconfisse la Russia (1905).
Per la prima volta nell’età moderna un paese asiatico riuscì a battere in un’autentica guerra una grande potenza europea.
All’inizio del ‘900 sorse in Cina un movimento nazionalista e democratico guidato da Sun Yat-sen, eletto presidente della Repubblica dopo la rivoluzione del 1911, che rovesciò la dinastia Manciù.
Successivamente le forze conservatrici ebbero il sopravvento, inaugurando così una lunga stagione di guerre civili.
Negli anni tra ‘800 e ‘900 gli Stati Uniti, avviati a diventare la prima potenza economica mondiale, allargarono la loro influenza in America Latina dopo la guerra con la Spagna (1898) in appoggio all’indipendenza di Cuba, che valse loro anche il dominio sull’arcipelago delle Filippine.
Durante la presidenza di Theodore Roosvelt,  fu realizzato, sotto il controllo degli Usa, il canale di Panama, che collegava Atlantico e Pacifico.
Sul piano interno, Roosvelt realizzò una politica di apertura ai problemi sociali.
Le divisioni nel Partito repubblicano favorirono nel 1912 l’elezione del democratico Wilson, che riprese l’impegno sociale di Roosvelt, inserendolo però in un quadro politico ed ideologico assai diverso.
Nei trent’anni precedenti la prima guerra mondiale, il notevole sviluppo economico dei paesi dell’America latina non attenuò la loro dipendenza dagli stati industrializzati dell’Occidente.
Le campagne erano dominate dal latifondo, mentre una ristretta oligarchia terriera controllava la vita sociale e politica.
I maggiori mutamenti sul piano politico furono la vittoria dei radicali in Argentina e la rivoluzione messicana cominciata nel 1910 e segnata dal conflitto fra le sue varie componenti: conflitto che solo nel 1921 si sarebbe concluso con la vittoria dei democratici.

Bibliografia

Guida alla storia contemporanea / G. Barraclough. – Laterza, 1971
La nascita del Giappone moderno / E. H. Norman. – Einaudi, 1975
Storia del Giappone / F. Gatti. – B. Mondadori, 2002
La Cina / M. Bastid…et al. – Einaudi, 1974
Storia della Cina: dalle origini alla fondazione della Repubblica / M. Sabatini, P. Santangelo. – Laterza, 1986
Le origini dell’imperialismo americano: da McKinley a Taft, 1897-1913 / A. Aquarone. – Il Mulino, 1973
Gli Stati Uniti nell’età progressista / a cura di A. Testi. – Il Mulino, 1984
La nascita di una potenza mondiale: gli Stati Uniti dal 1970 al 1920 / J. L. Thomas. – Il Mulino, 1988
Storia dell’America Latina / T. Halperin Donghi. – Einaudi, 1972
L’America Latina nel 20. secolo / M. Plana, A. Trento. – Ponte alle Grazie, 1992

Cap. 21. L’Italia giolittiana

Parola chiave

Massoneria

La “Massoneria” è un’associazione segreta che trae il suo nome dalle corporazioni medievali dei “liberi muratori” (free-masons in inglese, franc-maçons in francese), i cui membri erano tenuti all’aiuto reciproco e alla conservazione dei segreti di mestiere.
Nel corso dei secoli, col decadere delle corporazioni artigiane, queste associazioni assunsero un carattere esoterico, allargandosi anche a membri estranei all’arte muratoria e appartenenti agli strati superiori della società (nobili, borghesi, intellettuali).
Finché, all’inizio del ‘700, l’associazione perse definitivamente il suo carattere di organizzazione di mestiere, pur conservandone il linguaggio, la simbologia e le strutture organizzative (la divisione in “logge” facenti capo a un “gran maestro”).
Nata in Inghilterra e diffusasi presto in tutta Europa e nel Nord America, la “nuova” Massoneria si ispirava a una filosofia “deista” (Dio era chiamato il “grande architetto” dell’universo), faceva propri gli ideali illuministi, professava la tolleranza religiosa e imponeva ai suoi affiliati la pratica della filantropia e della mutua assistenza.
Duramente avversata dalla Chiesa cattolica, la Massoneria venne accentuando, durante il secolo 19., la sua ispirazione anticlericale e assunse una connotazione politica più spiccata.
Legate direttamente o indirettamente alla Massoneria erano molte delle società segrete (come la Carboneria) impegnate nelle agitazioni nazionali e costituzionali dell’età della Restaurazione.
Nella seconda metà del secolo, la Massoneria divenne in molti paesi (in particolare in quelli in cui più forte era la presenza cattolica) una sorta di accademia del “libero pensiero”, un vero e proprio contraltare della Chiesa di Roma, e insieme un luogo di incontro e di raccordo fra gruppi politici di orientamento democratico e anticlericale.
Questa funzione quasi di “superpartito” la Massoneria la svolse principalmente in Francia e in Italia e soprattutto negli anni a cavallo fra ‘800 e ‘900.
In Francia essa fu in prima fila nelle battaglie sviluppatesi intorno all’affare Dreyfus (cap. 19.) e fu ispiratrice della politica anticlericale praticata dai governi di inizio secolo.
In Italia svolse un’importante funzione di appoggio alla svolta giolittiana e favorì, a livello delle amministrazioni locali, la formazione di “blocchi democratici” aperti a tutte le forze della sinistra.
In questo stesso periodo, però, la Massoneria fu oggetto di critiche e attacchi sempre più frequenti.
Non solo da parte dei tradizionali avversari cattolici, ma anche di uomini politici e intellettuali di diverse tendenze (dall’estrema destra all’estrema sinistra), che vedevano in essa un centro di potere occulto, in cui i riti iniziatici e la fraseologia umanitaria servivano a coprire il perseguimento di obiettivi tutt’altro che idealistici.
In effetti, nel corso del 20. secolo, la Massoneria ha finito col perdere buona parte della sua caratterizzazione ideologica e del suo afflato universalistico, per frammentarsi in una serie di gruppi di interesse legati ale specifiche situazioni dei singoli paesi.
Significativo a questo proposito è il caso dell’Italia,  che ha visto, negli anni ’70 e ’80, alcune frazioni della massoneria coinvolte in alcuni scandali politico-finanziari e in trame a sfondo autoritario.

