Storia greca di Domenico Musti

Prefazione

Le osservazioni che si pongono in prefazione a questo nuovo manuale di storia greca vogliono solo essere chiarimenti utili al lettore sulla struttura del libro; rispondono ai quesiti ‘che cosa trovarci’ e ‘come’.
Dei principi che hanno presieduto alla scelta tematica, inevitabile in ogni opera di sintesi e qui adombrata da un sottotitolo che fa riferimento a “linee di sviluppo”, dell’orientamento metodologico dell’opera e dell’idea della grecità che le è sottesa, discorriamo più ampiamente nell’introduzione, che immediatamente segue.
Il testo, in senso stretto, del libro è concepito in senso diacronico, ha perciò un carattere prevalentemente narrativo ed espositivo, assorbendo però già in sé i termini e i risultati di un discorso problematico e critico.
In esso predominano i fatti, anche se, come sempre negli studi storici, la loro presentazione vuole esserne già un’interpretazione.
Vi prevalgono, come già detto, le linee di sviluppo complessivo della storia della grecità: l’autore è ben consapevole del fatto che altro spazio, altri volumi occorrerebbero per quella che gli sembra una istanza di quest’epoca di studi: una storia del mondo greco secondo regioni.
Nelle note in calce al testo medesimo si fa posto soprattutto ai richiami alle fonti documentarie, che illustrano le situazioni descritte nel testo, ne integrano alcuni rinvii là già presenti; accanto alle fonti appaiono, in queste note, solo alcune essenziali citazioni bibliografiche, che sono richiamate direttamente dai profili problematici evocati nel testo, o che, per completezza o aggiornamento, sostituiscono in qualche modo la citazione diretta delle fonti relative all’esposizione fatta nel testo.
Anche nei rinvii alle fonti si è proceduto con criterio selettivo; si è preferito comunque legare le pur selettive citazioni, di autori e di documenti, alla pagina o al passo specifici del testo espositivo, piuttosto che confinare in una sintetica nota preliminare o conclusiva il nudo elenco delle fonti relative a un fatto o a un periodo storico: sia perché il collegamento diretto di questo o quel passo di Erodoto, di Tucidide, di Diodoro e così via in seguito, diventa, per il lettore di media informazione, un punto di riferimento preciso, uno stimolo alla lettura diretta del documento e al suo controllo, più della semplice citazione del titolo di un’opera storica dell’antichità, sia perché, come è sempre nella storiografia, un’opera di uno storico antico non ha ad oggetto un solo tema o un solo periodo, e, viceversa, un periodo o un fatto hanno spesso per sé uan molteplicità di fonti.
Sembra questo un criterio di citazione delle fonti più utile e praticabile, e più giusto, anche se si tratta pur sempre di una scelta, condizionata dalle dimensioni e dal carattere del libro.
Non si è rinunciato comunque a proporre dei profili storici degli storiografi antichi più significativi e più caratterizzabili nella loro personalità e nella relazione con il loro tempo: tali profili si trovano di norma nelle Note integrative, nelle parti conclusive di esse.
In corpo tipografico minore, seguono, ai capitoli che compongono il libro (1-12), delle Note integrative, concepite come ampie schede, spesso di profilo fortemente problematico e anche talora con prospettazione sommaria di soluzioni nuove, per lo più relative a temi di carattere storico-culturale, ma talora anche intese a sviluppare un problema storico-politico, accennato o sfiorato nel testo vero e proprio.
Le Note sono quindi veramente integrative, e solo con esse si costituisce l’unità del testo del manuale.
Esse sono numerate con lettere dell’alfabeto, e si succedono (fin dove ricorre il relativo materiale) nel seguente ordine di categorie: fatti storico-politici, aspetti di ordine culturale (archeologico, artistico, letterario, religioso, filosofico), aspetti di storia dell’economia, profili di storiografi antichi,
Solo in questa forma è sembrato possibile evidenziare la latitudine dei temi che costituiscono la ‘storia’, in quel senso globale che solo si addice al termine.
Trattare id questi temi era indispensabile; ma sarebbe stato vano immaginare di poter sostituire, con esposizioni che sono necessariamente sintetiche, storie specifiche e specialistiche di letteratura greca o manuali di archeologia o di storia delle religioni o del pensiero filosofico, e così via di seguito.
Credo che per il lettore le Note integrative debbano valere come un discorso aperto, cioè come decisi stimoli a una continuazione, in altre sedi, dell’informazione e dell’indagine, ma gli possano anche servire come prospettazioni problematiche già sufficientemente elaborate (e coerenti – si ritiene – con l’impianto concettuale del libro, e il nesso forte che esso intende sottolineare tra politica e cultura di una società e di un’epoca).
Come già detto per l’esposizione e le note, anche la Bibliografia posposta, subito dopo le Note integrative, a ciascun capitolo, è solo il frutto di una scelta.
A questo proposito tuttavia debbo dire che, mentre mi costa molto la selettività per ciò che riguarda i rinvii alle fonti, essa suscita in me un po’ meno rammarico per quanto riguarda la bibliografia: non per il merito specifico di ciascuna delle opere non citate, per le quali posso solo dolermi di non averne fatto menzione, ma perché, esaminando il problema nei suoi termini generali, ne traggo la convinzione che una certa scelta bibliografica possa essere opportuna, anzi fruttuosa, in un libro in cui l’aspetto di sollecitazione dell’interesse e dell’indagine del lettore è tutt’altro che secondario.
Avrebbe infatti avuto poco senso trasformare l’indispensabile apparato bibliografico in uno sterminato inventario di titoli, magari disposti in ordine alfabetico, isolati in spazi che, inevitabilmente, per molti lettori finiscono con l’operare come dissuasivi – per mancanza di ogni caratterizzazione – dalla consultazione e lettura diretta.
Perciò la Bibliografia posta in fondo ad ogni capitolo (che rinvia, con numero d’ordine, al paragrafo o spesso – per inscindibilità dei temi – a più paragrafi del capitolo di testo immediatamente pertinente e, con lettere dell’alfabeto, alle Note integrative dello stesso capitolo, pur nella loro sommarietà, meritino richiami e conferme bibliografici) appare come una raccolta ‘ragionata’ di titoli, raggruppati tematicamente, contenente, in preminente ordine cronologico, titoli vecchi e recenti, cioè puntelli del discorso critico svoltosi in passato sull’argomento, o opere particolarmente aggiornate e recenti: comunque, studi dei quali l’autore di questo libro abbia avvertito l’importanza, l’utilità o anche solo l’interesse per il lettore.
Se pur non completa (ma si può immaginare quanti volumi dell’Année philologique per una bibliografia completa, su tutto il periodo e su tutti i temi toccati, il manuale avrebbe dovuto inglobare), e con tutti i suoi dichiarati limiti, si spera però che questa bibliografia sia almeno utile, cioè leggibile e utilizzabile (non da ultimo, per le numerose incursioni fatte nel contenuto specifico dei singoli studi).
Le tavole che corredano il volume, senza troppo appesantirlo, sono carte geografiche e topografiche, tabelle cronologiche e genealogiche, quadri e grafici relativi ad aspetti ‘quantitativi’, che spesso sostituiscono dati non forniti nel testo, talora semplicemente evidenziano e coordinano dati dispersi nell’esposizione: di questa, in qualche modo, anche le tavole fanno parte.
A conclusione (come è tradizione nelle prefazioni, anche se sento che dovrebbero stare in cima) alcuni ringraziamenti.
Alla Casa Editrice Laterza, che ha voluto accogliere questo libro in una collana prestigiosa, e al suo corpo redazionale, che con impegno, con cura e soprattutto con amicizia ha seguito le diverse tappe della sua elaborazione.
Ai dottori Umberto Bultrighini e Piero Vannicelli, che hanno validamente collaborato alla correzione delle bozze e all’esecuzione di una serie di assai utili riscontri.