La crisi di fine secolo

Negli ultimi anni del secolo 19., l’Italia fu teatro di una crisi politico-istituzionale paragonabile a quella vissuta dalla Francia, più o meno nello stesso periodo, intorno al caso Dreyfus o a quella attraversata dall’Inghilterra una decina di anni dopo con lo scontro fra Lords e Camera dei Comuni.
Se diverso era nei vari casi il contesto politico-sociale e diverse furono le modalità del conflitto, uguale nella sostanza era la posta in gioco: l’evoluzione del regime liberale verso forme di più avanzata democrazia.
Anche in Italia lo scontro si concluse con un’affermazione delle forze progressiste: un’affermazione non completa né definitiva, ma sufficiente a far evolvere la vita del paese, che conosceva allora una fase d intenso sviluppo industriale, secondo modelli più vicini a quelli delle liberal-democrazie occidentali che non a quelli autoritario-costituzionali degli imperi del Centro Europa.
La caduta di Crispi (marzo 1896), determinata dagli insuccessi coloniali e dall’opposizione convergente dell’estrema sinistra e di una parte della destra, non pose fine ai tentativi di risolvere le tensioni politiche e sociali con una restrizione delle libertà.
Al contrario, negli anni che seguirono le dimissioni di Crispi e il ritorno al potere di Rudinì, si delineò fra le forze conservatrici – già divise sulla politica estera e sulle questioni coloniali – la tendenza a ricomporre un fronte comune contro le vere o supposte minacce portate all’ordine costituito dai “nemici delle istituzioni”, socialisti, repubblicani o clericali che fossero.
Questa tendenza si esprimeva, da un lato, nel tentativo di tornare a una interpretazione restrittiva dello Statuto che, interrompendo la prassi “parlamentare” affermatasi con Cavour, rendesse il governo responsabile di fronte al sovrano, lasciando alle Camere i soli compiti legislativi (era quanto proponeva Sidney Sonnino in un celebre articolo apparso all’inizio del ’97 e intitolato significativamente Torniamo allo Statuto); dall’altro, in una ripresa dei metodi crispini in materia di ordine pubblico, volti a colpire indiscriminatamente ogni forma di protesta sociale.
La tensione esplose nella primavera 1898, quando un improvviso aumento del prezzo del pane (provocato da un cattivo raccolto e dal contemporaneo blocco delle importazioni di cereali dagli Stati Uniti in seguito alla guerra di Cuba) fece scoppiare in tutto il paese – prima in Romagna e nelle Puglie, poi in Toscana, Marche e Campania e in molte delle maggiori città del Centro-Nord – una serie di manifestazioni popolari.
Si trattava di manifestazioni in larga parte spontanee che, nonostante una forte presenza operaia, richiamavano, nelle motivazioni e nella dinamica, forme di protesta tipiche delle società preindustriali.
La risposta del governo fu comunque durissima.
Anziché prendere l’unico provvedimento atto a eliminare le cause della protesta – una riduzione del dazio sul grano – Rudinì si comportò come se dovesse fronteggiare un complotto rivoluzionario: prima massicci interventi di forze di polizia, quindi proclamazione dello stato d’assedio, con conseguente passaggio dei poteri alle autorità militari a Milano, a Napoli e nell’intera Toscana.
La repressione raggiunse il culmine a Milano nelle giornate dell’8 e 9 maggio, quando le truppe del generale Bava Beccaris fecero uso dell’artiglieria contro la folla inerme provocando circa cento morti e più di cinquecento feriti.
Capi socialisti, radicali e repubblicani furono arrestati e condannati a pene severissime (Turati ebbe dodici anni di carcere) sotto l’accusa, falsa e pretestuosa, di avere organizzato e diretto le agitazioni.
Anche il movimento cattolico-intransigente fu duramente colpito dalla repressione.
Una volta riportato l’ordine nel paese, i gruppi moderati e conservatori, che detenevano la maggioranza alla Camera e godevano dell’appoggio del re, cercarono di dare una base legislativa all’azione repressiva dei poteri pubblici.
Lo scontro si trasferì così nelle piazze alle aule parlamentari.
Caduto un primo progetto presentato da Rudinì – che dovette dimettersi nel giugno ’98 per contrasti col re e per dissensi interni alla compagine di governo – il tentativo fu ripreso dal suo successore, il generale piemontese Pelloux.
Ma, alla presentazione da parte di Pelloux di un pacchetto di provvedimenti che limitavano gravemente il diritto di sciopero e le stesse libertà di stampa e di associazione, i gruppi di estrema sinistra (socialisti, repubblicani, radicali) risposero mettendo in atto la tecnica dell’ostruzionismo, consistente nel prolungare all’infinito le discussioni paralizzando così l’azione della maggioranza.
La lotta ostruzionistica si protrasse per quasi un anno con fasi altamente drammatiche: dibattiti accesissimi, interventi-fiume, veri e propri scontri fisici fra deputati.
Incapace di venire a capo dell’ostruzionismo e indebolito dalla sempre più aperta opposizione dei gruppi liberali-progressisti che facevano capo a Giuseppe Zanardelli e a Giovanni Giolitti, Pelloux decise infine di sciogliere la Camera, sperando in un risultato elettorale che suonasse appoggio alla sua politica.
Ma nelle elezioni, che si tennero nel giugno 1900. Lo schieramento governativo perse parecchi seggi, mentre ne guadagnarono le opposizioni, in particolare i socialisti, che ebbero 33 deputati.
Il presidente del Consiglio, pur potendo ancora contare su un’esigua maggioranza, preferì a questo punto dimettersi.
Accettando le sue dimissioni e affidando la successione al senatore Giuseppe Saracco, un moderato ritenuto al di sopra delle parti, Umberto 1. mostrava  di prendere atto del fallimento di quella politica repressiva che lo aveva visto fra i suoi più attenti sostenitori.
Un mese dopo, il 29 luglio 1900, il re cadeva vittima di un attentato per mano di un anarchico, Gaetano Bresci, venuto appositamente dagli Stati Uniti per vendicare le vittime del ’98.

Sommario

Negli ultimi anni dell’800 si fece strada tra le forze conservatrici italiane la tentazione di risolvere in senso autoritario le tensioni politiche e sociali.
Essa si manifestò con la dura repressione militare dei moti per il pane del ’98 e con il tentativo del governo Pelloux di far approvare delle leggi limitative delle libertà.
La dura opposizione incontrata alla Camera e le elezioni del 1900 portarono a un mutamento di rotta, che (dopo l’assassinio di Umberto 1.) fu confermato dal nuovo re Vittorio Emanuele 3.
Il governo Zanardelli-Giolitti (1901-3) si caratterizzò per alcuni importanti riforme sociali e per la neutralità nel campo dei conflitti di lavoro.
Quest’ultimo fatto favorì lo sviluppo delle organizzazioni sindacali, che a sua volta fu accompagnato da un brusco aumento degli scioperi (con la conseguenza di un notevole incremento dei salari operai e agricoli).
Negli ultimi anni del secolo iniziò il decollo industriale italiano, preparato – negli anni precedenti – dalla costruzione di una rete ferroviaria, dalla scelta protezionistica, dal riordinamento del sistema bancario.
Lo sviluppo industriale, se non ridusse il divario con i paesi più ricchi, provocò però un aumento del reddito e un miglioramento del tenore di vita degli italiani.
Cresceva – parallelamente – l’emigrazione, conseguenza di una sovrabbondanza della popolazione rispetto alle capacità produttive dell’agricoltura, che nel Mezzogiorno restava arretrata (provocando così un accentuarsi del divario con il Nord industrializzato).
Leggi speciali per il Mezzogiorno, statizzazione delle ferrovie, conversione della rendita, introduzione del suffragio universale maschile (1912), monopolio statale delle assicurazioni sulla vita rappresentarono i punti qualificanti della politica di Giolitti, che rimase a capo del governo, con alcune dal 1903 al 1914.
Il suo riformismo non era privo di limiti, per il condizionamento delle forze conservatrici e per la costante attenzione di Giolitti a non modificare in senso eccessivamente democratico gli equilibri parlamentari; inoltre, la crisi economica del 1907 accrebbe, da un lato, le lotte sociali mentre, dall’altro, favorì un atteggiamento più duro delle associazioni padronali.
La “dittatura” di Giolitti – realizzata attraverso lo stretto controllo del Parlamento e l’intervento del governo, soprattutto al Sud, nelle competizioni elettorali – trovò molti critici fra le forze politiche (socialisti, cattolici democratici, liberal-conservatori, meridionalisti) e soprattutto fra gli intellettuali.
Sul piano della politica estera, l’Italia si avvicinò, tra la fine dell’800 e inizio ‘900, alla Francia, pur restando fedele alla Triplice alleanze.
Mutò contemporaneamente l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti delle imprese coloniali, che cominciarono ad essere caldeggiate soprattutto  dal nuovo movimento nazionalista.
Proprio la campagna di stampa dei nazionalisti fu, con le pressioni degli interessi della finanza cattolica, tra i fattori che spinsero il governo all’intervento militare in Libia (1911).
Nel Psi la corrente riformista guardò con simpatia alla politica giolittiana.
Presto crebbe però entro il partito la forza delle correnti di sinistra, in particolare dei sindacalisti rivoluzionari(questi ultimi ne uscirono nel 1907).
La fondazione della Cgl (1906) segnò un rafforzamento della presenza riformista sul piano delle organizzazioni sindacali.
Ma, dopo l’espulsione dei “revisionisti” nel 1912, il controllo del partito passò ai rivoluzionari, uno dei cui maggiori leader era Mussolini.
In età giolittiana si sviluppò, in campo cattolico, il movimento democratico-cristiano, condannato dal nuovo papa Pio 10.
Ebbero un grande sviluppo, contemporaneamente, le organizzazioni sindacali “bianche”.
Sul piano politico le forze clerico-moderate stabilirono alleanze elettorali, in funzione conservatrice, nelle elezioni del 1913, col “patto Gentiloni”.
I mutamenti in atto nel sistema politico italiano alla vigilia della grande guerra (sviluppo del nazionalismo, accresciuto peso dei cattolici, prevalenza dei rivoluzionari nel Psi) segnavano la progressiva crisi della politica giolittiana, sempre meno in grado di controllare la radicalizzazione politica che si stava verificando (e di cui, nel ’14, la “settimana rossa” fu un rilevante sintomo).
In questa situazione la guerra avrebbe significato la fine del giolittismo.