Introduzione

Proporre un panorama generale della storia greca significa presentare una nuova sintesi, in definitiva uan nuova scelta di temi.
Narrare i fatti è anche mostrarne le connessioni; già la successione degli eventi nell’esposizione corrisponde a una scelta, rispetto a quello che si ritiene essere il senso del movimento storico.
Gli eventi narrati sono dell’ambito politico-militare: si concentrerà dunque l’esposizione solo su questi aspetti, e la si ridurrà perciò a una storia politica?
Chi scrive è convinto che, entro certi limiti, non sia possibile veramente distinguere una storia politica da una storia culturale nel senso più ampio; il linguaggio dei fatti può avere una sua implicita molteplicità di registri.
I fatti che si succedono al livello del registro politico sono al fondo storia della cultura, delle idee e delle forme mentali; essi ne parlano, se si dà loro voce, se se ne opera cioè una concettualizzazione costante.
Narrare ad esempio la storia di Pericle o della guerra del Peloponneso significa fin troppo naturalmente evocare forme mentali, processi culturali, reazioni di ambienti diversi, elementi di un conflitto che è politico, sociale ma anche culturale.
Che cosa legittima questa pretesa di lasciar parlare i fatti?
Pur nella consapevolezza del limite obiettivo di ogni scelta e id ogni linguaggio, una qualche garanzia di dar vita a un linguaggio coerente e plausibile risulta dal tentativo di vedere i greci con gli occhi dei greci: compiere il massimo sforzo di applicare le loro categorie interpretative e forme mentali.
E allora i rischi appaiono già più limitati: basti pensare all’utilità di una coppia di categorie come quella del privato e del pubblico, che accompagnano quasi ossessivamente tante espressioni di storici, trattatisti, teorici, oratori greci, e che non vanno perciò relegate nel dimenticatoio delle espressioni banali.
Proprio perché frequentissimo, il binomio costituisce il binario lungo il quale procede tutta l’esperienza politica e culturale greca.
Perché non adottarlo come filo rosso, come una delle categorie-guida di un’esposizione che si costruisce come una successione di scelte, via via che si narrano i fatti?
E soprattutto, intorno alla grande curva del processo storico greco, un’accorta adozione di queste categorie può aiutare a impostare in maniera convincente il tema cruciale dello sviluppo storico greco: il passaggio dal 5. al 4. secolo ‘attico’ per eccellenza al periodo di cosiddetta crisi della polis.
2. L’idea di processo e sviluppo storico implica una scelta di esposizione diacronica: il linguaggio dei fatti e degli eventi non ammetterebbe scelta diversa.
Ciù significa operare con l’idea che si possa narrare la storia greca come una grande ‘parabola’, come un processo che muove dagli inizi della storia arcaica, trova poi un culmine nel 5. secolo avanzato e imbocca quindi una curva che si stenta a definire di declino, ma che certo è di grande trasformazione.
Con questo non si propone certo un modello nuovo: è anzi, in termini generali, un modello espositivo e interpretativo tradizionale, che si è solo negli ultimi trenta o quarant’anni complicato di una serie di problemi ulteriori nella definizione di questo inizio, perché la storia dei greci, nel senso più pieno della parola, cioè la parte delle loro vicende più documentata e documentabile, comincia con il periodo miceneo: e tra questo e il periodo arcaico si deve valutare l’esistenza di maggiore o minore continuità e analogia.
Certi aspetti di grandezza e potenza dell’epoca micenea vanno infatti poi raccordati con aspetti di stagnazione o depauperamento che l’età arcaica ai suoi primi inizi conosce.
L’avvio della parabola è già di per sé complicato.
Tuttavia è anche facile capire che quella parabola, che tocca l’apice nel 5. secolo avanzato – e costituisce l’intelaiatura, secondo cui anche questo manuale è costruito – è definita sulla base della storia della polis (espressione che, al singolare, ha valore come generalizzazione e astrazione di un plurale assai meglio verificabile nel concreto e nel particolare storico, cioè le poleis).
Dunque non è nuova l’idea della grande parabola, che ha il merito di conferire una plausibile unità logica al discorso, e di dare giustificazione allo stesso sforzo di sintesi.
Se qualcosa di nuovo, in qualche misura, si è tentato, nel panorama della storia greca che qui si propone, è di mostrare come questa parabola abbia una sua solidità di struttura, che va molto al di là del suo asse politico-militare; come in ciascun punto di essa sia realmente verificabile il forte intreccio tra il politico, il sociale, l’economico, la cultura, il mondo del mentale e dell’immaginario in genere, anzi, come sia possibile narrare fatti che appartengono alla sfera politico-militare, senza che essi si trascinino dietro, nelle parole stesse che li descrivono, aspetti comportamentali di individui e di gruppi, i loro modi di porsi di fronte ai bisogni economici e alle spinte sociali, il loro atteggiarsi nell’espressione culturale o in quella letteraria, le loro attitudini mentali profonde. Il diffondersi su larga scala di nuove e diverse esigenze intellettuali.
Il continuum della storia si verifica dunque non solo come senso generale della parabola nel suo diacronico sviluppo, ma anche come sincronico intreccio di azioni e di forme mentali, quale risulta dalla complessità delle situazioni di fondo.
In quanto la parabola è realmente perseguibile (per essere stata per vari aspetti già di fatto perseguita in tante storie generali della grecità), essa dimostra l’applicabilità di una nozione di sviluppo organico proprio a quei greci che dell’organicità furono, nella storia della cultura umana, i grandi teorici.
C’è d’altra parte anche un profilo didascalico di non scarso rilievo in un’esposizione fondata sull’idea di uan grande parabola: ed esso consiste nel ricondurre l’esposizione della storia greca ad una unità di fondo, che la rende memorizzabile in quanto la rende comprensibile, comprensibile nel suo svolgimento d’insieme – salvo poi conservare viva tutta l’attenzione e l’indispensabile curiosità per il molteplice, il difforme, la varietà delle situazioni.
Unità e molteplicità sono aspetti inscindibili della storia e chiavi di lettura, moduli essenziali, del linguaggio dei fatti.
La parabola greca rivela in ogni suo momento il nesso stretto che storicamente sussiste tra politica e cultura.
Forse in questo binomio è contenuta la caratteristica fondamentale del linguaggio adottato in questo libro.
Con ciò non si intende limitarsi a proporre esposizioni parallele di aspetti e momenti della storia politica e, mettiamo, della storia letteraria, anche se ovviamente l’esposizione degli eventi politico-militari si salda in molti punti con pagine di sintesi riguardanti la produzione letteraria e artistica; si tenta invece l’individuazione di quegli atteggiamenti intellettuali e culturali che si esprimono negli uni e nell’altra, e che è facile ritrovare anche nelle situazioni sociali ed economiche di fondo.
Tentare di cogliere la cultura di un’epoca è come tentare di capire l’intimo, eppur non segreto, linguaggio di una società.
Il rapporto tra cultura e politica, in senso stretto, è un rapporto d’interazione, dove è difficile, e probabilmente poco sensato, distinguere tra la causa e l’affetto, tra il primo e il dopo: il linguaggio degli eventi, se ben ricostruito, è il linguaggio stesso delle grandi attitudini e trasformazioni culturali.
In altri termini, se è vero che la cultura (letteraria, artistica, religiosa, filosofica) riflette anche gli eventi della politica (e a questo aspetto sono state dedicate tante ricerche, delle cui prospettive si cerca qui di dar conto), è però anche vero che la politica esprime una cultura ed è ascrivibile nei termini della cultura che la ispira.
3. Riproporre un profilo diacronico ha tanto più senso, quanto più si hanno presenti i caratteri originari della grecità, e insieme le singole espressioni che tempi diversi e situazioni diverse inducono in essa: gli aspetti di lunga durata, dunque, e insieme le novità e modificazioni nelle singole situazioni e nei diversi momenti storici.
Un’impostazione del genere è particolarmente giustificata nella storia di un popolo, in cui, per mille aspetti, si manifesta il processo per cui la natura si fa cultura, senza mai smettere di essere natura.
La specificità e anche (in un senso che più avanti chiariremo) la paradigmaticità della storia greca (quello insomma che un tempo, e soprattutto in chiave di valutazione estetica, si definiva ‘miracolo greco’) consiste, a nostro avviso, proprio in questa straordinaria congiunzione di realismo e idealismo.
Ora, per me il miracolo greco, di cui non si smetterà mai di parlare, è proprio la capacità di trasferire tutto sul terreno dell’idealità, dell’astrazione, dell’ethos, ribaltando però uan base di partenza che è realistica, naturalistica, utilitaristica, passionale, sensuale, ecc.
Dunque in ciò consiste, a mio avviso, il primo autentico ‘miracolo greco’, non tanto in visioni neoclassicistiche del gusto per l’armonia, per la simmetria, per la resa estetica, per l’idealità allo stato puro.
Il tema è, in ogni caso, eterno oggetto di discussioni e riflessioni: tant’è che un grande ellenista come Louis Gernet ha potuto essere proposto e proporsi come autore di una rappresentazione dei greci sans miracle (Les grecs sans miracle, Paris 1983).
Certo, è difficile trovare nella storia dell’umanità una cultura più realistica di quella greca; è difficile però anche trovare una cultura che sia stata altrettanto capace di creare un mondi di valori ideali in piena e lucida coscienza degli impulsi e dei bisogni naturali e materiali dell’uomo; una cultura dotata perciò di una fortissima capacità di traguardare verso figure, norme, valori ideali: tipica duplicità dell’atteggiamento greco di fronte all’esistenza, che Burckhardt definiva come un pessimismo nella visione del mondo congiunto all’ottimismo del temperamento.
L’attitudine dei greci di fronte al possesso materiale e al denaro è quella di chi ne sente (e ne subisce anche, nel bisogno) tutto il terribile potere; la percezione dell’utile, e specificamente dell’economico, è qui davvero un carattere originario, primordiale: ma su quella percezione utilitaristica di base si imposta subito un codice di valori ispirati alla misura e all’equità, che delinea – a ridosso e quasi a dispetto di quella primordiale intuizione e quotidiana e durissima esperienza – il registro dell’ideologia.
Che poi questo sistema di norme e valori abbia il suo centro di gravità nella polis, corrisponde a uan caratteristica storica prevalente nella società greca: il codice, secondo il quale si definiscono le misure e gli equilibri, è infatti quello della società cittadina, o  piuttosto delle tante società cittadine che la Grecia produce, e di quelle che, se pur non pienamente cittadine, fruiscono però ampiamente di questa esperienza storica centrale (e della cultura che le è sottesa).
Così, un atteggiamento culturale di fondo costituisce il raccordo (e, per lo storico moderno, la possibilità di rappresentazione della connessione) tra esperienza economica ed esperienza politica in Grecia.
Della specificità storica della grecità si perderebbe il senso, se si sbilanciasse il quadro tutto sul polo dell’idealità.
Ne possono nascere (e ne sono nate) rappresentazioni di compiuta ‘armonia’, che competono all’eminente (e certo efficace) livello dell’ideologia, ma che, se fatte valere per sé sole, falsano i dati dello sviluppo storico greco e forniscono un’immagine dimidiata delle grecità.
Se c’è qualcosa di profondamente educativo nella riflessione sul mondo greco, è proprio il fatto che non c’è nessuna massima o posizione ideale qui espressa, che non sia stata sofferta, e filtrata, attraverso l’esperienza dell’esistenza reale, di tutte le sue passioni, di tutti i suoi mali, o perfino dei suoi orrori.
l’”armonia” qui è guadagnata attraverso un’esperienza, e una coscienza sempre ben desta, della ‘disarmonia’.
Chi si pone su posizioni diverse, finisce col cadere suo malgrado in un estetismo e in un neoclassicismo di fondo, anche quando in gioco non sia la valutazione di aspetti artistici e in genere estetici.
L’armonia della polis classica del 5. secolo  - di fronte a cui starebbero l’esplosione di tutto il negativo, le crisi e i processi distruttivi delle epoche seguenti – è una pura invenzione di alcuni moderni, profondamente estranea all’esperienza greca della realtà.
Questa è infatti un’esperienza totale: il bene e il male, il senso dell’amicizia e gli odi profondi, la capacità della dedizione generosa e quella di tradire, vi si mescolano insieme; non c’è posto per rappresentazioni oleografiche, ove si abbia una vera familiarità con i documenti della cultura greca.
Il modo più autentico di mostrare rispetto per la storia del greci è quello di sentirla e trattarla, innanzitutto e semplicemente, come storia di gente che ha vissuto.
L’esperienza dei greci non è librata sulla vita, e lontana da essa; è la vita stessa e la realtà nella diversità delle sue manifestazioni: con in più però qualcosa che ne fa un precedente grandioso per tutta l’esperienza umana, cioè la coscienza, la riflessione, la teorizzazione, la parola che le ha espresse, la scrittura che ha dato alla parola forma stabile e, a suo modo, definitiva.
Vista così, la grecità è la coscienza stessa del reale, come si è espressa per la prima volta in altissimo grado nella storia della cultura europea e di ascendenza europea.
Storicamente, questa coscienza appare specificamente applicata alla costruzione di un tipo di società, quella cittadina, che sembra poter costituire l’orizzonte in cui impulsi e bisogni primordiali, senza rinnegarsi (perché mai così fu), si limitano, misurano, compongono.
L’armonia greca è percorsa dunque da un’intensa tensione.
Il momento della classicità nella storia dell’esperienza greca è proprio quello in cui i contrari si decantano, si oppongono: sul piano politico, questo è pienamente verificabile: la seconda metà del 5. secolo è l’epoca a cui corrisponde la piena maturazione e divaricazione delle posizioni contrapposte, implicite in tutta l’esperienza politica greca.
Una cultura dunque in cui l’armonia appare strettamente intrecciata alla tensione; in cui gli elementi e le caratteristiche della crisi appaiono già contenuti, in embrione, nell’esperienza che la procede e che sembra dominata totalmente dalla nota dell’armonia: come, appunto, è in ogni sviluppo organico.
Se non se ne riconosce l’endogenesi, si rischia per esempio di concepire la guerra del Peloponneso coem una sorta di malattia o sciagura sopravvenuta dall’esterno, una esplosione improvvisa di conflitti e di odio, uan prepotente affermazione di degeneri particolarismo, l’inizio di un declino inarrestabile.
Certo, quei fatti negativi, quei mali, vi furono, e sono innegabili in quanto mali.
Ma lo storico non può limitarsi, o prevalentemente applicarsi, a farne la deplorazione: ne studia la genesi, tutta intrinseca alle condizioni storiche che precedono, ne sente e descrive il costituirsi, lo svilupparsi e il pieno dispiegarsi, e in questo non fa altro che continuare il mestiere della storiografia, come fondato e praticato dagli storici greci antichi, o almeno dai migliori di essi.
Lo storico può anche sentire la pietà, ma dev’essere uan pietà attraversata e sorretta dall’intelligenza.
C’è un aspetto fondamentale dell’esperienza interstatale dei greci, che ha spesso suscitato una più o meno esplicita condanna, un tono di deplorazione che ha più dell’indignazione moralistica che non dell’obiettiva valutazione storica: ed è quello, poco fa evocato, del particolarismo, e che invece faremmo meglio a presentare in primo luogo con una terminologia greca che meglio vi corrisponde e che lo esprime al meglio, e cioè autonomia (o, nella forma più piena, eleutheria kaj autonomia “libertà e autonomia”).
Parlare di particolarismo con tono di deplorazione equivale a dire che i greci non sapevano quale fosse il loro bene, e che dovrebbero impararlo da noi moderni, forti come siamo dell’esperienza dei moti di unificazione nazionale.
Ma per i greci l’unità era culturale, cioè di lingua, di alcune istituzioni comuni, di culti; un rapporto entro cui originariamente e durevolmente, pur se nella misura del possibile, circolava l’idea di synghéneia, di “consanguineità”, attinta al lessico familiare, ed estesa al rapporto interstatale.
E sa di unità politica parlavano, non era nel senso di una unificazione territoriale, bensì in quello di una unità nella diversità, di un rapporto autonomistico, in cui ciascuna città (o popolo) conservasse la propria identità, cioè, innanzi tutto, i propri usi, costumi, istituti.
E l’identità era costruita –sempre per dirla nel linguaggio dei greci – ‘a misura d’uomo’, perciò limitata sia nel numero dei soggetti implicati come titolari dei pieni diritti, sia nello spazio dominato.
Poiché, d’altra parte, la cultura greca è fra le più realistiche prodotte dalla storia, di essa è caratteristica la consapevolezza che, appunto perché ciascuno deve essere se stesso e libero (autonomos ed eleutheros), e nel contempo l’estensione del ‘diritto’, potremmo dire, ‘all’identità’ è straordinariamente ampia e riguarda così entità maggiori e più potenti come entità minori e più deboli, l’autonomia, per non essere pura e semplice frammentazione, deve conciliarsi con la heghemonia (egemonia), cioè con la “funzione di guida” di un’entità più autorevole, a cui quella preminenza tocchi in forza del consenso dei molti che, restando autonomi, accettano di farsi guidare.
Il binomio egemonia / autonomia non costituisce dunque un’antitesi, ma uan funzionale polarità, che si accresce almeno con lo sviluppo della cultura cittadina, e che quindi è presente, in maniera del tutto naturale, già al livello di Omero.
L’impresa dei greci a Troia è già rappresentata secondo il modello di un’egemonia (Agamennone), che si concilia però con la persistenza dell’identità (e di una sorta di pari dignità) fondamentale dei diversi contingenti (pur nel dovere di una ubbidienza, che è comunque passata attraverso il filtro della discussione e della persuasione, a livello di capi e in presenza di un’assemblea).
Che cosa dovrebbe ‘ritoccare’, di questa attitudine originaria e fondamentale dei greci, lo storico moderno?
Rispetto all’esperienza degli Stati nazionali e territoriali, rispetto alla storia e alla geografia ‘delle capitali’, il moderno non potrà che trovare difettosa, e carica di rischi, questa caratteristica greca.
E’ vero infatti che in essa era insita una condizione di debolezza che, al momento in cui si fosse esaurita la carica propulsiva della città, sul terreno militare, tecnico, economico (di fronte all’insorgere di altri conglomerati storici di potere, di esperienza, di risorse umane e materiali), avrebbe avuto come prevedibile esito l’assoggettamento.
Ma voler correggere questo apparente ‘neo’ dell’esperienza greca equivarrebbe ad arrogarsi il diritto di correggere la sostanza della storia politica e della stessa cultura greca.
Ogni civiltà, si potrebbe infatti replicare, ha i suoi costi: lamentarne certi esiti sarà pur legittimo, ma non è quel che compete allo storico, o non è quel che compete a noi moderni nel moderno in cui giudichiamo da storici.
Prospettare altre esigenze e soluzioni storiche può essere una forma di saggezza da far valere per il nostro mondo e la nostra civiltà, cioè in tutt’altro quadro di condizioni e relazioni.
L’assoggettamento da parte di grandi potenze territoriali fu certo sentito, temuto, deprecato e anche a lungo efficacemente ostacolato dai greci ma era un esito storico possibile, intrinseco al loro stesso modo di concepire il rapporto fra le diverse entità politiche; e questo modo era, a sua volta, strettamente collegato con il loro sentimento dell’esistenza, in cui l’esperienza profonda e sofferta del dato naturale diventava un elemento di cultura e di coscienza.
Ora, in natura ci sono più esseri, che hanno ciascuno un proprio sviluppo organico, non illimitato, in virtù del quale ciascuno ha e conserva (e ha tutto il diritto di conservare) la sua identità, e in cui però il limite è segnato dalla stessa ferrea legge del tempo, che tanto fa nascere, crescere e maturare le diverse entità biologiche, quanto le piega a un inesorabile declino.
Il pessimismo di fondo di una tale concezione naturalistica si intreccia indissolubilmente con un senso finale, paradossalmente rasserenante, di equilibrio universale, che concede a ciascuno pur sempre uno spazio temporale e di possibilità reali, entro il quale esprimersi.
Chi si pone contro questa concezione, nelle sue varie e naturalmente intrecciate componenti, è colpevole di hybris, il peccato capitale, per i greci, che è la “prevaricazione”, il disprezzo o il rifiuto della misura, la prepotenza, che vuole mettere in forse le eterne regole del gioco e sfidare gli equilibri naturali, che immancabilmente si ricostruiscono.
L’uso della categoria del particolarismo, dunque, non è certo sbagliato, ma permette di cogliere solo una parte della verità; se non è accompagnato dalla considerazione di quel tanto di necessità che c’è in una civiltà storica, rischia di sollecitare lo storico a una sorta di indebito moralismo politico.
Meglio farà lo storico ad apprezzare, dell’esperienza greca, la varietà nell’unità culturale di fondo: che è quel che si verifica neo momenti migliori della storia dei greci (cioè quelli della maggiore sicurezza, prosperità, libertà da condizionamenti esterni), e in ogni caso corrisponde alle loro dichiarate aspirazioni.