Bibliografia

La crisi di fine secolo e l’età giolittiana / G. Candeloro. – Vol. 7. della Storia dell’Italia moderna. – Feltrinelli, 1974
Liberalismo e democrazia, 1887-1914 / G, Sabbatucci, V. Vidotto. Vol. 3. della Storia d’Italia. – Laterza, 1995
L’Italia giolittiana / A. Aquarone. – Il Mulino, 1988
Le origini dell’Italia contemporanea: l’età giolittiana / E. Gentile. – Laterza, 2003
Giolitti e l’età giolittiana / G. Carocci. – Einaudi, 1961
La cultura / A. Asor Rosa. – Vol. 4., t. 2. Della Storia d’Italia: Dall’unità ad oggi / a cura di R. Romano e C. Vivanti. – Einaudi, 1975-76
Il mito del buongoverno: la questione meridionale da Cavour a Gramsci / M. L. Salvadori. – Einaudi, 1960
Il Sud nella storia d’Italia / R. Villari. – Laterza, 1988
Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento ad oggi / P. Bevilacqua. – Donzelli, 1993
L’emigrazione italiana dall’unità alla seconda guerra mondiale / E. Sori. – Il Mulino, 1979
Storia dell’emigrazione italiana / a cura di P. Bevilacqua…et al. – Donzelli, 2001
Il socialismo nella storia d’Italia / G. Manacorda. – Laterza, 1966
Storia del socialismo italiano, 1892-1926 / G. Arfé. – Einaudi, 1965
Storia del movimento cattolico in Italia / G. De Rosa. – Laterza, 1966
Il movimento cattolico in Italia / G. Candeloro. – Editori Riuniti, 1961
Le origini del partito cattolico / M. G. Rossi. – Editori Riuniti, 1977
Il nazionalismo italiano / F. Gaeta. – Laterza, 1981

Introduzione

“La storia – ha scritto Paul Ricoeur – è veramente il regno dell’inesatto. Questa scoperta non è inutile; giustifica lo storico. Lo giustifica di tutte le sue incertezze. Il metodo non può che essere inesatto […].
La storia vuole essere obiettiva e non può esserlo.
Vuol far rivivere e non può che ricostruire.
Vuole rendere le cose contemporanee, ma al tempo stesso le occorre restituire la distanza e la profondità della lontananza storica.
Alla fine questa riflessione tende a giustificare tutte le aporie del mestiere di storico”.
Pag. IX-X

In quest’ottica, dunque, la storia è sempre “contemporanea” perché è al presente che sgorgano le ragioni della ricerca storica e per questo si configura come un mestiere in perenne costruzione dove interpretazioni e conoscenze si intrecciano e di modificano nella tensione presente-passato.
Pag. X

Sintetizzando le questioni poste finora si può dire che il rapporto tra il presente e il passato si rivela ambivalente: da un lato è l’osservatorio da cui noi leggiamo e ricostruiamo il passato: dall’altro la contemporaneità è una dimensione prettamente storica che ricolloca costantemente il presente nel tempo della storia.
Pag. XII

Citazioni nel testo

L’idea di contemporaneo / S. Lanaro. – In: Storia contemporanea. – Donzelli, 1997
Voce: Storia / J. Le Goff. – In: Enciclopedia. – Einaudi, 1981
La storia come pensiero e come azione / B. Croce. – Laterza, 1970
Problemi di metodo storico / L. Febvre. – Einaudi, 1976
L’età della storia: i concetti di antico, medievale, moderno e contemporaneo / S. Guarracino. – B. Mondadori, 2001
Scritti sulla storia / F. Braudel. – Mondadori, 1973
Storiografia e idealità morale: conferenze agli alunni dell’Istituto per gli studi storici di Napoli e altri saggi / B. Croce. – Laterza, 1950
Storia e scienze sociali / M. M. Postan. – Einaudi, 1976

Cap. 1. Il Quarantotto
Cap. 2. L’apogeo degli stati nazione

Percorso bibliografico

La rivoluzione europea, 1848-1849 / L. Salvatorelli. – Rizzoli, 1949
Il trionfo della borghesia, 1848-1975 / E. J. Hobsbawm. – Laterza, 1976
L’età degli imperi, 1975-1914 / E. J. Hobsbawm. – Laterza, 1987
Storia della politica internazionale nell’età contemporanea, 1815-1992 / G. Formigoni. – Il Mulino, 2000
Ascesa e declino delle grandi potenze / P. Kennedy. – Garzanti, 1989
Aquile e leoni: stato e nazione in Europa / H. Schulze. – Laterza, 1995
La creazione delle identità nazionali in Europa / A.-M. Thiesse. – Il Mulino, 2000
Leggere la rivoluzione industriale / J. Mokyr. – Il Mulino, 1997
Economia industriale: dal 18. secolo al Duemila / a cura di P. Malanima. – B. Mondadori, 2000
Il lungo Risorgimento: la nascita dell’Italia contemporanea, 1770-1922 / G. Pecout. – B. Mondadori, 1999
Cavour / L. Cafagna. – Il Mulino, 1999
Il Risorgimento: storia e interpretazioni / L. Riall. – Donzelli, 1997
Storia d’Italia, 1860-1995 / L. Ganapini. – B. Mondadori, 1996

Cap. 3. La seconda rivoluzione industriale
Cap. 4. L’Europa imperiale

Erano in pochi a trovare contraddittorio il fatto che lo Stato che aveva decretato, nel 1880, il 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia, quale festa nazionale, si accingesse alla conquista sistematica di enormi territori africani
Pag. 53

La stagione delle esplorazioni va dunque ascritta all’epoca preimperialista in senso stretto: sulla base della cartografia predisposta dagli esploratori e perfezionata dagli istituti geografici, le potenze procedettero, come si vedrà, lungo la via di un’autentica spartizione dello spazio africano, formalizzata dal Congresso di Berlino del 1884-85
Pag. 58

Bibliografia

Prometeo liberato: trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai nostri giorni / D. S. Landes. – Einaudi, 1978
La conquista pacifica: l’industrializzazione in Europa dal 1769 al 1970 / S. Pollard. – Il Mulino, 1989
L’età del capitale / a cura di M. M. Postan…et al. – Vol. 7. di: Storia economica Cambridge
Le economie industriali / a cura di P. Mathias…et al. - Vol. 8. di: Storia economica Cambridge
Come l’Occidente è diventato ricco / L. E. Birdzell. – Il Mulino, 1988
La mano visibile / A. D. Chandler. – Angeli, 1992
L’industria italiana dall’Ottocento ad oggi / V. Castronovo. – Mondadori, 1986
Dalla periferia al centro: la seconda rinascita economica dell’Italia, 1861-1981 / V. Zamagni. – Il Mulino, 1990
L’età dell’imperialismo / W. J. Mommsen. – Feltrinelli, 1989
L’alba illusoria: imperialismo europeo nell’Ottocento / R. F. Betts. – Il Mulino, 1986
L’età dell’imperialismo, 1830-1914 / D. K. Fieldhouse. – Laterza, 1975
Al servizio dell’impero: tecnologia e imperialismo europeo nell’Ottocento / D. R. Headrick. – Il Mulino, 1984
L’imperialismo coloniale italiano dal 1870 ai nostri giorni / J.-L. Miege. – Rizzoli, 1976
Gli italiani in Africa orientale: dall’unità alla marcia su Roma / A. Del Boca. – Laterza, 1976
La marcia verso Adua / N. Labanca. – Einaudi, 1993
Storia dei generi voluttuari: spezie, caffè, cioccolato, tabacco, alcol e altre droghe / W. Schivelbusch. – B. Mondadori, 1999
La grande Europa, 1878-1919 / N. Stone. – Laterza, 1986 