4. Abbiamo osservato che la storia greca è stata spesso descritta, e si lascia facilmente descrivere (non si vede infatti una sola ragione valida per cambiare, a questo riguardo), come una parabola, come un processo che ha un suo evidente culmine nel 5. secolo  avanzato, nel ‘momento del classico’ per eccellenza, per poi dar luogo a un declino o ripiegamento.
Qui occorre tuttavia sottolineare che questo ‘declino’ presenta caratteristiche del tutto particolari, che non rendono per nulla facile l’adozione della parola qui usata, anche se essa contiene una certa dose di verità.
L’esperienza multilaterale e pluralistica dei greci conosce in età alto-arcaica forte omogeneità nella costituzione di comunità aristocratiche, che nel loro sviluppo attraversano in genere crisi analoghe, per imboccare infine in parte la via democratica, in parte consolidare (spesso con i dovuti aggiornamenti) gli antichi tratti aristocratici e quindi approdare allo scontro finale nella guerra del Peloponneso.
Ebbene, in questo processo assistiamo a un infittirsi e accelerarsi progressivo delle esperienze, delle innovazioni, delle elaborazioni e distinzioni e persino sofisticazioni che, se culminano nello sconquasso della guerra civile, costituiscono di per sé un patrimonio di esperienze di straordinarie dimensioni e immenso valore, per i greci come per l’umanità intera: un patrimonio costituito, quasi guadagnato, a costo di sofferenze indicibili (a riprova del nesso stabilito uan volta per tutte dai greci tra sapere e soffrire).
E’ un capitale storico, politico e culturale, di grandiose proporzioni, destinato poi ad essere ‘investito’ in una quantità di riflessioni, sistemazioni, elaborazioni, che sono la caratteristica di fondo della grecità del 4. secolo e dei secoli successivi: quella che, proprio per effetto di certi stemperamenti e adattamenti che la sofferta esperienza aveva indotto, è destinata ad essere, in misura nettamente prevalente, una grecità assimilabile dalla cultura romana medio e tardo repubblicana, e d’età imperiale e a diventare la grecità delle stesse moderne esperienze umanistiche.
5. L’immagine qui usata, della cultura e della stessa esperienza politica greca come patrimonio e tradizione, non risulta soltanto dalla sua effettiva trasmissione a società e culture distinte e affini: essa trae giustificazione anche dalla intrinseca capacità e propensione della cultura greca a porsi come paradigma.
Le sue prime espressioni, a cominciare dall’épos, si propongono appunto come modello: e il processo si intensifica via via nel corso del tempo, ed ha perfino una netta accelerazione nel passaggio dal 5. al 4. secolo, quando si aggiunge un netto sentimento della avvenuta conclusione di un’epoca, la chiara consapevolezza di uno stacco tra passato e presente, o certi momenti o personaggi del pieno 5. secolo, che diventano punti di riferimento orgoglioso o occasioni di nostalgia o occasioni di nostalgia o, ancor più, antichi paradigmi di legislatori, come Draconte o Solone per Atene, Licurgo per Sparta), come anche il passato della cultura, quello delle memorie storiche, e delle grandi tradizioni di città e popoli della Grecia: un imponente processo di recupero, che è direttamente proporzionale, per paradossale che ciò possa sembrare, poiché proprio questo giustifica la convinzione che il presente debba rimodellarsi sul passato.
E’ con questa carica paradigmatica che la cultura greca si trasmette a quelle più recenti, fino alla nostra.
Affermare ciò non significa certo proporre illusioni neoumanistiche, o perdere il senso della diversità e della profondità storica.
Una prospettiva storicistica (come quella che in questo libro si fa valere) non può non essere le mille miglia lontana da atteggiamenti del genere.
Sta di fatto che, nella sua vastità e intensità, ma soprattutto nel grado di coscienza che essa esprime, la cultura greca si presenta già al suo interno come un ‘inventario di achetipi’, di paradigmi, di modelli, e perciò necessariamente trasmette la nozione stessa di archetipo, di esperienza iniziale ed esemplare, alle età e alle culture più tarde; essa si pone come una specie di laboratorio storico, in cui sono state vissute fino in fondo molte attitudini ed esperienze fondamentali dell’uomo.
Senso del paradigma e coscienza della distinzione tra passato e presente non sono inconciliabili fra loro: la storia culturale greca, come abbiamo detto, lo dimostra: e, a maggior ragione, ciò vale per il rapporto tra età antica ed età contemporanea.
Idee fondamentali come quelle di storia o di democrazia appartengono a questo ‘patrimonio di archetipi’, rispetto a cui la cultura moderna non può rimanere indifferente, nell’assurda convinzione che quella storia o quella democrazia siano assolutamente tutt’altra cosa da ciò che oggi si intende per esse.
6. Di queste riflessioni e convinzioni riguardo alla storia culturale e specificamente politica dei greci è nutrito il discorso che qui si propone.
Naturalmente esse non possono essere dimostrate sino in fondo, in una sintesi che deve tenersi entro determinati limiti di spazio, né possono ricorrere ad ogni pagina.
Ciò di cui si può forse utilmente avvertire il lettore è che alcune categorie, o problematiche, ricorrenti nell’esposizione, sono il frutto o il riflesso di queste convinzioni.
Mi riferisco in primo luogo al ruolo centrale ovviamente assegnato alla nozione di polis, sulla quale è impostata la struttura diacronica dell’esposizione e al rapporto polis-territorio, con tutto quel che il territorio (chora) significa, in risorse, produttività, modo di vita, possibilità di utilizzazione, funzione dei diversi assetti statali (città, popoli, regni); al binomio pubblico-privato, nei rapporti interni alla città, o egemonia-autonomia, nei rapporti esterni; al rapporto tra società / economia e storia; al valore indicativo delle forme mentali, come punto di raccordo, zona di passaggio, filtro interpretativo tra situazioni sociali e politiche, condizioni economiche ed espressioni culturali in senso stretto.
Il razionalismo del 5. secolo è, per esempio, in un rapporto di forte interazione con gli sviluppi politici, la crescita dell’economia monetaria, l’affermarsi (pur con tutti i limiti storici) di una mentalità e una pratica dell’investimento e dell’impresa, la speculazione sofistica, il dominio e l’organizzazione di spazi sempre più vasti e così via di seguito: in questo senso tout se tient e il discorso storico può davvero tentare di trascorrere, con giustificata continuità, dall’uno all’altro aspetto.
7. E’ consuetudine d’ogni manuale fornire un quadro della storia degli studi che precedono, soprattutto delle grandi opere di consultazione che costituiscono le pietre miliari della ricerca.
I cenni che ne daremo qui di seguito non hanno altro scopo che quello di indicare il significato culturale complessivo di opere rappresentative di epoche e metodi di studio, non mirano a fornirne una descrizione adeguata, per cui si richiederebbe ben altro spazio; essi serviranno a segnare momenti decisivi nell’acquisizione di una maggiore coscienza dei termini dei problemi, a indicare debiti, a rilevare differenze di metodo o di visione della grecità.
La risalita nel tempo, nella ricostruzione degli studi dell’antichità, per avere una qualche utilità deve partire almeno da quella straordinaria stagione di riflessioni critiche, di emergente e rinnovato interesse archeologico e nuovi scavi, di fondazione di nuove tecniche d’indagine e d’esposizione, che corrisponde più o meno al secondo quarto del 18. secolo (1725-1750).
E’ questa infatti l’epoca in cui, per la storia romana, si segnalano le ricerche critiche sui primi secoli di quella storia, di Louis Beaufort (1738), in cui in Italia si avviano gli scavi di Ercolano e di Pompei e si riscopre Paestum (1738-1748): il periodo in cui, per effetto di trasformazioni che sono insieme della cultura 8preilluministica e illuministica) e del modo di governare, anche la scienza dell’antichità muove i suoi primi passi nella direzione in cui ancora oggi tutto sommato prosegue, svincolandosi parzialmente e prrò anche progressivamente dai moduli umanistici, i quali erano ispirati assai più a una cura reverenziale della tradizione, a un gusto antiquario, che si esercitava sui temi limitati e specifici della tradizione medesima (sentita come un inventario di exempla morali) e alla convinzione di continuarla (facendone in un certo senso parte), che non a un atteggiamento di distacco storico e critico.
La tradizione era un arsenale di modelli da conservare e continuare, più che da analizzare per sé nella loro genesi e struttura di paradigmi e nello stesso complicato rapporto che, proprio in quanto modelli, potevano instaurare col mondo moderno.
Certo, al definizione (nel rifiuto, come nell’accettazione) delle figure e dei valori dell’antichità come modelli, non era un discosto che si potesse chiudere di colpo, né allora né dopo, e doveva restare (e resta ancora) uno dei problemi fondamentali della cultura moderna nel suo rapporto con l’antico (sul quale abbiamo espresso alcune convinzioni nelle pagine che precedono).
Sul terreno del metodo, lo stacco, nel secondo quarto del 18. secolo, appariva marcato: più informazione (che ormai è di tipo diverso, e non solamente letteraria), più dati particolari, più aspirazione alla completezza e sistematicità del confronto fra di essi.
Queste novità, sia nell’atteggiamento intellettuale sia nella ricchezza quantitativa dei dati acquisiti e da acquisire, dovevano dare invero i loro primi risultati nel campo della storia romana, più che nella storia del mondo greco.
Riguardo alla grecità, la filologia produsse, nell’intero arco tra la fine del Seicento e la fine del Settecento, indagini critiche coem quelle dell’inglese Richard Bentley sui falsi epistolografici antichi (Falaride, Temistocle, Socrate, Euripide ed altri, 1697) o del tedesco Friedrich August Wolf (1785) sulla genesi dei poemi omerici (nella storia degli studi omerici, G. B. Vico, pur con la profondità e l’interesse delle sue vedute, è più l’ultimo dei dotti umanisti, che non il primo degli scienziati moderni dell’antichità).
Per ciò che riguarda la storia del gusto estetico, l’opera di Joachim Winckelmann (1717-1768) riflette bene l’entusiasmo per le nuove acquisizioni archeologiche, ma rispecchia anche – e al tempo stesso contribuisce a formare – il gusto neoclassico, una visione cioè estetizzante e idealizzante della grecità, che non equivale a una fruizione autenticamente storica né delle novità archeologiche né della storia politica greca.
Tutto il Settecento illuminista, riformatore, rivoluzionario, appare come prefazione alla nascita delle prime opere sistematiche sull’antichità classica, nel senso moderno.
Al solito, la ricerca su Roma è ancora una volta quella che fa da battistrada: così la epocale Römische Geschichte di Barthold Georg Biebuhr (1811, 1° ed.) precede la ricerca sull’economia pubblica ateniese di August Boeckh, Die Staatshaushaltung der Athener, 1817 (cfr. la traduzione italiana in V. Pareto, Biblioteca di storia economica, 1., 1, Milano, 1903, pp. 40 agg., dalla 3° ed., del 1886) o la Geschichte hellenischer Stämmer und Städte di Karl Otfried Müller (I. Orchomenos und die Minyer, 1820; 2. Die Dorier, 1824; 2° ed., curata da F. W. Schneidewin, Breslau, 1844).
Nel campo della ricerca epigrafica, d’altra parte, fu con la collaborazione di Niebuhr che nacque il progetto dello stesso Boeckh per un Corpus Inscriptionum Graecorum (CIG, 4 voll. 1828-1877).
Niebuhr era del resto studioso del mondo greco, oltre che di quello romano.
Comunque il Corpus Inscriptionum Graecorum (CIA) in 3 volumi (Berlin 1873-1878), che realizzava, a cura di A. Kirchhoff, U. Köhler, W. Dittenberger, l’aggiornamento e revisione almeno parziale del CIG, rispondeva a migliori criteri organizzativi del materiale, e risentiva dell’esperienza del Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL), avviata, parimenti sotto gli auspici dell’Accademia delle scienze di Berlino, nel 1863 da Th. Mommsen.
Si deve poi a U. von Wilamowitz-Moellendorff, nel 1906, l’avvio del progetto di revisione e sistemazione delle epigrafi dell’intera grecità: il progetto delle Inscriptiones Graecae (IG) in 15 volumi (e più fascicoli), che doveva realizzarsi solo in parte, e dapprima nella veste della cosiddetta editio maior, quindi in quella più agile e funzionale della seconda edizione (editio minor),  dal 1913; di una terza edizione delle iscrizioni attiche esiste un primo tomo (1981), a cura di D. M. Lewis.
L’esperienza di viaggiatori e studiosi ha certo (già ne 15. secolo , con Ciriaco d’Ancona, ma soprattutto nel 18. e 19.) costituito apporto decisivo nella storia degli studi moderni di epigrafia greca; ma la tradizione di studi romani è intrecciata con essa, fornendole indicazioni e modelli.
8. C’è comunque un rapido recupero degli studi sulla grecità anche nel campo delle opere sistematiche.
Dopo il periodo preparatorio del Settecento, in cui si segnalano storie greche di studiosi britannici come J. Gillies (1786) e W. Mitford (1784-1794), si assiste a uan seconda grande stagione, della quale potremmo indicare come punto d’arrivo, sotto il profilo metodologico, il 1870.
Con Boeckh e con Müller la storia greca si presentava ormai come storia di istituzioni e di popoli; e all’opera del Müller era serto sottesa una concezione generale delle stirpi greche e dei loro rapporti, che oggi non può soddisfare, perché enfatizza la specificità delle singole stirpi anche sotto il profilo etico: in essa era però implicita uan esigenza di storia regionale greca, che ancor oggi s’impone come uno dei filoni più promettenti e fecondi.
E’ anche naturale che agli inizi della manualistica greca si presentino visioni complessive della grecità, centrate intorno a una ‘tesi’: l’esaltazione appassionata e in parte anche unilaterale, della democrazia ateniese nella History of Greece del liberale inglese George Grote (12 voll., London, 1846-1856), che si inseriva in una tradizione di opere inglesi, di storia greca, ideologicamente improntate, pur se con orientamenti diversi (quelle di J. Gillies e W. Mitford, già ricordate, e l’importante History of Greece del conservatore C. Thirwall).
Depurata di forme di candida adesione, e della scarsa capacità di distinguere tra i diversi momenti della democrazia greca, la History of Greece di G. Grote ha certamente il merito di fissare l’attenzione su quello che a tutt’oggi vale come l’esperimento politico centrale dell’antichità greca.
Una ‘tesi’ e una visione di fondo e il gusto per la storia regionale si coniugano ancora nell’opera di Ernst Curtius, autore di una Griechische Geschichte, 3 voll., Berlin 1857-1867, ma, già prima, di un’opera sul Peloponneso, in 2 voll., 1851-1852.
Nella stessa parte dell’Ottocento (ante 1870), in cui vedono la luce opere generali di grande impegno, impostate su una ‘tesi’ o un problema centrale, si colloca la Geschichte Alexanders des Grossen, Berlin, 1833, seguita dalla Geschichte des Hellenismus (1.: Geschichte der Nachfolger Alexanders, Hamburg 1836; 2.: Geschichte der Bildung des hellenistischen Staatensystems, ibid., 1843), di Johann Gustav Droysen (nella seconda edizione, 3 voll., Gotha 1877-1878, il titolo di Geschichte des Hellenismus era esteso anche al 1. Volume).
Con l’opera del Droysen la ricerca sulla storia greca reagiva tempestivamente alla tentazione – spesso nella pratica manualistica però riaffiorante – di considerare il periodo dopo la battaglia di Cheronea (338 a. C.) come un’epoca di declino del mondo greco, come l’inizio della sua fine; si fondava dunque la possibilità di concepire la storia della grecità come storia della cultura; questo era certo vista nel suo stretto intreccio con la politica: ma è intanto importante che per il Droysen all’ellenismo fosse sottesa un’unità di fondo, che ad esempio – com’è soprattutto nella prima edizione – è riconosciuta nella funzione di preparazione della humus storica del Cristianesimo.
Il termine ellenismo non doveva piacere a tutti; in particolare non doveva essere gradito a chi identificava la storia della grecità con la storia di Atene e della democrazia attica.
Così il Grote, che pur estendeva, col 12. volume, la sua History of Greece fino al periodo che noi chiamiamo ellenistico, rivolgendo la sua attenzione, nell’ultimo capitolo, a quelle che egli chiama Hellenic (non Hellenistic) cities, critica come fuorviante (ibid., p. 270) il termine di Hellenism in quanto usato per indicare solo la grecità del periodo all’autonomia (l’uso del termine per una cultura orientale permeata di grecità doveva essergli sgradito concettualmente, nella sua visione elleno- e atenocentrica, e apparigli linguisticamente improprio ed equivoco).
In questa fase (primi due terzi dell’Ottocento) la ricerca di uan posizione unitaria nella descrizione dei fatti della storia greca è evidente e anche – non si può negarlo – giustificata.
Non è forse questo il problema dei problemi, per chiunque si accinga a dare una sintesi della storia dei greci, come ricavare un’unità di fondo, dal perseguimento di una linea di sviluppo o di una temperie culturale in cui si raccordino le mille (cioè ‘grecamente’ sterminate) storie particolari?
Che la generazione dei primi grandi manuali di storia greca si caratterizzi dunque nel modo che si è detto, è del tutto conforme alla fase storiografica che essi rappresentano.
Dopo il 1870 (e la data costituisce davvero quasi uno spartiacque, come raramente accade in quel continuum che è la storia umana) molte cose cambiano, con una velocità e una intensità che hanno pochi riscontri in altre epoche.
E’ questa l’età del positivismo; è anche l’epoca dominata, anche se ovviamente non esclusivamente rappresentata, dell’apporto della tedesca Altertumswissenschaft (scienze ausiliarie) della storia, che presto però aspirano a una loro autonomia: archeologia, epigrafia, papirologia, numismatica, metrologia: si moltiplicano ricerche, scavi, studi, raccolte di corpora, a seconda della specializzazione di ciascuna disciplina.
Come singole scienze, esse sono rappresentate nei più diversi paesi; ma il paese ove si programmano e realizzano le grandi raccolte, i grandi corpora, le opere sistematiche, intese a raccogliere tutti i documenti, è certo la Germania.
E, per i testi letterari, il periodo delle grandi edizioni critiche, come anche quello della scoperta di nuovi testi: una data certamente epocale è nella identificazione ad opera dell’inglese Frederic Kenyon (1890; pubblicazione nel 1891) di un papiro londinese contenente gran parte del testo della Athenaion Politeia (Costituzione degli ateniesi) di Aristotele.
Sul piano della ricerca archeologica, , basti menzionare le straordinarie scoperte di Heinrich Schlieman (1822-1890) a Troia, Tirinto, Micene, Orcomeno, Itaca, che rinnovano completamente la base documentaria della conoscenza del mondo descritto da Omero.
Località di Creta sono oggetto di scavi di archeologi italiani (a Haghia Triada e Festo, Federico Halbherr dal 1844), inglesi (Arthur Evans a Cnosso) e id altri paesi.
Un gusto diverso per il particolare e, in taluni casi anch’essi significativi, per la dimostrabilità del particolare permea le nuove opere di carattere generale.
Ma ciascuna ha la sua caratteristica.
La Geschichte des Altertums di Eduard Meyer comprende 5 volumi in più tomi (1884-1902); il 1. e 2. volume sono dedicati all’Oriente antico, i successivi alla storia dei greci fino all’età di Filippo 2.
L’idea centrale di Meyer è quella di una storia ‘universale’, che abbracci l’Oriente e l’Occidente: la sua conoscenza delle lingue orientali, la sua vasta esperienza egittologica gli consentono di dare quindi uno spazio amplissimo all’antefatto orientale della storia greca.
Tuttavia anche in considerazione del periodo al quale il Meyer poté dedicarsi (egli rinunciò infatti a proseguire la sua esposizione, per far posto a una revisione dei primi volumi), l’attenzione da lui rivolta all’Oriente comportò una giustapposizione di mondi, più che un’approfondita analisi degli scambi fra le diverse aree di civiltà.
Il Meyer, d’altra parte, possedeva certo un’invidiabile conoscenza di testi e documenti originali, ma (nonostante siano noti i suoi rapporti con altri studiosi di aspetti generali delle società antiche) non sembra aver acuto alle spalle una cultura teorica di particolare rilievo.
E in fondo, egli resta un eccellente rappresentante di quel positivismo storiografico, che si esprimeva più nella capacità di ccumulare un numero impressionante di dati che non nella contestazione di principio di interi filoni di tradizione letteraria, fatta in nome di esigenze metodologiche particolarmente severe.
Per vastità di dottrina le si affianca la Griechische Geschichte di Georg Busolt (2 voll., Gotha 1885-1888; 2° ed., in 3 voll., ibid. 1893-1904), che non va però oltre la guerra del Peloponneso; accanto ad essa l’opera da questo dedicata allo Stato greco (curata nel 2. volume di Heinrich Swoboda), la Griechische Staatskunde (2 voll., München 1920-1926); le due opere, prese insieme, ricostituiscono la figura di un solido storico di vecchio stampo, che alterna opere a carattere narrativo-espositivo e opere di argomento istituzionale.
9. Per caratteristiche particolarissime si segnala la Griechische Geschichte di Karl Julius Beloch, comparsa dapprima in 3 volumi (1893-1904), poi, in una 2a ed. in 4 volumi, di cui ciascuno diviso in 2 tomi (1912-1927); da questa edizione provengono le numerose citazioni dell’opera fatte in questo manuale.
Il 1. tomo di ciascun volume è espositivo, narrativo, anche se già imposta, nella narrazione e nelle note, interpretazioni e discussioni critiche; l’apparato più propriamente erudito, fatto di ulteriori discussioni e di dati cronologici, genealogici, insomma di tutto un bagaglio filologico assai esteso, è concentrato utilmente nel 2. tomo di ogni volume.
Con Beloch, la prospettiva storica torna a farsi decisamente ellenocentrica; l’opera riusciva a estendersi fino alla pace di Naupatto (217 a. C.) cioè fino alla vigilia dell’intervento militare romano in Grecia.
Il prodotto storiografico è di altissimo livello critico; sarebbe impensabile prendere posizione, su qualunque tema della storia greca del periodo ricordato, senza passare attraverso una prima, profonda riflessione sulle pagine di Beloch.
E’ anche vero tuttavia che nel rigido positivismo di Beloch (che gli suggeriva un’attenzione notevolissima agli aspetti della società e dell’economia, della demografia e della geografia, e questo già nel primo tomo di ciascun volume) era presente la convinzione di fondo che le fonti antiche fossero sempre sospette, a meno che non se ne dimostrasse la veridicità: in dubio, si direbbe, contra reum.
Questa impostazione induceva tra l’altro Beloch a una dura polemica contro autori più fiduciosi nei dati tradizionali, in modo particolarissimo contro G. Busolt e contro il continuatore dell’opera di Busolt per l’epoca ellenistica, quel Benedictus Niese, che fu autore di una Geschichte der griechischen und makedonischen Staaten seit der Schlacht bei Chaeronea (3 voll., Gotha 1893-1903).
Moltissime delle conclusioni del grande Beloch restano ancor oggi valide; e ciò vale soprattutto per il volumi 2.-4. della sua Geschichte, cioè per il periodo che va dall’età delle guerre persiane sino al 217 a. C.; invece le sue posizioni sull’età arcaica appaiono improntate a uno spirito ipercritico, che si sentiva tanto più a suo agio, quanto più facile appariva allora contestare l’attendibilità di una tradizione discontinua e di norma ben più tarda dei fatti riferiti.
Per dare due esempi particolarmente rilevanti, la cronologia ribassista delle tirannidi arcaiche e il modo stesso di argomentare sulla tradizione relativa alla migrazione dei dori nel Peloponneso appaiono oggi suscettibili di amplissima revisione.
Sarebbe comunque errato ed ingiusto limitare a Beloch questa caratteristica metodologica: essa è presente in una miriade di lavori minori di autori diversi, nei decenni che vanno dal 1870 alla Prima guerra mondiale.
Tanto benemerita fu quell’epoca nella produzione di edizioni e commentari di autori, quanto, assai spesso, distruttiva nell’esegesi storica.
Di questo spirito innovatore, e spesso ipercritico, sono per quell’epoca partecipi così gli scritti dei filologi come quelli degli storici.
Al confronto, sembra quasi di cogliere voci di altra epoca – e invece si tratta solo di portavoci di altre esigenze o di altri problemi culturali -, quando si leggono le pagine della Griechische Kulturgeschichte dello storico di Basilea Jacob Burckhardt (in realtà, elaborazione postuma di appunti delle sue lezioni, pubblicata in 4 volumi a cura di Jacob Oeri tra il 1898 e il 1902); una ‘Storia della civiltà greca’ (trad. it., con questo titolo, Firenze 1955) ispirata all’idea di una ricostruzione ‘unitaria’ della vicenda politica e culturale greca, in cui assolveva un ruolo centrale la categoria concettuale dell’”agonismo” e l’immagine dell’uomo greco come ‘uomo agonale’.
Non sempre aggiornate sulle ultime discussioni, ma comunque frutto sempre di una intuizione profonda, le riflessioni di Burckhardt coglievano l’essenziale per una serie di temi, e conservano ancor oggi uno straordinario fascino (l’opera appartiene allo stesso clima culturale delle riflessioni di Federico Nietzsche, più giovane collega da cui il Burckhardt fu influenzato, o dell’opera Psyche di Erwin Rohde).
E ancora un mondo a parte sembra quello della ricerca sociologico-istituzionale francese, o francofona in generale, che si estende dalle forme originarie delle strutture sociali agli aspetti del vivere quotidiano, degli individui come degli stessi Stati: tutto un bagaglio di temi e di nozioni non-avvenimentali, nella cui presentazione, in ragione stessa del contenuto, era meno assillante il problema fondamentale della critica delle fonti, quello del valore della cronologia, degli eventi e dei personaggi storici presentati dalla tradizione.
Qui operavano comunque tradizioni metodologiche diverse da quelle proprie della cultura positivistica tedesca: qui il positivismo si sfogava di più nella concretezza della ricerca sui grandi fatti sociali, di meno nella volontà di acquisire certezze sui dati particolari.
Mi riferisco alle ricerche di P. Guiraud sulla proprietà fondiaria nell’antichità e sulla manodopera industriale nell’antica Grecia (1893; 1900), agli studi del belga H. Francotte sull’industria greca (1900-1901), a quelli di L. Gernet sull’approvvigionamento di grano nell’Atene del 5.-4. secolo (1909), o di Gustave Glotz sul lavoro nel mondo greco (1920) o su La cité greque (1a ed. 1928), che continua ed aggiorna il tema della celebre opera di N. D. Fustel de Coulanges su La cité antique (1864).
K. J. Beloch (1854-1929), professore di storia greca all’Università di Roma dal 1879 e fino alla Prima guerra mondiale, non è l’unico storico tedesco del mondo antico attivo in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento.
Per limitarci alla storia antica (il discorso potrebbe altrimenti estendersi anche all’archeologo Emmanuel Löwy, che insegnò a Roma dal 1899 al 1915), si potrà ricordare Adolf Holm, che insegnò a Palermo e poi a Napoli; egli fu autore di una non troppo fortunata Griechische Geschichte (1886-1894), ma anche di una più importante Geschichte Siciliens in Alterthum (Berlin 1870-1898).
Con quest’opera, e con quella di Edward Freeman  di identico soggetto, History of Sicily from the earliest times to the death of Agathokles, Oxford 1891-1894, siamo sul terreno di una fase scientificamente e criticamente più avanzata della ricerca sulla grecità occidentale, che, per l’Italia meridionale, ha un qualche corrispettivo nelle opere del francese Fr. Lenormant (La Grande Grèce, 3 voll., Paris 1881-1884; A travers l’Apulie et al Lucanie, 2 voll., ibid. 1883).
Ma la ricerca sulla grecità d’Italia era passata anch’essa attraverso fasi diverse, e chiaramente distinguibili tra loro.
C’è da riconoscere certo che le scoperte archeologiche di Paestum e l’avvio degli scavi regolari di Ercolano e di Pompei (1738-1748) aprono, come abbiamo detto già prima, quel nuovo capitolo dello studio dell’antichità che matura nell’età contemporanea.
E’ anche vero però che, sul terreno squisitamente storico, gli scritti del 18. secolo sui resti greci dell’Italia meridionale e della Sicilia sono ancora parte della letteratura di viaggi e che quelli della prima metà dell’Ottocento (la seconda fase della nostra ripartizione) ne sono ancora ampiamente la continuazione, anche se aggiornata, sistematica e gradualmente migliorata.
Così è della Histoire critique de l’établissement des colonies greques di Raoul Rochette  (1815), mentre l’opera di circa trent’anni successiva di Brunet de Presle sulla Sicilia (Recherches sur les étabilessements grecs en Sicile, 1845) riflette fedelmente il quadro della storiografia antica.
Lenormant, Holm, Freeman costituiscono quindi una tappa ulteriore, meglio corrispondente alle nuove esigenze critiche poste dall’età positivista, che per la Sicilia antica e la Manga Grecia erano tanto più valide, quanto più si doveva rispondere all’obbligo di confrontare e coordinare i dati della tradizione letteraria con quelli archeologici e numismatici.
In questo campo lo spirito di esplorazione è stato sempre decisivo (si trattava di scoprire vestigia greche all’interno o al di sotto di un contesto diverso): e l’opera di Paolo Orsi in Sicilia (dove l’archeologo trentino continuava l’opera di J. Schubring, di A. Salinas, di F. Cavallari), come in Italia meridionale, rappresenta forse il momento decisivo del progressivo passaggio dall’età dei viaggiatori a quella degli esploratori escavatori di resti archeologici.
Non va d’altronde dimenticata l’opera alacre ed eruditissima, anche se talora audacemente ipercritica, dell’italiano E. Pais (a cominciare dalla Storia della Sicilia e della Magna Grecia 1., Torpno 1894) e lo studio in un certo senso pionieristico, nello sforzo di sistemazione dei dati storici, geografici e demografici, di K. J. Beloch, Campanien, Berlin 1879 (2a ed., 1890).
10. Abbiamo dunque individuato e rapidamente percorso, all’interno della ricerca moderna e contemporanea sul mondo greco, tre grandi periodi: quello che va dal 1725 ca. alla fine del 18. secolo; quello che dai primi dell’Ottocento giunge al 1870 ca.; quello compreso tra questa data e gli anni 1914-18.
Fin qui abbiamo solo tracciato un rapido disegno di storia degli studi.
Il resto è bibliografia.
Ed è anche l’ultima fase della storia della ricerca, quella a cui noi stessi apparteniamo.
Darne qui conto non avrebbe senso; essa avrà posto, per quanto possibile, nelle note a piè di pagine, ma soprattutto nelle note integrative e Bibliografia che chiudono i singoli capitoli.
Quest’ultima fase è comunque caratterizzata, già a una prima considerazione, dai seguenti tratti.
1) Il moltiplicarsi e l’infittirsi delle ricerche particolari
2) Il massiccio apporto dei più diversi paesi alla storia degli studi, come chiaro riflesso di quella profonda interazione fra le culture di ogni continente, che gli eventi della prima e soprattutto della seconda guerra mondiale hanno decisamente accelerato.
3) Il declino dell’egemonia di un particolare metodo d’indagine, quello positivista-ipercritico, che naturalmente non cessa ancora di esercitare la sua influenza e di permeare gli studi, ma che è ormai affiancato e talora contrastato da prospettive ed esigenze diverse, consistenti soprattutto in una maggiore attenzione ai processi di formazione delle tradizioni orale e scritta, e ai modi della loro conservazione, quando non sono sollecitate da un richiamo di puro e semplice buon senso ai dati di fondo della tradizione: un processo che, avviatosi nel clima della feconda deregulation metodologica del primo dopoguerra, si rafforza ulteriormente nel secondo dopoguerra, dal 1945 in poi.
4) L’emergere – o piuttosto semplicemente il riemergere con nuovi metodi, nuove prospettive e una sensibilità storica diversa – di tematiche sociologiche, che furono in larga parte studiate già in passato, e in modo particolare negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento.
Esse vanno dagli studi sulla famiglia e sulla condizione femminile (quest’ultima oggetto di particolarissima attenzione negli ultimi anni) a quelli sulle condizioni fondamentali dell’uomo in genere: la guerra e la pace, e l’elaborazione degli strumenti di mediazione e di risoluzione dei conflitti, in generale della diplomazia; i temi della terra, vista sia come base economica (anche in rapporto ad attività produttive diverse), sia come ‘ambiente’ distinto da quello urbano e con esso però strettamente raccordato; si esaminano i problemi dell’alimentazione e della fame in connessione con quelli demografici (i calcoli della popolazione sono perciò messi in sempre più stretto rapporto con quelli sulle risorse).
I problemi del territorio sono considerati non solo sotto l’aspetto geografico, militare, economico, ma anche sotto quello ideologico (in questo quadro un’attenzione sempre maggiore va al ruolo e al significato di confine); gli aspetti politici sono studiati non solo sotto l’aspetto istituzionale, ma anche dal punto di vista della partecipazione, della formazione dell’opinione pubblica, della mentalità.
E’ insomma tenuta presente, da qualunque parte si affrontino i temi che un tempo si raccoglievano sotto la definizione comune di ‘antichità’ (private, pubbliche, religiose, ecc.), la condizione complessiva dell’uomo nella società: il progresso degli studi non è nello scoprire questa o quella prospettiva ‘antiquaria’, ma nell’esplorare ciascuna prospettiva alle altre, nel far posto a una visione antropologica.
E il grecista può solo constatare quanto sia all’opera, pur nella diversità delle condizioni storiche, quella nozione complessiva, che è al fondo dei grandi trattati greci sulla polis: come e soprattutto la Politica aristotelica, che persegue l’uomo nelle varie strutture in cui viene a trovarsi, l’oikos, la kome, la polis (casa, villaggio, città), il territorio, con tutte le funzioni ed espressioni culturali pertinenti.
Nella bibliografia relativa a questa introduzione diamo un semplice saggio della moderna, e soprattutto della più recente, letteratura scientifica su tali argomenti, riservandoci di distribuire funzionalmente un’ampia parte degli altri studi sotto i capitoli pertinenti.
Al confronto con questi temi, si avverte un minore interesse a problemi più strettamente filologici, tanto eleganti quanto di difficile soluzione e spesso circoscritti nell’ambito di una ipotesi cronologica o di una problematica genealogia culturale, che la critica delle fonti (Quellenkunde) ambirebbe ricostruire nei minimi, e purtroppo irrecuperabili, dettagli.
5) Il progressivo affermarsi, divenuto macroscopico  negli ultimissimi decenni, di esigenze interdisciplinari, che storicamente significano ina ridiscussione dei ruoli e rapporti delle Hilfswissenschaften di un tempo, e che possono essere soddisfatte al meglio dall’impostazione di problemi comuni, a cui le risposte possono però solo provenire, se vogliono essere scientifiche, da una solida specializzazione: questioni comuni, dunque, e risposte specializzate e competenti.
I compiti di un’esposizione storica, in genere, di fronte a un tale incremento di esigenze, di ordine quantitativo e qualitativo, sono dunque diventati gravosissimi: figurarsi poi quelli di un’esposizione che voglia o debba limitarsi a uan sintesi.
E’ mia convinzione che, al di là dello stesso sforzo di fornire informazioni attinenti a prospettive, esigenze, discipline diverse, un ruolo fondamentale resti assegnato al linguaggio, cioè a un modello espositivo che medii tra le diverse prospettive ed esigenze.
Il presente lavoro vuol essere un contributo, certo tutt’altro che privo di limiti e difetti, in questa direzione.
Pur nella impossibilità di dar minuzioso conto della storia degli studi in quest’ultima fase, che ci coinvolge, non vorremmo sottrarci, anche per essa, al compito di indicare almeno alcune delle grandi opere apparse nel periodo, che ben rispecchiano le nuove caratteristiche ed esigenze, e che costituiscono testi classici da tenere presenti e consultare.
Uan fondamentale opera a più mani è la britannica Cambridge Ancient History, apparsa nella 1a edizione tra il 1924 e il 1939, e che nei volumi della 2a edizione tuttora in corso propone il modello di un’opera collettiva, estesa per giunta a una più ampia collaborazione internazionale.
La pluralità dei punti di vista, insieme con la ricchezza dell’informazione, è un’esigenza dei nostri tempi; accanto a cui, comunque, è naturale persista la tradizione dell’opera di un solo autore, nella quale si mette in luce e si sperimenta un’altra qualità, quella della coerenza e responsabilità nella rappresentazione complessiva della storia di un popolo: le nuove esigenze poste dalla cultura contemporanea non elidono dunque quelle più tradizionali, ma possono e debbono trovare con queste ultime un’opportuna combinazione.
Per la sua vastità, per la grande dottrina che impegna, per l’accorta comparazione di testi letterari ed epigrafici e di documentazione archeologica e numismatica e l’attenzione (certo suscettibile di più ampi sviluppi) all’incontro tra civiltà greca e civiltà orientale, merita sempre di essere ricordata la Social and Economic History of the Hellenistic World di Michael I. Rostovtzeff, 3 voll., Oxford 1941 (tra. It., Firenze 1966-1980), posteriore all’analoga opera dedicata all’Impero romano (1927, ed. ital. 1933); essa esprime ad alto livello l’esigenza di una storia come ricostruzione integrale della società e delle sue condizioni materiali, attraverso le vicende politiche e le varie espressioni culturali corrispondenti.
Naturalmente la valutazione scientifica dell’opera di questo grande autore non potrà prescindere dal suo inquadramento nella storia del dibattito sulle forme e sul livello dell’economia del mondo antico, e specificamente di quello greco, dibattito di cui si è dato più volte conto nella storia degli studi, e a cui io stesso ho dedicato alcune considerazioni altrove.
In questo quadro, Rostovtzeff può figurare come il portatore di una posizione ‘modernistica’ (in ciò erede delle posizioni di un Eduard Meyer o di un Beloch), attestato quindi su posizioni totalmente diverse da quelle, spesso definite ‘primitivistiche’, di Karl Bücher, Max Weber, Johannes Hasebroek, espresse tra la fine dell’Ottocento e il terzo decennio del Novecento (per non parlare della bibliografia successiva).
L’opera del Rostovtzeff andava citata perché resta comunque, per il mondo ellenistico, una summa di dati e di osservazioni, che non ha ancora veri confronti e alternative, e che conserva la sua validità di stimolo e orientamento al di là di occasionali carenze filologiche o debolezze teoriche, ripetizioni o persino contraddizioni, che sia dato riscontrarvi.
Ci piace concludere con l’opera sulla storia greca che, nel panorama degli studi italiani, ha occupato e continua ad occupare un posto centrale: la Storia dei greci di Gaetano de Sanctis (2 voll., Firenze 1939), che va dalle origini alla morte di Socrate (399 a. C.): un’opera di alto livello culturale, oltre che di ampio respiro, che già nel titolo suscita la coscienza di un problema fondamentale, la molteplicità dei soggetti storici che operano contemporaneamente in ciascuno dei momenti della storia del popolo greco, un problema che naturalmente non ha solo una rilevanza di carattere espositivo, ma attiene, come abbiamo già detto, alle stesse radici costitutive dell’esperienza politica di questo popolo.
L’opera di De Sanctis è volta a coprire il più ampio ventaglio delle espressioni storiche dei greci; ed è stato già da altri sottolineato il ruolo che nell’esposizione assumono, accanto ai dati della storia politica, quelli della storia della cultura e della civiltà greca, perciò così la letteratura come il pensiero religioso e filosofico, come gli aspetti delle condizioni materiali.
Vi si avverte l’influenza del rigoroso e concreto metodo positivistico di Beloch, ma spicca la presenza di altre esigenze, di ordine etico-spiritualistico, che corrispondono alla formazione e all’itinerario intellettuale dell’autore e che dell’opera costituiscono nota costante.