Cap. 5. L’Italia liberale

Cap. 6. La Belle Époque

In altre parole la nazione moderna era qualcosa di profondamente estraneo alla cultura delle genti balcaniche
Pag. 86

L’evoluzione in senso imperialistico della competizione della competizione fra le grandi potenze interessava tre piani diversi, ma fortemente integrati: il piano economico, legato soprattutto all’industria pesante e ai settori di punta dello sviluppo; il piano militare, legato al potenziamento di eserciti e flotte e alla messa a punto di armi di distruzione di  massa sempre più perfezionate; il piano strategico, legato alla ridefinizione continua delle aree di influenza.
Il tipo di regime politico non influì sostanzialmente su questa dinamica: tanto le repubbliche parlamentari (come la Francia) quanto le autocrazie tradizionali (come la Russia) erano guidate da classi dirigenti la cui mentalità, per ciò che atteneva alla visione internazionale e alla lotta fra le nazioni, non era segnata da forti differenze.
Pag. 95

Bibliografia

Storia d’Italia dal 1870 al 1925 / C. Seton-Watson. – Laterza, 1967
Destra e Sinistra da Cavour a Crispi / A. Capone. – Utet, 1981
L’Italia liberale, 1861-1900 / R. Romanelli. – Il Mulino, 1979
Storia politica dell’Italia liberale, 1861-1901 / F. Cammarano. – Laterza, 1999
Giolitti e l’età giolittiana / A. Carocci. – Einaudi, 1971
L’Italia giolittiana / A. Aquarone. – Il Mulino, 1988
Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 / F. Chabod. – Laterza, 1990
Sistema politico e società civile: saggi di teoria e ricerca politica / P. Farneti. – Giappichelli, 1971
La società italiana dall’unificazione alla grande guerra / G. Montroni. – Laterza, 2002
Le origini della prima guerra mondiale / J. Joll. – Laterza, 1985
Sarajevo, 28 giugno 1914: il tramonto della vecchia Europa / V. R. Bergham. – Il MUlino, 1999
I cannoni d’agosto / B. W. Tuchman. – Garzanti, 1963
Il secolo inquieto: la formazione della cultura borghese, 1815-1914 / P. Gay. – Carocci, 2002
Cento anni di Europa, 1870-1970 / J. Joll. – Laterza, 1973

Cap. 7. La Grande Guerra

Cap. 8. La pace difficile

Nonostante il ricorso a una sorta di classicismo culturale rivitalizzato dal bagno di sangue della guerra mondiale, il fascismo era una forza moderna, nel senso che utilizzava categorie e obiettivi impensabili prima del 1915 in Italia: la massa come entità autonoma, l’idea di mobilitazione, la ridislocazione dei gruppi sociali sulla base di mentalità collettive.
In questo, come dimostra Emilio Gentile, esso raccoglieva una ricca eredità di sollecitazioni  intellettuali – dalle riviste del primo Novecento al Futurismo – che affondavano le proprie radici nella contestazione dell’Italietta liberale.
Pag. 124

Bibliografia

La prima guerra mondiale, 1914-1918 / B. H. Liddel Hart. – Rizzoli, 1968
L’Italia nella prima guerra mondiale, 1915-1918 / P. Pieri. – Einaudi, 1965
Storia politica della grande guerra, 1915-1918 / P. Melograni. – Laterza, 1972
Il volto della battaglia / J. Keegan. – Il Saggiatore, 2001
La prima guerra mondiale: una storia politico-militare / J. Keegan. – Carocci, 2000
La grande guerra e la memoria moderna / P. Fussel. – Il Mulino, 1984
Terra di nessuno: esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale / E. J. Leed. – Il Mulino, 1985
L’officina della guerra: la grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale / A. Gibelli. – Bollati Boringhieri, 1991
Il lutto e la memoria: la grande guerra nella storia culturale europea / J. Winter. – Il Mulino, 1998
La tragedia di un popolo: la rivoluzione russa, 1891-1924 / O. Figes. – Tea, 2000
Lo stalinismo: un’introduzione storica / A. Romano. – B. Mondadori, 2002
Storia della Russia contemporanea, 1853-1996 / F. Benvenuti. – Laterza, 1999
Crisi tra le due guerre mondiali, 1919-1939 / R. J. Overy. – Il Mulino, 1998
Una dittatura moderna: il fascismo come problema storico / A. De Bernardi. – B. Mondadori, 2001
Fascismo: storia e interpretazione / E. Gentile. – Laterza, 2002
La caduta dei regimi democratici / J. J. Linz…et sl. – Il Mulino, 1981