Bibliografia

Opere di carattere generale

Studi minori di storia antica / L. Pareti. – 3 voll.
Trattato di storia greca / G. Giannelli. – 1983
Greci e persiani / H. Bengston. – 1967
Storia greca / M. Sordi. – 1971
Storia politica del mondo greco / M. Sordi. – 1982
Il mondo greco dall’età arcaica ad Alessandro / M. Sordi. – 2004
I greci: storia, cultura, società / a cura di S. Settis. – 1996
Introduzione alla storia greca / D. Musti. – Laterza, 2003
Manuale di storia greca / C. Bearzot. – Il Mulino, 2005
Guida allo studio della storia greca / L. Bracesi. – Laterza, 2005
Le basi documentarie della storia antica / M. Crawford…et al. – Il Mulino, 1984
Guida alla storia greca / A. Magnelli. – 2002

Fonti e scienze in più stretto rapporto con la storia

Studi di storia della storiografia greca / G. De Sanctis. – 1951
Contributi alla storia degli studi classici / A. Momigliano. – 1951
Storia e biografia nel pensiero antico / B. Gentili, G. Cerri. – 1975
Società antica: antologia di storici greci / D. Musti. – Laterza, 1973
I greci hanno creduto ai loro miti? / P. Veyne. – Il Mulino, 1984
Storiografia locale e storiografia universale: forme di acquisizione del sapere storico nella cultura antica. – 2001
Le ragioni della storiografia in Grecia e a Roma / M. Pani. – 2001
I greci senza miracolo / L. Gernet. – 1986

Manuali e tematiche generali di storia delle religioni e istituzioni culturali

La religione greca / U. Bianchi. – 1975
Mito e rituale in Grecia / W. Burkert. – Laterza, 1987
I greci / W. Burkert. – 1984
Forme di religiosità e tradizioni sapienziali in Magna Grecia / a cura di A. C. Cassio…et al. – 1995

Sulla filosofia

Paideia / W. Jaeger – 1953-59
L’uomo greco / M. Pohlenz. – 1962
La tragedia greca / M. Pohlenz. – 1961

Istituzioni, economia, società, vita pubblica e privata

La città greca / G. Glotz. – 1974
Lo Stato dei greci / V. Ehrenberg. – 1967
Guerra e società nel mondo antico / Y. Garlan. – Il Mulino, 1985
L’equilibrio internazionale dagli antichi ai moderni / a cura di C. Bearzot…et al. – 2005
Frontiera e confini nella Grecia antica / G. Daverio Rocchi. – 1988
L’economia in Grecia / D. Musti. – Laterza, 1981
Il mercante dall’Antichità al Medioevo / A. Giardina…et al. – Laterza, 1994
Mercanti e politica nel mondo antico / a cura di C. Zaccagnini. – 2000
Gli schiavi nella Grecia antica / Y. Garlan. – 1984
La donna greca nell’antichità / U. E. Paoli. – 1953
Donne in Atene e Roma / S. B. Pomeroy. – 1978
L’ambiguo malanno: condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana / E. Cantarella. – 1981
La donna nella società della Grecia antica / I. Savalli. – Il Mulino, 1983
Le donne in Grecia / G. Arrigoni. – Laterza, 1985
L’amorei n Grecia / a cura di C. Calame. – Laterza, 1986
Sports e giochi nella Grecia antica / E. N. Gardiner
Guerre, agoni e culti nella Grecia arcaica / A. Brelich. – 1961
Lo sport nella Grecia antica / R. Patrucco. – 1972
Lo sport in Grecia / a cura di P. Angeli. – Laterza, 1988

Cap. 1. Preistoria e protostoria greca: civiltà micenea. Alto arcaismo

La polis è veramente da considerare come il punto di intersezione storica tra la società e la cultura palaziale e le società e culture di tipo tribale (quanto a organizzazione) e territoriale (quanto a dimensione e forma dell’insediamento).
Pag. 73

Più che di origine della polis, bisognerà parlare di origini delle poleis, che si formano nei secoli immediatamente posteriori all’età micenea (11. -9. secolo) da diverse situazioni, con diversi precedenti e differenti caratteristiche.
Quel che nasce nell’ottavo secolo non è dunque la polis, ma soltanto la forma comune delle poleis; è allora che i diversi rivoli di esperienze cittadine, formatisi e presenti nei secc. 11./10. E fino all’inizio dell’8., confluiscono in un fiume che è la polis tipica, cioè essenzialmente la città aristocratica.
Le diversità permangono certo, e così le diverse individualità cittadine, ma ormai all’interno di un quadro di riferimento comune, che è appunto quello dell’aristocrazia fondamentalmente oplitico-contadina.
Successivamente, col periodo delle tirannidi prima, e poi con gli sviluppi del tardo arcaismo, cioè del 6. secolo, si vanno rideterminando differenze e ricostituendo nuovi rivoli dell’alveo comune, fino a sboccare nel 5. secolo in quella tendenziale dicotomia che si identifica rispettivamente nella forma oligarchica e in quella democratica (complessivamente dunque un grandioso sviluppo a forbice).
La polis nasce dunque come risultato di un lungo e variegato processo, come sviluppo di una forma comune di polis, tra le diverse evoluzioni da ammettere delle più diverse e spontanee comunità nate dalla crisi e dopo la crisi dei palazzi micenei.
Le origini della polis sono perciò molto semplici, in perfetta corrispondenza con il carattere modesto, nient’affatto pretenzioso del significato della parola, che, se ricollegabile, come credo di poter mostrare altrove, alla radice del verbo “pelomai” (“esserci”), indica niente di più che un “sito”: un sito, beninteso, che meriti di essere notato, designato, segnalato come tale; un sito significativo, per lo spazio che occupa e per il numero di persone che vi sono insediate.
Dall’atomismo delle singole poleis si passa quindi alla koiné della civiltà della polis come seconda fase.
Ma, come terza fase – che in parte riprende e sviluppa distinzioni etniche e tribali originarie, in parte comporta una rigorosa organizzazione dei rispettivi territori, quindi la nascita di realtà regionali – si ha una regionalizzazione, che investì il 7. e soprattutto il 6. secolo, trovando riscontri concreti nella nascita delle anfizionie e di leghe tra popoli e città circonvicini, ma anche nelle guerre interregionali, che via via (tra 6. e 5. secolo) si colorano di tinte politiche diverse e di connesse alleanze con le due città egemoni, Sparta e Atene.
Questo spiega le antitesi tra eubeesi e ateniesi, tra Laconia e Argolide, come tra beoti e tessali, e così via di seguito; si crea un’unità culturale e politica nell’ambito ionico intorno ad Atene, nell’ambito dorico intorno a Sparta.
Pag. 77-78

E’ probabile che si debba riconoscere che l’archeologia è in grado di cogliere movimenti e mutamenti diversi da quelli che coglie la tradizione storica.
La storia coglie il movimento dei soggetti storici; questi movimenti si compiono attraverso eventi che riguardano individui, popoli, Stati, che la memoria storica è in grado di cogliere, fermare nelle sue maglie, trasferire ai posteri.
L’archeologia coglie trasformazioni interne, movimenti che hanno una vischiosità che non permette di vedere cesure e passaggi netti, quali sono segnati dagli eventi; coglie l’incessante trasformazione degli oggetti e degli stili, che è insieme e nello stesso punto conservazione e trasformazione.
Raramente il tasso di trasformazione contenuto in uno di questi momenti studiati dall’archeologia è talmente alto da corrispondere alla cesura rappresentata da un evento.
Apparentemente, essa documenta solo la persistenza degli insediamenti, la continuità dei siti: ma è chiaro che già la posizione geografica, la favorevole collocazione rispetto al territorio e alle vie di comunicazione destina un sito ad un’occupazione ininterrotta, ad una sua qualche forma di continuità, all’interno della quale restano tutte contenute le trasformazioni.
Archeologia e storia parlano perciò spesso di movimenti e mutamenti diversi: di un movimento oggettuale (o oggettivo) la prima, di soggetti la seconda.
La prima coglie la lunga durata; la seconda la scansione in eventi.
Il movimento dei soggetti storici per lo più non è tale da poter essere fermato e fissato dalle maglie dell’archeologia, troppo lunghe per afferrare i mutamenti dei soggetti medesimi.
Pag. 78

A questo proposito e ad evitare di porre male il problema sin dall’inizio, occorre muovere da alcune considerazioni preliminari.
1) E’ innegabile la presenza di resti micenei, almeno nelle regioni centrali e meridionali di quella che, storicamente, sarà la zona grecizzata dell’Asia minore occodentale.
2) In parte queste presenze possono riflettere la maturale circolazione di uomini, prodotti, merci, che nell’Egeo c’è sempre stata, e che nella seconda metà del 2. millennio a. C. conosce, oltre alla direzione est-ovest del movimento, anche quella in senso inverso: è un fatto di civiltà e di economia collegato con la geografia dell’Egeo (un fatto, potremmo dire in termini braudeliani, di lunga durata): come si conoscono presenze micenee, così non mancano neanche quelle minoiche.
3) Al 1044 a. C. la tradizione eratostenica riconduce la migrazione ionica.
E’ la serie delle fondazioni cittadine ioniche che viene datata dopo la migrazione dorica, e perciò anche dopo la fine dei regni micenei: e questa è (anche nel senso sopra detto) una cesura storica importante.
Parlare o no di insediamenti micenei a Colofone o sul sito di altre città della Ionia non è né un problema squisitamente archeologico né una delle risposte possibili al problema della credibilità o meno delle tradizioni sull’espansione micenea.
Il problema è di molto maggiori dimensioni ed è strettamente connesso con quello delle origini della polis, del quale costituisce anzi una faccia significativa.
E’ concepibile che dalle società micenee in fermento e in declino, in virtù di iniziative per lo più non guidate dal centro, ma pur sempre come espressione di quel fermento e di quella crisi, si distacchino individui o gruppi, sollecitati dalle motivazioni sopra indicate per l’espansione micenea.
Pag. 79

L’espansione greca nel Mediterraneo si presenta dunque, fin dall’inizio, come un fenomeno complesso, non solo per la sua estensione in uno spazio geografico molto ampio, ma anche, e soprattutto, per la sua gradualità e il suo scandirsi in fasi diverse, collocabili lungo quasi tutta la parabola della storia greca.
Tra il periodo miceneo e quello ellenistico, si può dire infatti che si succedano almeno quattro fasi espansionistiche particolarmente rilevanti, fasi a cui corrispondono altrettanti periodi di attivismo e creatività, che lasciano traccia nell’arte, nell’edilizia, nelle forme religiose e cultuali, nelle forme di insediamento, nelle forme di organizzazione delle comunità, nella letteratura, nella psicologia.
Un primo periodo è, come si è detto, quello delle frequentazioni micenee in aree diverse dalla penisola greca (alla dine del 2. millennio a. C.; un secondo periodo è quello della colonizzazione di epoca arcaica, tra 8. e 7. /6. secolo a. C., con la fondazione di vere e proprie città-figlie in tutto il Mediterraneo, in particolare in quello occidentale; un terzo periodo è quello dell’espansione greca di carattere egemonico (o imperialistico), particolarmente visibile nel 4. secolo; un quarto, e ultimo, periodo è quello dell’espansione e colonizzazione greca nell’Oriente persiano, a seguito della conquista di Alessandro Magno.
In queste fasi si accompagnano all’espansione momenti creativi di ottimismo, che incidono sul tradizionale pessimismo greco.
Pag. 82-83

I poemi omerici in realtà non possono non proiettare sull’epoca della guerra troiana gran parte dell’esperienza storica dell’alto arcaismo greco.
La proiezione si ricongiunge però in parte idealmente con le condizioni reali della monarchia di età micenea.
Ed è bene che del problema della monarchia omerica si mettano subito in luce due versanti: quello della rappresentazione poetica, quello della realtà della monarchia dell’alto arcaismo.
Pag. 83

Noi proporremmo perciò una definizione di ‘alto arcaismo’ per il periodo che va dalla fine dell’11. secolo  al 730 circa; di ‘medio arcaismo’ per quel periodo (730-580 circa), che è oggi convenzionalmente indicato come ‘alto arcaismo’; e di ‘tardo arcaismo’, comunque, nell’accezione corrente (fondamentalmente, il 6. e gli inizi del 5.).
Poiché però non si può pretendere(e forse non è neanche opportuno farlo, dal punto di vista bibliografico) di cambiare di colpo le terminologie (che rispecchiano d’altra parte delle convinzioni, quelle, in particolare, di coloro che considerano fondamentalmente i secc. 10.- fino a metà dell’8. come uan sorta di deserto storico), renderemo di volta in volta chiaro, nel corso dell’esposizione, che cosa intendiamo per ‘alto arcaismo’; e, quando ci riferiremo all’uso convenzionale, lo dichiareremo esplicitamente, o faremo ricorso alla definizione di ‘cosiddetto’.
L’autore non è comunque isolato nell’accezione ampia di ‘arcaismo’, che qui difende (con la tipica tripartizione, fatta in omaggio alle consuete periodizzazioni archeologiche e storiche).
Pag. 84

Tre premesse sono da fare.
1) La filologia micenea più avveduta ha ormai mostrato chiaramente la modestia e la genericità del termine basileus (qa-si-re-u) , che vuol dire ‘capo’; è naturale perciò che non si possa ridurre ad unum la problematica della basileia greca: identità di titolo non significa identità di ruolo e di forma.
2) Occorre ben distinguere tra carica annuale (o detenuta per un periodo limitato); nel secondo caso, il basileus non identifica un regime monarchico, ma aristocratico-repubblicano.
3) Occorre distinguere tra basileis in contesti etnici e basileis cittadini
Pag. 85

I moderni vedono i processi antichi con occhi moderni: non possono concepire i poteri arcaici se non come assoluti, e i poteri assoluti se non concentrati nelle mani di uno solo; le altre situazioni appaiono transitorie o come un assurdo logico.
Ma il vero problema è quello di chiarire la natura della comunità politica greca, come emersa nell’alto arcaismo: essa è fondamentalmente aristocratica.
Nelle posizioni recenti, in principio richiamate, c’è di giusto il disagio ad ammettere un periodo monarchico nettamente separato dal periodo aristocratico; la polis nasce invece già aristocratica, benché all’origine si tratti di un’aristocrazia organizzata intorno a una leadership. Che si fa valere per vantate origini divine, e che ottiene prerogative (ghéra) riconosciute, in fatto di proprietà terriera, dell’esercizio di funzioni sacrali o anche militari, di rappresentatività della comunità politica, in un quadro sociale ed economico di forte omogeneità.
Progressivamente l’aristocrazia si libera anche da questo bisogno di leadership, e ciò avviene proprio nel momento in cui la società nel suo insieme è più stratificata e l’intero strato aristocratico vuole esercitare il potere politico.
Ora, è del tutto plausibile che a Sparta la diarchia corrisponda esattamente alla funzione che la tradizione le attribuisce: garantire un equilibrio di leadership, tenere in scacco eventuali propensioni ad un eccessivo accentramento di potere, realizzare anche nella regalità la ‘parità’ degli homoioi.
Non sarebbe l’unica peculiarità della costituzione spartana, così accortamente costruita.
Pag. 86-87

L’assetto di età arcaica, dal punto di vista politico, economico, territoriale, richiama, pur con qualche differenza, la Laconia.
Le differenze sono nell’essenza di un centro cittadino rigorosamente egemone (Larissa sembra aver avuto, forse dopo prodromi da attribuire alla Tessaliotide, una funzione certo di guida, ma non equiparabile a quella di Sparta), e nella lentezza dello sviluppo urbano; la posizione dei perieci, già per la conformazione del territorio e la relativa libertà che conferisce loro la struttura montuosa dei distretti che abitano, è di maggiore autonomia complessiva, e di conservazione di una propria identità etnica.
Inoltre è da considerare che i tessali, se davvero erano dori, non riuscirono però a imporre il loro dialetto, che in età storica in Tessaglia, è l’eolico; segno, se ci fu immigrazione, del fatto che la popolazione preesistente rimase sul luogo in quantità cospicua.
Pag. 96

Qualcosa di più sappiamo, o crediamo di sapere, a proposito di regioni coinvolte nei processi di riassetto del popolamento e dell’insediamento, come, in primo luogo, è delle regioni non doriche del Peloponneso.
L’Elide deve aver conosciuto forme di organizzazione territoriale, che non vanno al di là di una rudimentale sintassi: non si può parlare di nascita di veri centri urbani; esistono forme di dispersione e perciò di autonomia dei centri della campagna; questa stessa immaturità del processo di formazione della città lascia in compenso spazio per lo sviluppo di aree sacre di largo (e presto panellenico) richiamo, come quella di Olimpia.
In Arcadia si conserva a lungo, fino almeno all’ottavo secolo, la forma basilica: anche qui, come per la Tessaglia, è da chiedersi se la funzione del basileus non sia espressione di una struttura latamente federativa, una funzione che diventa attiva soprattutto in caso di guerra.
Pag. 100

Il rapporto tra monarchia e aristocrazia è stato visto come un processo evolutivo o come un rapporto strutturale-organico: la basileia è un momento della storia dell’aristocrazia, la quale passa appunto da una forma a vertice monarchico ad una a vertice espanso, oligarchico.
Il vero passaggio è dunque da una monarchia palaziale, di epoca micenea, alle strutture aristocratiche di epoca alto-arcaica.
Pag. 102

Quello che l’età delle città greche porta con sé è forse il completamento del pantheon, e assai probabilmente uan sistemazione dei rapporti interpersonali fra le divinità, una crescita perciò dei miti, uan nuova definizione della gerarchia, con assunzione del primato da parte di Zeus e della divinità femminile più autonomamente collegata con l’idea di sovranità (già per la funzione avuta nel mondo miceneo), cioè Atena: sono all’opera la patrilinearità, sorretta dalle affermantisi istituzioni tribali, e la sovranità della dea del palazzo.
Più specificamente, al dodekatheon si arriva attraverso l’incontro, la sommatoria e la definizione dei diversi culti cittadini, in ciascuno dei quali diversa è la prevalenza dell’uno o dell’altro dio (questo attestano del resto i miti di contese fra gli dèi per il possesso di una determinata regione).
Anche nella storia religiosa, dunque, tra miceneo ed alto arcaismo v’è continuità ma anche innovazione, soprattutto sul terreno dei rapporti interni al sistema, e si verifica il passaggio da molteplici e distinte esperienze, con lunghissime radici, ad una forma communis che si definisce fra 8. e 6. secolo.
Pag. 118-19

Oggi, con il progresso degli studi fenicio-punici, il quadro dell’espansione fenicia e della connessa espansione cipriota, si va facendo di nuovo più documentato e più fitto.
Non si pongono più inutili e improbabili questioni di priorità assoluta di questo o quell’éthnos nell’esplorazione e frequentazione del Mediterraneo.
Non c’è posto né per un ‘impero’ fenicio né per un ‘impero’ miceneo, per l’improbabilità di un simile quadro di predominio in relazione al tipo di attività dei diversi popoli nell’ambito del Mediterraneo, attività che appartengono al livello della lunga durata, della ininterrotta, quasi routinière ‘conversazione’ tra le diverse rive di questo mare, dove sia i popoli dell’area siro-palestinese e sudanatolica, sia i greci hanno avuto un ruolo imponente.
Pare rilevante il fatto che in età arcaica, la prima colonia greca d’Occidente, Pitecussa (ca. 770), presenti tracce epigrafiche di presenza fenicie, e tipiche caratteristiche geografiche (isole adiacenti al continente) e ‘strategiche’, dal punto di vista commerciale, come relais per il rifornimento di metalli, preziosi e non (oro, forse dalla Spagna, ferro dall’Elba), e una successiva lavorazione nel sito della ‘colonia’.
Pag. 119-20


Bibliografia

La civiltà egea / G. Glotz. – 1962
L’antica civiltà cretese / R. W. Hutchinson. – 1976
Il palazzo minoico di Festo / L. Pernier. – 1935
I micenei / W. Taylour. – 1964
Minoici e micenei / L. Palmer. – 1965
La civiltà micenea nei documenti contemporanei / L. A. Stella. – 1965
Il modo di produzione asiatico / G. Sofri. – 1969
La società micenea / M. Marazzi. – 1978
I tesori di Troia / H. Schliemann. – 1995
L’alba della civiltà: società, economia e pensiero nel vicino oriente antico / a cura di S. Moscati. – 1976
L’Italia alle soglie della storia / R. Peroni. – Laterza, 1996
La civiltà mediterranea dalle origini della storia all’avvento dell’ellenismo / S. Moscati. – 1980
Storia degli italiani dalle origini all’età di Augusto / S. Moscati. – 1999
Civiltà del mare: i fondamenti della storia mediterranea / S. Moscati. – 2001
Polis: un modello per la cultura europea / G. Cambiano. – Laterza, 2000
Il mondo dei fenici / S. Moscati. – 1966
Il mondo punico / S. Moscati. – 1980
Le origini dei greci: dori e mondo egeo / a cura di D. Musti. – Laterza, 1985
Il mondo di Odisseo / M. I. Finley. – Laterza, 1978
Il capitalismo nel mondo antico / G. Salvioli. – Laterza, 1985
Il Commonwealth greco / A. Zimmern. – 1967
Traffici e mercati negli antichi imperi / K. Polanyi…et al. – 1979
Storia economica del mondo antico / F. M. Heichelheim. – 1972
Economie e società nella Grecia antica / M. Austin…et al. – 1982
Economia degli antichi e dei moderni / M. I. Finley. – Laterza, 1974
L’anatomia della scimmia: la formazione economica della società prima del capitale / A. Carandini. – 1979
Saggi antropologici sulla Grecia antica / S. C. Humphreys. – Il Mulino, 1979
Poemi omerici ed economia antica / A. Fanfani. – 1960
Società romana e produzione schiavistica / a cura di A. Giardina…et al. – Laterza, 1981
Gli schiavi nella Grecia antica: dal mondo miceneo all’ellenismo / Y. Garlan. – 1985
L’economia in Grecia / D. Musti. – Laterza, 1981
La religione greca / U. Bianchi. – 1975
I greci / W. Burkert. – 1984

 

Cap. 2. La Grecia delle città: legislazioni, colonizzazione, prime tirannidi

Ci sono almeno tre aspetti, sotto i quali sono di solito considerati gli eventi della storia greca tra secolo 8. e 7.: la colonizzazione, che assume particolare rilievo o significato in Occidente, ma si svolge contemporaneamente nel Mediterraneo orientale e lungo le coste del Mar Nero; le grandi figure dei legislatori cittadini (dallo spartano Licurgo a Fidone di Argo all’ateniese Draconte, da Zaleuco di Locri a Caronda di Catania; da Filolao corinzio, attivo a Tebe, a Pittaco di Mitilene); l’avvento di regimi tirannici in molte città greche, dell’istmo peloponnesiaco o dell’Asia Minore.
Colonizzazione, legislatori, tiranni, dunque.
Il concentrare l’attenzione su questi aspetti è in realtà dovuto al fatto che i soggetti in questione (ecisti, saggi autori di leggi, personalità dominatrici) furono oggetto di storia, e perciò fruiscono di un’abbondante tradizione, invero assai spesso tardiva (in particolare quella sui legislatori, che appartengono alla categoria, molto biografata, dei sapienti e dei filosofi).
A guardar bene, non sono soggetti tutti della stessa consistenza storica.
Se il fenomeno coloniale si lascia studiare nelle sue caratteristiche d’insieme (cause, motivazioni, finalità, aree di esplicazione e di sviluppo, sistemi di rapporti creati con la madrepatria e all’interno delle nuove aree acquisite) e altrettanto può dirsi della tirannide (origini, rapporti con la società aristocratica e con le strutture oplitiche, interni sviluppi, significato socioeconomico, aspetti cronologici, qualità diversa a seconda dell'’poca di affermazione, rapporto con la democrazia, là dove questa ne è la pur mediata conseguenza), il raccogliere sotto un solo capitolo tutte le legislazioni appare come una forzatura.
Pag. 137

Lo studio dei legislatori non si presenta dunque come un problema unitario.
Le notizie sulle legislazioni vanno studiate infatti all’interno della storia delle singole città o quanto meno delle singole aree storiche greche.
Tuttavia è possibile considerare le legislazioni in una prospettiva d’insieme sotto due punti di vista d’ordine generale.
Il primo, e fondamentale, è quello che vede nelle legislazioni un momento della storia delle trasformazioni e (in senso lato) della crisi delle aristocrazie greche, una prospettiva nella quale il tema è legittimamente affiancato da quelli della colonizzazione e delle tirannidi.
La colonizzazione è certamente una risposta allo squilibrio determinatosi nel rapporto tra le risorse e i bisogni alla fine dei secoli bui, e rappresenta una risposta che solo in parte esprime una spontanea ribellione, in parte è favorita o addirittura suscitata dalle stesse aristocrazie cittadine.
Al fenomeno migratorio si accompagna certo la diffusione di una più risentita coscienza politica.
Ma lo stesso deve dirsi per le legislazioni e per le stesse tirannidi.
In un certo senso si può dire che i due fenomeni, entrambi espressione di sviluppi politici interni, rappresentino spesso soluzioni alternative fra loro, nell’evoluzione delle aristocrazie greche.
Si tratta, nel primo caso, di forme di adattamento, di autocorrezione o di autocensura dell’aristocrazia al potere, forse anche sollecitate da strati più modesti e inquieti della popolazione.
Nel secondo caso, quello della tirannide, il movimento storico assume forme più traumatiche, ma è all’interno delle strutture oplitiche che l’aristocrazia si è data, e quindi è dal cuore stesso dell’aristocrazia che nascono le tirannidi, naturalmente attraverso una catena di azioni e reazioni, che configurano una presa di coscienza, da parte dell’aristocrazia, della necessità di revisione del campo dei rapporti sociali, che non conduce però a uan vera e propria rivoluzione di questi rapporti.
Pag. 138-39

La diversità di Sparta, non potendo certo essere una diversità razziale originaria degli spartani, sarà da concepire come acquisita storicamente, come risposta a conflitti, che però non hanno snaturato condizioni originarie: queste trovano in Sparta solo una versione peculiare e più rigida.
Pag. 142

In verità, già nel corso dell’ottavo e del settimo secolo, nei conflitti con i messeni e con gli arcadi, gli spartani hanno avuto modo di mettere a frutto la loro struttura, organizzazione e singolare disciplina; già i versi di Tirteo riflettono quel senso di struttura compatta, che è l’ideologia stessa dell’oligarchia militarista spartana.
Ma nell’ottavo e settimo secolo questa rigida organizzazione militare è anche nella sua fase più attiva e, per così dire, vitale: Sparta è in fase di espansione e di conquista.
La città, dove i ruoli cittadini tendono già alla fissità, non partecipa a quelle imprese a quelle imprese coloniali, che costituiscono una prova della mobilità sociale e mentale degli altri greci; l’unica colonia spartana d’Occidente nota alla tradizione più autentica, Taranto, sembra dovere le sue origini a condizioni eccezionali e ad elementi non pienamente legittimati nei diritti cittadini.
Con la conquista, Sparta cerca di risolvere quei problemi di ordine demografico ed economico, che altre città, nello stesso Peloponneso, risolvono, almeno in parte, con la migrazione.
Una Sparta conquistatrice è ancora una Sparta ina scesa e a suo modo vitale, aperta, anche se aggressivamente, all’esterno.
Non c’è assurdità nella compresenza di un Alcmane o di un Terprando, da un lato, e di un Tirteo, dall’altro.
Successivamente, e già nel sesto secolo, la stessa capacità espansionistica di Sparta si va esaurendo; la città diventa l’essenza stessa di una statica conservazione.
E’ allora che essa diventa la gendarme della propria costituzione e della aristocrazie in genere, spesso così diverse da quella spartana.
Ciò nondimeno Sparta è la loro tutrice e garante (anche attraverso lo strumento della Lega peloponnesiaca), e diventa sempre di più il loro modello ideologico, il loro (di fatto, così diverso) ‘dover essere’.
Essa si sente chiamata a una responsabilità di difesa contro tutto il nuovo che turba gli ordinamenti politici e sociali greci: le tirannidi prima, la democrazia ateniese dopo.
Il maturare di tutte queste nuove condizioni, interne ed esterne, fissa ed esalta il ruolo ideologico di Sparta, che si riflette anche al suo interno: di qui la xenofobia e il senso di profonda chiusura, in cui si ibernano valori di un kosmos, che è ragionevole ammettere però costituito già tra ottavo e settimo secolo.
Pag. 146-47

Una regione, l’Attica, in cui l’avvento della tirannide non era facile.
Lo dimostrano sia il fatto che Atene non conobbe una tirannide (ma solo un complotto per instaurarla) nel settimo secolo, sia il fatto che l’ascesa dello stesso Pisistrato alla tirannide fu laboriosissima e passò attraverso una successione di fallimenti a catena.
Attraverso processi assolutamente peculiari, si determina così in Atene una temperie politica particolarissima: benché sempre prematuro parlare di avvento dello Stato all’epoca di Solone, è certo che qui il ruolo del valore del pubblico si va preparando attraverso uan lunga gestazione, a cui appartengono anche processi e atteggiamenti di ordine negativo, a cui appartengono anche processi e atteggiamenti di ordine negativo, come la ricerca costante di un bilanciamento dei poteri.
Pag. 152-53

Nel quadro degli assetti territoriali e delle ripartizioni regionali del mondo greco vanno considerate quelle caratteristiche associazioni, che definiamo come anfizionie.
Le anfizionie sono leghe di popoli o di città costituite intorno ad un santuario.
Bisogna dunque evitare di vedere in esse forme embrionali di unificazione politica, quasi una fase immatura in quel cammino della unificazione nazionale e territoriale, che una concezione ottocentesca voleva imporre al mondo greco come sua finalità mai raggiunta.
Come abbiamo già detto, il mondo delle poleis nasce, si regge e fiorisce sul principio dell’autonomia: chi volesse imporre modelli ottocenteschi alla variegata realtà del mondo greco, ne mortificherebbe la peculiarità, ne stravolgerebbe l’identità storica.
Il tema delle anfizionie si lascia dunque assai bene inquadrare in un capitolo destinato allo studio della formazione della Grecia delle città, perché lo investe comunque, in maniera diretta o indiretta.
Pag. 155