Cap. 9. Il mondo nella grande crisi

Cap. 10. Il crollo dell’Europa

Bibliografia

La grande depressione del mondo, 1929-1939 / C. P. Kindleberger. – Etas, 1982
Il grande crollo: la crisi economica del 1929 / J. K. Galbraith. – Comunità, 1962
Il lungo 20. secolo / G. Arrighi. – Il Saggiatore, 1996
La conquista pacifica: l’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970 / S. Pollard. – Il Mulino, 1984
La rifondazione dell’Europa borghese / C. Maier. – De Donato, 1979
L’economia europea tra le due guerre / G. Toniolo. – Laterza, 1998
Crisi e piano: le alternative degli anni Trenta / a cura di M. Telò. – De Donato, 1973
Roosvelt e il New Deal / W. E. Leuchtenburg. – Laterza, 1968
Corporativismo e New Deal / M. Vaudagna. – Rosenberg, 1981
La crisi di Weimar / G. E. Rusconi. – Einaudi, 1977
Lo sviluppo economico dell’Europa centro-orientale / I. T. Berend, G. Ranki. – Il Mulino, 1974
L’economia dell’Italia fascista / G. Toniolo. – Laterza, 1980
Dalla periferia al centro: la seconda rinascita economica dell’Italia, 1861-1981 / V. Zamagni. – Il Mulino, 1990
La Germania nazista / E. Colotti. – Einaudi, 1982
Le origini culturali del 3. Reich / G. L. Mosse. – Il Saggiatore, 1994
Lo Stato nazista / N. Frei. – Laterza, 1992
Hitler e l’enigma del consenso / I. Kershaw. – Laterza, 1997
La violenza nazista: una genealogia / E. Traverso. – Il Mulino, 2002
Il fascismo / S. Lupo. – Donzelli, 2000
L’Italia fascista / P. Dogliani. – Rizzoli, 1999
Fascismo: storia e interpretazione / E. Gentile. – Laterza, 2002

Storia sociale dello stalinismo / M. Lewin. – Einaudi, 1988
Storia del sistema sovietico / V. Zaslawsky. – Carocci, 1995
Lo stalinismo / A. Romano. – B. Mondadori, 2002
Il mito dell’Urss / M. Flores. – Il Saggiatore, 1989
Il Giappone contemporaneo / F. Gatti. – B. Mondadori, 2002
Nazionalismo e bolscevismo: la guerra civile europea / E. Nolte. – Sansoni, 1989
Le relazioni internazionali / F. Tuccari. – B. Mondadori, 1997

Cap. 11. La seconda guerra mondiale e la nascita del sistema bipolare

Cap. 12. La fine del colonialismo e la nuova mappa del mondo

Storia della seconda guerra mondiale: problemi e nodi cruciali / R. Battaglia. – Editori Riuniti, 1971
Storia della seconda guerra mondiale / A. Hillgruber. – Laterza, 1994
Guerra, economia, società, 1939-45 / A. S. Milward. – Etas, 1983
L’Olocausto nella storia / M. R. Marrus. – Il Mulino, 1994
La strada per Auschwitz / G. Gozzini. – B. Mondadori, 1996
Lager, totalitarismo, società. – Mondadori, 2002
Il nazismo e lo sterminio degli ebrei / L. Poliakov. – Einaudi, 1954
La banalità del male / A. Arendt. – Feltrinelli, 1964
La distruzione degli ebrei d’Europa / R. Hilberg. – Einaudi, 1995
L’eredità di Auschwitz: come ricordare? / G. Bensoussan. – Einaudi, 2002
Storia della Resistenza europea / G. Vaccarino. – Feltrinelli, 1981
Una guerra civile / C. Pavone. – Bollati Boringhieri, 1991
Resistenza e post-fascismo / G. E. Rusconi. – Il Mulino, 1995
L’Italia nella seconda guerra mondiale nella Resistenza / E. Collotti. – Angeli, 1988
Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-44. – Feltrinelli, 1974
La guerra senza armi: storia di donne, 1940-45 / A. Bravo. – Laterza, 1995
Una nazione allo sbando / E. Aga Rossi. – Il Mulino, 2002
L’occupazione tedesca in Italia / L. Klinkhammer. – Bollati Boringhieri, 1993
L’alleato nemico: la politica dell’occupazione anglo-americana in Italia, 1943-1946 / D. W. Ellwood. – Feltrinelli, 1977
La Repubblica delle camicie nere / L. Ganapini. – Garzanti, 2000
Le conseguenze della seconda guerra mondiale / A. Gambino. – Laterza, 1972
Storia della guerra fredda / A. Fontane. – Il Saggiatore, 1968
Gli Stati Uniti e le origini della guerra fredda / E. Aga Rossi. – Il Mulino, 1984
Da Monaco a Bretton Woods / R. D’Agata. – Angeli, 1989
L’età del sospetto / M. Flores. – Il Mulino, 1996
Africa / G. Calchi Novati. – Esitori Riuniti, 1984
Sviluppo economico ed arretratezza / G. Quirini. -  Angeli, 1976
Lo sviluppo bloccato / P. Bairoch. – Einaudi, 1976