E’ più giusto parlare di passaggio dalle aristocrazie alle tirannidi, che non dall’aristocrazia alla tirannide: a significare che vi furono forme storiche ed esiti storici diversi di tirannidi, a seconda delle diverse situazioni e dei diversi contesti storici.
La diversità dei casi, delle forme, degli sviluppi nulla toglie comunque alla legittimità di una considerazione sotto un profilo unitario delle tirannidi arcaiche, cioè di  settimo-sesto secolo.
Si potrà certamente distinguere tra le cosiddette tirannidi ‘istmiche’ (di città più o meno gravitanti intorno all’istmo di Corinto: Corinto stessa, Sicione, Megara), altre, pur esse nella madrepatria greca, come quella di Atene o quella, diversa per l’aspetto cronologico e reale, di Argo; e tirannidi di città ioniche o egee, per noi un po’ più evanescenti, come quelle di Mitilene a Lesbo o di Mileto ed Efeso in Asia.
Una tradizione di scuola vuole che si cominci dai nomi.
Tiranno e tirannide sono parole presenti nel vocabolario greco, già dal settimo secolo: Archiloco, nel settimo secolo, Alceo, tra settimo e sesto, Solone e Teognide nel sesto ne fanno già uso.
Il significato di tyrannos è “signore”; un suo più o meno diretto equivalente in un termine più trasparente alla luce del lessico greco è monarchos, “colui che governa da solo”.
Queste parole indicano un potere personale assoluto, superiore a quello tradizionale dei basileis, soprattutto perché non definito in prerogative (ghéra) concordate dalla comunità e perciò non basato sul consenso; tuttavia molte volte i tiranni mirano ad assimilare il loro potere a quello di un basileus, e parte della tradizione letteraria antica, compresa la storiografia, obiettivamente li asseconda.
Il termine tyrannos porta peraltro già in Alceo una nota di condanna, che raggiungerà il valore più negativo negli scrittori del quarto secolo, che risentono sia positivamente di una ideologia democratica latamente diffusa, sia dell’esperienza negativa di tirannidi del quinto e quarto secolo, in particolare di quelle siceliote.
Pag. 160

Paiono dunque in qualche misura giustificate le posizioni di quegli studiosi che si rifiutano di individuare una causa unica nella nascita delle tirannidi.
Un empirismo di fondo caratterizza significativamente le impostazioni di studiosi così diversi fra loro come Andrewes o un Berve. Andrewes nega giustamente che la genesi delle tirannidi sia da ricondurre a conflitti razziali (benché, nel caso di Sicione, sia documentata la posizione antidorica di un Clistene, una posizione che tuttavia ha anche una più complessa spiegazione).
Per Berve la tirannide, in termini generali, si può ricondurre a spinte individualistiche; e certo questa è una forma di schematico e riduttivo positivismo.
Fortunatamente però la ricchissima analisi di Berve, in quella che ormai è ed è destinata a restare come la base filologica indispensabile per qualunque ricerca sulla tirannide nel mondo greco, smentisce la rappresentazione generalizzante della prefazione e dà pieno conto della ricchezza delle motivazioni politiche e socioeconomiche, che sono all’origine delle tirannidi.
Talora la tirannide è stata posta in un rapporto diretto e immediato con lo sviluppo mercantile o ancor più specificamente con quello dell’economia monetaria.
In realtà si può affermare una stretta connessione della tirannide con lo sviluppo demografico ed economico della Grecia tra ottavo e settimo secolo; esso ha come conseguenza un ampliarsi del campo dei bisogni e dei conflitti sociali, a cui le vecchie strutture aristocratiche non rispondono più.
La tirannide è quindi certamente espressione di movimenti significativi nell’economia e nella società antica e, in quanto tende ad interpretarli e guidarli nelle forme del potere personale (cioè familiare), li sollecita e promuove a sua volta.
Ma non è possibile definire uan volta per tutte uan specifica caratteristica economica della tirannide come tale, e spesso – come è nel punto di vista forse parziale, ma non erroneo, di Aristotele – la sua base sociale è proprio nel comando.
La problematicità dell’equazione tirannide = sviluppo del commercio risulta già dalla considerazione della storia dell’economia di Corinto arcaica.
La dinastia dei Bacchiadi regge Corinto fino alla metà del settimo secolo a. C., quando la ceramica proveniente dalla regione ha conosciuto già circa un secolo di sviluppo (protocorinzio antico e medio: circa 740-650) e ha avuto, non più tardi del 700 a. C. (quindi certamente già in periodo bacchiade), una produzione e diffusione di massa.
L’esatta definizione del rapporto tra aristocrazia bacchiade e artigianato / commercio corinzio è uno die problemi centrali, se non addirittura il problema-tipo e la questione paradigmatica, per la rappresentazione del rapporto tra economia, società e politica nella Grecia arcaica.
Pag. 165-66

Sul piano socio-economico il tiranno tende ad esercitare una funzione propulsiva, diffusa su tutte le attività, nella prospettiva di un equilibrio nuovo, che consenta di dare qualche risposta ai bisogni elementari degli strati più poveri, senza però farli entrare ancora nella sfera del potere, che resta personale e, nonostante tutto, fortemente condizionato dal punto di partenza politico delle tirannidi medesime.
Come sul terreno sociopolitico il tiranno occupa progressivamente il campo mediano dello spazio sociale, così sul terreno economico egli si pone come fattore propulsivo delle più diverse attività produttive, con incremento anche di quelle meno tradizionali, che possono rispondere all’accresciuto e aggravato bisogno economico complessivo, già per il fatto che costituiscono ulteriori fonti di sostentamento.
Il fatto poi che nella tradizione queste attività produttive, proprio perché meno tradizionali, possano essere talora messe in una luce particolare, a scapito di altre, non autorizza lo storico di oggi a stabilire connessioni univoche tra la tirannide e una determinata forma economica.
Ma della qualificazione politica della tirannide può dare una giusta idea, oltre alla considerazione della sua genesi, anche quella dei suoi sbocchi, dei suoi esiti sociopolitici: ci si accorgerà infatti che in molti casi si è operato un indebito trasferimento, verso la fase iniziale di una tirannide, di quelle caratteristiche che essa assume invece solo in una fase avanzata, o addirittura finale, della sua storia, comunque ad opera di un tiranno diverso dal fondatore del regime.
La tirannide non è sempre l’anticamera della democrazia.
Lo è là dove tutto il processo politico è spostato in avanti (e ciò è documentabile ad Atene, assai meno a Megara); questo accade naturalmente nelle epoche più avanzate; ma, anche in questo caso, il passaggio dalla tirannide alla democrazia non è né diretto né indolore, ed è quindi compito dello storico mettere in luce quei sati nuovi che la tirannide comporta e che trovano un loro diverso e compiuto sviluppo nella democrazia: formazione di un potere al di fuori e al di l sopra della semplice somma dei cittadini; sviluppo della fiscalità; elaborazione e articolazione della stessa idea e forma di città.
Tuttavia il verificarsi del fenomeno della tirannide non lascia in nessun caso le cose immutate; anzi, come risultato minimo (che è poi quello più spesso ricorrente), esso produce una aristocrazia moderata, cioè più temperata rispetto a quella precedente della tirannide.
Una via classica è quella dell’allargamento del corpo civico, quale si può ottenere mediante l’ampliamento del numero delle tribù.
Il caso più evidente è quello di Sicione: Clistene (circa 610/600-580/570) alle tre vecchie tribù dell’aristocrazia dorica (apparentemente deformate nei loro nomi) aggiunge una quarta tribù, che si chiamerà, durante la tirannide, degli Archélaoi e più tardi si assesterà su una denominazione Aighialeis, che recupera al tempo stesso il nome originario di Sicione (Aighialeia) e il nome del figlio dell’argivo Adrasto (Aighialeus, Egialeo), eroe caro all’aristocrazia dorica di Sicione, il cui culto Clistene aveva appunto sostituito con quello dell’antagonista tebano Melanippo e del dio Dioniso.
Con tutto ciò, la forma del governo di Sicione, 60 anni dopo la fine di Clistene, era oligarchica.
E tale resta anche la costituzione di Corinto, benché, dopo la fine dei Cipselidi, in base a un passo di Nicolao di Damasco che parla dell’istituzione di 8 probuli e di 9 buleuti (per ciascun probulo, quindi 72?), si sia potuto ammettere che le cifre 8 e (forse) 80 in questione, in quanto multiple di quattro, presuppongono anche a Corinto un ampliamento delle strutture civiche da tre a quattro tribù (con tutto quel che tale ampliamento comporta, di pur limitate modifiche).
Pag. 168-69

La colonizzazione greca di età arcaica presenta caratteri del tutto nuovi rispetto alle frequentazioni di regioni del Mediterraneo orientale di epoca micenea.
E’ la stessa più antica tradizione storiografica a dare una chiara nozione della novità che compete alle fondazioni greche del secolo ottavo e seguenti.
Antioco di Siracusa o non conosce fondazioni micenee o almeno non stabilisce un rapporto di continuità tra le presunte colonie micenee e la storia delle città d’Italia e di Sicilia di cui parla.
Un’anticipazione delle città coloniali all’epoca micenea (per Crotone, come per Metaponto, per Siri o per Taranto) è solo opera della storiografia più tarda: verosimilmente già di Eforo, certamente di Timeo e seguaci.
Lo storico moderno ha il dovere di raccogliere l’invito delle storiografia greca più vicina a fatti e tradizioni di fondazione delle poleis coloniali, a cogliere lo stacco storico che quelle fondazioni rappresentano rispetto al passato, il valore di evento d’ordine politico-militare, che rompe, con la sua forza innovativa, la continuità di un fatto di lunga durata, routinier, quale la conversione ininterrotta (e assai composita) fra le diverse rive del Mediterraneo, che i greci riassumevano sotto la vaga formula dell’emporia (l’andar per mare, comunque probabilmente soprattutto per commerciare): insomma, quel sommesso, secolare scambio di uomini e cose fra le rive del Mediterraneo, che per i greci, come per ogni uomo di buon senso, è appena lo sfondo ovvio di contatti, che non costituiscono di per sé un evento politico né lo sbocco chiaramente individuabile di un processo socioeconomico.
La discussione sulla colonizzazione greca è rimasta a lungo impantanata nella falsa alternativa tra l’interpretazione delle fondazioni come colonie commerciali e quella che ne fa colonie agrarie e di popolamento.
Di fronte al fenomeno coloniale converrà porsi diversi ordini di problemi:
1) le condizioni demografiche, socioeconomiche e politiche della madrepatria;
2) il fondamentale atteggiamento psicologico dei greci di fronte al fatto della migrazione;
3) l’articolarsi e il rapportarsi delle diverse esigenze economiche, che sono inevitabilmente compresenti – benché in misura diversa nei diversi contesti – in tutte le colonie, e le nuove situazioni complessive che ne emergono;
4) il costituirsi di autentiche ‘aree di colonizzazione’, specie di entità macroterritoriali, al confronto con questa o quella polis;
5) i rapporti con l’ambiente e con la popolazione locale;
6) i rapporti con la madrepatria
Pag. 179-80

Gli sviluppi politici interni alle colonie, tra la fondazione e il sesto secolo, costituiscono uno dei capitoli più difficili della storia della grecità coloniale.
Le stesse origini sociali sono spesso avvolte nel buio: in particolare quelle di Taranto e di Locri Epizefirii, per le quali parte della tradizione parla della partecipazione, diretta o indiretta, di elementi servili: figli di iloti e di donne spartiate (Partenii, cioè figli di parthénoi, di donne legalmente vergini) nel primo caso, servi unitisi con le loro padrone nel secondo caso.
La presenza di elementi servili è attestata soprattutto nella tradizione più antica.
Nella tradizione locale v’è diversità di comportamento delle due città: l’aristocrazia locrese sembra aver perpetuato la tradizione di una origine ilotica e della nobiltà dei capostipiti femminili delle cento case più nobili; la presenza ilotica nelle origini di Taranto sembra invece complessivamente respinta dalla città.
Pag. 194-95

La teogonia è documento fondamentale dei vari strati di cui si compone l’esperienza religiosa greca: da un mondo di divinità primordiali, viste e colte in un processo di generazione e trasformazione di entità inquietanti ed immani, alla stabilità del regno di Zeus, del nuovo pantheon.
Il divenire di questo mondo divino, la sua storia, risente dell’apporto orientale: è ormai da più di trent’anni un dato acquisito che le genealogie e i miti di successione delle diverse generazioni divine esiodee – da Urano a Crono al dio del cielo Zeus – corrispondano alla perfezione a miti di successione  divina (in particolare, mito di Kumarbi) di ambiente hurrico (perciò mesopotamico), come rifluito in testi ittiti e fenici, ed entrati nella cultura dei greci per la mediazione della cultura cretese o, più tardi, attraverso quella micrasiatica e ionica.
Del resto, tradizione orientale e patrimonio culturale greco si fondono anche nella rappresentazione della storia genealogica dell’umanità, nel mito delle cinque età, narrato da Esiodo negli Erga, ai vv. 109-201.
Di queste età la prima, seconda, terza e quinta sono metalliche (oro, argento, bronzo e, al quinto posto, ferro); la quarta è etichettata come età degli eroi.
Nella successione dei metalli è l’apporto orientale; nell’inserimento, giusto tra l’età del bronzo e quella del ferro (in termini archeologici ineccepibili), dell’età degli eroi del ciclo argivo-beotico e del ciclo troiano (cioè della memoria mitica relativa al mondo miceneo), è un peculiare e inconfondibile correttivo greco.
Ma greca è anche la nozione del tempo sottesa (e sovrapposta) al mito delle quattro età metalliche (come conto di mostrare analiticamente altrove); l’età dell’oro è una fase fuori del tempo e della morte, in senso stretto; le altre età metalliche sono una resa quasi parodistica dei tre punti della parabola del tempo greco, cioè del tempo naturalisticamente inteso: l’età d’argento è quella di una abnorme infanzia; quella del bronzo corrisponde alla maturità dell’età virile, come età della guerra (qui vista in una sorta di livida parodia); l’età del ferro, o contemporanea, è quella dei mali e dell’ingiustizia ma anche della precoce vecchiaia.
Idea di declino, insita nel mito originario, e idea naturalistica del tempo concorrono qui a determinare una visione pessimistica, con cui contrasta, nel corso degli stessi Erga, un senso più attivo e positivo del tempo del lavoro, come portatore di benessere e di giustizia.
Nella concezione di Esiodo, all’agricoltura si affianca, come érgon fra gli érga, il commercio: ma è un commercio, nella sua prospettiva, fortemente collegato all’agricoltura, un commercio stagionale, evidentemente inteso allo smercio dei prodotti locali.
E’ ancora assente la moneta.
Ma Esiodo è testimone anche dell’avvento di nuove forme commerciali, quelle di un’emporie che si è resa (o che può sempre più spesso rendersi) autonoma dalle attività agricole, sul piano economico, e dal contesto aristocratico, sul piano sociale.
E’ difficile dire, in queste condizioni, se la sua testimonianza significhi un totale rifiuto e una fondamentale estraneità, di fronte a una società ‘diversa’, che sta nascendo, o se invece essa rappresenti solo una possibilità, in una gamma e in un continuum di possibilità diverse, che costituiscono altrettante forme di combinazione tra la tendenza alla tesaurizzazione e quella allo scambio del surplus e alla circolazione: comunque, la propensione del poeta è chiara.
Egli è testimone di un ‘nuovo’, che non è separato in assoluto dal suo mondo, e insieme di un ‘antico’ destinato, per parte sua, a durare.
Pag. 203-4