Cap. 13. L’età dell’oro

Cap. 14. Coesistenza, competizione, contestazione

Bibliografia

Le forze dello sviluppo capitalistico: un confronto di lungo periodo / A. Maddison. – Giuffrè, 1995
Lo sviluppo economico moderno: dalla rivoluzione industriale alla crisi energetica, 1750-1973 / a cura di P. A. Toninelli. – Marsilio, 1997
Storia degli ultimi cinquant’anni: sistema internazionale e sviluppo economico / S. Guarracino. – Mondadori, 1999
1945-1995: l’economia tra crescita e transizione / H. van der Wee. – In: Storia d’Europa, vol. 5.: L’età contemporanea. – Einaudi, 1996
Storia del capitalismo italiano / a cura di F. Barca. – Donzelli, 1997
Storia economica dell’Italia contemporanea  / G. Sapelli. – B. Mondadori, 1997
Storia del miracolo italiano / G. Crainz. – Donzelli, 1996
Il secolo-mondo / M. Flores. – Il Mulino, 2002
Lo sviluppo del welfare state in Europa e in America / P. Flora e A. J. Heidenheimer. – Il Mulino, 1983
Welfare state e socialdemocrazia / G. Silei. – Lacaita, 2000
Storia delle relazioni internazionali, 1918-1992 / E. Di Nolfo. – Laterza, 1994
Il grande dibattito: introduzione alla strategia atomica / R. Aron. – Il Mulino, 1965
L’impero americano / R. Romero. – Giunti, 1996
Storia dell’Unione Sovietica / G. Boffa. – Mondadori, 1979
Storia della Repubblica Popolare Cinese / L. Tomba. – B. Mondadori, 2001
La lunga rivoluzione / E. Snow. – Einaudi, 1973
Il miracolo europeo: ambiente, economia e geopolitica nella storia europea e asiatica / E. L. Jones. – Il Mulino, 1984
Neutralismo e guerra fredda / P. Calchi Novati. – Comunità, 1963
Decolonizzazione e terzo mondo / P. Calchi Novati. – Laterza, 1979
Storia della decolonizzazione / De Bosschere. – Feltrinelli, 1972
L’America latina / A. Rouquiè. – B. Mondadori, 2000
Storia del conflitto arabo israeliano palestinese / G. Codovini. – B. Mondadori, 2002
Papa Giovanni / a cura di G. Alberigo. – Laterza, 1988
La Chiesa nella società contemporanea / G. Verucci. – Laterza, 1988
Il Sessantotto / M. Flores. – Il Mulino, 2003
Saggio sui movimenti del ’68 in Europa e in America / P. Ortoleva. – Editori Riuniti, 1988

Cap. 15. La società postindustriale

Cap. 16. Un nuovo ordine mondiale

Bibliografia

Storia economica del ‘900 / S. Pollard. – Il Mulino, 1999
L’economia mondiale dal 1945 ad oggi / A. Gauthier. – Il Mulino, 1998
La crisi della modernità / D. Harvey. – Il Saggiatore, 1993
Le merci intelligenti: miti e realtà del capitalismo contemporaneo / G. Maione. – B. Mondadori, 2001
La fine del lavoro / J. Rifkin. – Baldini & Castoldi, 1995
Le conseguenze della modernità: fiducia e rischio, sicurezza e pericolo / A. Giddens. – Il Mulino, 1994
Che cos’è la globalizzazione: rischi e prospettive della società planetaria / U. Beck. – Carocci, 1999
Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone / Z. Barman. – Laterza, 2000
Oltre la mondializzazione / S. Amin. – Editori Riuniti, 1999
Ascesa e declino delle grandi potenze / P. Kennedy. – Garzanti, 1989
Storia del sistema sovietico / V. Zaslavsky. – Carocci, 1995
Il passato di un’illusione / F. Furet. – Mondadori, 1996
La caduta dei comunismi / B. Bongiovanni. – Garzanti, 1995
L’Urss a pezzi: nazionalismo e conflitto etnico nel crollo del regime societico / M. Buttino. – Paravia, 1997
Le rovine dell’impero: Europa centrale, 1980-1990 / T. G. Ash. – Mondadori, 1992
Le guerre jugoslave, 1991-1999 / J. Pirievec. – Einaudi, 2001
Il risveglio della Cina / W. H. Overholt. – Il Saggiatore, 1994
Geopolitica dell’Islam / G. E. Fuller, L. O. Lesser. – Donzelli, 1996
Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale / S. P. Huntigton. – Garzanti, 1996
L’Ambiente come storia: sondaggi e proposte di storiografia dell’ambiente / A. Caracciolo. – Il Mulino, 1988
Il secolo planetario: tempi e occasioni per una storia dell’ambiente / P. Bevilacqua. – In: ‘900: i tempi della storia / C. Pavone. – Donzelli, 1997

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