Tra nono e settimo secolo ci s’imbatte in una vasta gamma di espressioni artistiche, la cui dislocazione e il cui profilo policentrico danno l’esatta nozione del fiorire di una Grecia delle città, fra cui è compresa Atene, ma in cui Atene non ha ancora quel ruolo trainante che avrà dalla fine del settimo e soprattutto dal sesto secolo in poi.
Per la metallurgia si segnala Argo (e sarà una caratteristica costante, che si presenta come una nota di continuità nella produzione del Peloponneso e più in generale della Grecia occidentale): ne proviene la prima panoplia (fine ottavo secolo) dopo l’età del bronzo.
La scultura, in bronzo o in argilla – che tra l’altro produce ormai figure umane, ancora di piccole dimensioni – dà segni di vitalità già dalla fine del nono secolo.
Ma per la storia delle città (e della grecità in generale) hanno particolare importanza l’architettura templare e l’urbanistica.
I primi templi, come edifici culturali separati da altri edifici e ‘case’ divine compaiono forse nel nono secolo, ma s’individuano meglio per l’ottavo (tempio di Apollo a Termo, in Etolia, e a Drero, a Creta; templi di Era Limenia e Akraia a Perachora; primo tempio di Era a Samo).
L’importanza dell’esperienza peloponnesiaca, o anche, più precisamente, dell’area greco-occidentale, che gravita intorno al golfo di Corinto (dall’Etolia all’Istmo) è particolarmente evidente, non meno della vitalità di Creta e della Ionia.
Pag. 209

Bibliografia

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La nascita del kosmos: studi sulla storia e la società di Sparta / M. Nafissi. – 1991
Le origini della democrazia greca, 800-400 a. C. /W. G. Forrest. – 1966
Il mito dell’autoctonia: linee di una dinamica mitico-politica ateniese / E. Montanari. – 1981
Il tiranno e il suo pubblico / D. Lanza. – 1977
La Magna Grecia / J. Bérard. – 1963
Strabone e la Magna Grecia: città e popoli dell’Italia antica / D. Musti. – 1988
Colonie greche dell’Occidente antico / E. Lepore. – 1989
Archeologia della Magna Grecia / E. Greco. – Laterza, 1993
Magna Grecia: il quadro storico / D. Musti. – Laterza, 2995
Città e monumenti dei greci d’Occidente: dalla colonizzazione alla crisi di fine quinto secolo a. C. / D. Mertens. – 2006
Magna Grecia: l’Italia meridionale dalle origini leggendarie alla conquista romana / E. M. de Juliis. – Laterza, 1996
I telchini, le sirene: immaginario mediterraneo e letteratura da Omero a Callimaco al romanticismo europeo / D. Musti. – 1999
Greci e italici in Magna Grecia / E. M. de Juliis. – Laterza, 2004

Cap. 3. Sviluppo politici del sesto secolo

L’opera di Solone, arconte nel 594/593, secondo Diogene Laerzio, o nel 592/591, secondo la Costituzione degli ateniesi di Aristotele, porta a piena maturazione quelle premesse politiche e sociali che abbiamo intravisto nella comunità aristocratica attica del medio arcaismo.
Solone operò infatti sia sul terreno sociale, sia su quello politico-costituzionale; fu riformatore sociale e fu nomoteta, autore di leggi costituzionali, che sostituirono i thesmoi di Draconte.
Complessivamente, egli non appare autore di riforme in grado di stravolgere il vecchio profilo politico ateniese o la realtà socio-economica, cioè l’assetto proprietario, dell’Attica.
E tuttavia è chiaro che sul terreno sociale egli incise con azioni innovative, volte quanto meno a sanare i guasti che nel corso del tempo si erano determinati nel corpo sociale e nell’economia dell’Attica; sul terreno politico-costituzionale l’opera di Solone fu quella di un codificatore, capace di portare ordine nelle vecchie e conservate strutture, e di ammodernare qua e là.
Non fu il creatore della democrazia, anche se la tradizione antica o la riflessione moderna avvertono un filo di sviluppo, tormentato ma continuo, tra l’azione di Solone e il formarsi di gruppi e programmi politici differenziati, con i relativi conflitti, nei decenni successivi, e quindi la tirannide di Pisistrato e dei figli e la democrazia creata dall’alcmeonide Clistene nel 508/507.
Solone avverte acutamente il divario tra la struttura politica, che va conservata anche se perfezionata e resa stabile, e il rapporto sociale, che è diventato conflittuale e drammatico, tra ricchi e poveri, cioè tra i proprietari della terra e i suoi coltivatori.
Questo è il quadro dell’assetto proprietario in Attica, come fornito da Aristotele: e fondamentalmente esso è giusto, purché non ci si fermi alle definizioni formali, ma si tenga conto di tutto ciò che esse contengono, e della testimonianza diretta di Solone che egli ci riporta.
E’ soprattutto in gioco la condizione degli hektémoroi, coloro che lavorano la terra per conto dei ricchi, versando forse come canone 1/6 del prodotto; poiché anche rispetto all’assolvimento di questo obbligo essi risultano spesso morosi, rischiano d’essere venduti schiavi e come tali trasportati fuori dell’Attica.
Pag. 226-27

Dunque è plausibile un quadro come quello che segue.
Con la crisi del potere miceneo si accentua in Attica quella frantumazione della proprietà, che, nelle forme socialmente riconosciute e garantite, non poteva essere altro che proprietà di relativamente grandi dimensioni.
Si viene però a creare un’articolazione collegata alla presenza sulla terra dei suoi diretti coltivatori, che rapidamente ne diventano i possessori di fatto, con obblighi di tipo tributario verso i grandi proprietari (gli unici ad avere, e a potere avere, nelle condizioni dell’epoca, un titolo legale).
Un interprete del quarto secolo (epoca di misthòseis), come Aristotele, trascriveva questa diffusissima forma di proprietà embrionale, proprietà di fatto (ma non per questo meno esposta a rischi per la persona del coltivatore) in un rapporto affittuario: e, in fondo, non sbagliava, salvo per un eccesso di formalizzazione (da parte sua), non meno inadeguata di quella che operano quegli studiosi moderni che ragionano in termini di proprietà di pieno diritto, per possedimenti di minori dimensioni.
Pag. 228-30

In questo quadro si colloca la tirannide di Pisistrato, le cui caratteristiche, le cui vicende, i cui stessi infortunii possono spiegarsi solo alla luce della particolare politica di Atene e di quel mondo di valori comunitari che l’opera di Solone aveva rafforzato, anche se non messo al riparo dai fermenti dell’epoca e dai gravi elementi di crisi che la società attica aveva accumulato al suo interno.
La carriera di Pisistrato rappresenta un’ampia conferma di ciò che abbiamo detto sopra, circa lo stretto rapporto che sussiste tra oplitismo e tirannide; tuttavia andranno aggiunto, a completare il quadro, alcune caratteristiche che riportano per intero l’uomo e la sua vicenda alle peculiari condizioni di Atene.
Pisistrato crebbe infatti in prestigio e potere dopo aver esercitato la carica di polemarco, ed avere, in quella funzione, conseguito importanti successi contro Megara, a cui furono sottratti l’isola di Salamina e lo stesso porto di Nisea, sul golfo Saronico.
Ma ad Atene si conosce già un embrionale forma di organizzazione in partiti politici, che non è elementare e magari occasionale contrapposizione tra ricchi e poveri, ma già configurazione di interessi, programmi, alleanze, secondo un più complesso schema, una ripartizione in tre distinti ‘gruppi’ politici.
Pisistrato proviene da Brauron, centro importante sulla costa orientale dell’Attica, forse addirittura il centro più importante della penisola dopo Atene (connesso, tra l’altro col demo dei filaidi; ma i filaidi sono anche un ghénos, quello dei due milziadi).
Una delle definizioni della diakria (in Esichio) le assegna come confini il monte Parnete e Brauron; e i successi militari aprono la strada al successo politico di Pisistrato, che diventa il capo dei diacrii (a capo dei pediaci era Licurgo, della nobile famiglia dei Butadi, e a capo dei paralii l’alcmeonide Megacle).
Pisistrato ha un programma politico e sociale molto più marcato di quello soloniano, anzi volto a dare soluzione a quei problemi che l’opera soloniana aveva lasciato senza risposta: un autentico sviluppo della piccola proprietà e una politica estera di espansione, cioè di ricerca di reali punti d’appoggio per quelle attività commerciali, a cui Solone aveva certo fornito più stimoli che non occasioni d’esplicarsi in concreto.
Tuttavia tutta la carriera di Pisistrato non si intende se non sullo sfondo delle condizioni politiche dell’Attica.
La considerazione di queste aiuterà a tenere un conto assai maggiore dei dati della tradizione sulla travagliata, anche se alla fine fortunata, vicenda di Pisistrato.
Non era facile instaurare uan tirannide, col grado di coscienza politica e comunitaria maturata ad Atene; le resistenze erano molteplici, e provenivano da radicate tradizioni di bilanciata gestione del potere, dal vigoroso rafforzamento di quei principi nella decisiva (su questo piano) opera politica di Solone, dall’esistenza già di più ‘partiti’ all’interno della città.
Diventare tiranno qui significava sconfiggere i partiti, o almeno gli altri partiti, se ad aspirarvi era il capo di uno di essi.
Pag. 233-34

Sulla tirannide di Pisistrato sono unanimi le valutazioni positive della tradizione antica: non cambiò le leggi esistenti, secondo Erodoto, ma si limitò ad occupare i tradizionali posti di potere tramite parenti ed amici (e con questo giudizio concorda quello di Tucidide, 6. 54); governò la città con moderazione, secondo Aristotele, e più da cittadino che da tiranno (il tiranno è infatti l’anticittadino per antonomasia).
Questa moderazione è certo un parte della personalità politica e dello stesso carattere (descritto come gioviale e capace di tolleranza e di humour) di Pisistrato; ma in parte era condizione obbligata in una società politicamente evoluta e cosciente, una società difficile dunque, come quella ateniese.
D’altra parte, occorre tener presente che non poteva non giovare alla buona fama di Pisistrato il confronto dei figli con lui, in particolare l’aspro comportamento tenuto da Ippia dopo l’attentato di Armodio e Aristogitone (514/513), che aveva conseguito  l’unico effetto di eliminare il fratello di Ippia, Ipparco.
Pag. 239

Paradossalmente la tirannide, un potere personale, favorisce, anche contro le intenzioni, un processo di formazione di valori statali, persino attraverso vie anomale, che rafforzano però l’idea della comunità come sede di un potere distinto da quello dei suoi singoli membri e ad esso superiore; matura insomma, come in un doloroso travaglio, il processo di separazione e distinzione tra società e Stato.
Ciò si può agevolmente osservare innanzi tutto nella nuova nozione della fiscalità (un tratto comune a molte tirannidi): Pisistrato impone un’imposta diretta (del 5% o del 10% del prodotto).
Inoltre sembra doversi a Pisistrato la creazione di un numero ristretto di ufficiali superiori, gli strateghi: si aggiunge la creazione di una guardia del corpo di mercenari sciti, con funzioni di polizia; ma si può dire che persino una misura anomala, come la creazione di una guardia del corpo, finisca col materializzare l’idea di un potere armato supremo, distinto e incombente sui singoli cittadini.
Le innovazioni fiscali di Pisistrato  dovevano d’altro canto servire non soltanto a quelle finalità latamente assistenziali che la tradizione individua nella creazione di un credito fondiario, ma anche a finanziare (forse attraverso la mediazione delle naucrarie, associazioni di possidente della zona costiera) l’allestimento di una flotta, che in questo periodo consta ancora di navi a 50 remi (pentecontori), forse solo in numero di cinquanta.
Pag. 240

Naturalmente non si può prescindere dallo sviluppo artigianale e commerciale che l’archeologia dimostra per l’epoca di Pisistrato, e lo sviluppo monetario conferma, e che trova espressione anche nella politica di acquisizione di teste di ponte per i rifornimenti e i traffici di Atene in Troade (Sigeo) e, in un rapporto non del tutto chiaro con la volontà politica dei tiranni, anche nel Chersoneso tracico e a Lemno (mi riferisco ai possedimenti delle Filaidi).
Come, dal punto di vista economico, lo sviluppo artigianale e mercantile di Atene non esclude una chiaramente documentata politica per uno sviluppo della piccola proprietà terriera, così sarebbe, per converso, impossibile ridurre la politica di Pisistrato (come anche di altri tiranni dell’epoca) a un’affermazione pura e semplice dei diritti della popolazione urbana.
La creazione dei ‘giudici itineranti’ per i demoi dice l’attenzione di Pisistrato alla campagna (né in Attica alcun potere avrebbe avuto altrimenti una qualche possibilità di successo), ma la creazione delle grandi Dionisie cittadine significa che Pisistrato mirava in generale a un coagulo degli interessi della campagna e dell’asty , a un rafforzamento dei momenti di unificazione della città nella sua interezza.
Che quindi il culto di Dioniso abbia radici nella campagna è innegabile, ma proprio l’istituzione delle feste Dionisie cittadine significa l’intento di Pisistrato di cementare l’unità della polis, pur su una base di religiosità e cultura agraria.
Pag. 242-43

Questo rapido profilo di storia spartana del sesto secolo (nel quale va collocata anche la guerra condotta in aiuto agli elei contro i pisati per il controllo della Pisatide, e perciò del santuario di Olimpia, che si svolse storicamente a vantaggio di Sparta, di cui gli elei diventavano i fidi alleati, mentre conquistavano per sé la montuosa Acrorea al confine con l’Arcadia, e la Trifilia tra Pisatide e Messenia) ha il fine di delineare il contesto per la formazione della Lega Peloponnesiaca (“gli spartani e i loro alleati [symmachoi]”).
Di essa, la prima attestazione sicura (riunione del sinedrio della Lega) è del 506 a. C. (Erodoto, 5. 91-93, cfr. 74-76?); ma si ritiene ragionevolmente che il 524 (anno dell’intervento di Sparta a fianco dei corinzi contro Policrate tiranno di Samo) rappresenti un terminus post quem o a quo: si è pensato al 560 circa (Wade-Gery) o al 535-524 (Moretti).
La Lega presenta un rapporto egemonico lasso; qui vige il principio dell’autonomia: niente tributi, o tributi fissi, niente guarnigioni spartane nelle città alleate; rappresentanza dei membri nel sinedrio federale; decisioni a maggioranza.
Proprio per questo la ricerca dei suoi precisi inizi è difficile e forse poco opportuna, poiché in definitiva la Lega è da considerarsi nata sul terreno delle intese di fatto e gradualmente crescenti.
La ricerca di una data precisa per la nascita di un organismo che ai suoi inizi si pone come coordinamento di fatto, in graduale sviluppo, tra città che conservano, pur intorno alla guida spartana, un ruolo notevole, sembra rispondere a un formalismo eccessivo, sempre difficile da soddisfare nell’ambito della storia greca, e in modo particolarissimo in un contesto in cui i rapporti non sono di puro dominio.
Insomma, quello della nascita della Lega non è un problema distinto da quello degli effettivi risultati, diretti e però anche indiretti, delle guerre spartane di sesto secolo; e in sendo lato la metà del secolo è un contesto cronologico adeguato.
Si saranno accostate a Sparta non solo le città dell’Arcadia o del Peloponneso sud-orientale, ma anche quelle dell’Akte argolica, come Ermione, Epidauro, indifferenti del predominio argolico, inoltre Egina, Corinto, ecc.
Qui Sparta sperimentava uno strumento di difesa, ben diverso dal dominio ferreo esercitato in Messenia; per questo, l’invasione dell’Attica, dovuta a iniziativa spartana, poteva avvenire anche in presenza di un organismo federale già esistente, che per l’occasione niente però imponeva o raccomandava di convocare e utilizzare.
Si profila dunque una forma particolare della politica estera greca, in questa politica spartana.
Pag. 245-46

Note integrative

Nei secoli dell’arcaismo alto e medio, la cultura ionica aveva prodotto l’épos, l’elegia, sul piano letterario; prime esperienze di architettura templare (lo Heraion di Samo forse già a fine nono-inizi dell’ottavo secolo, l’Artemision di Efeso nel settimo), modelli urbanistici (Mileto, Smirne), e così via di seguito: altrettante espressioni di vitalità di quelle poleis, in un periodo di grande e generalizzata crescita delle città greche.
Al sesto secolo appartengono quelli che vengono spesso considerati come gli albori del pensiero greco, gli inizi della riflessione filosofica.
Oggi si è più cauti nell’attribuzione dell’impegnativa qualifica di ‘filosofo’ a pensatori che appaiono piuttosto come i fondatori di un metodo sperimentale, attraverso il quale si ricerca il principio generale delle cose, l’origine dei processi attraverso i quali si realizza la struttura dell’esistente, dunque il principio stesso della physis (natura).
I naturalisti milesii sono quindi degli osservatori della natura, dotati di un’esperienza e di interessi di tipo tecnico, e impegnati in attività politiche (il che non trasforma in un dato di immediato interesse per la città, in quanto tale, l’oggetto delle loro ricerche).
Talete è capace di speculazioni di carattere tecnico, come propriamente finanziario, sui torchi per le olive; è informato della geometria egiziana e sembra non aver ancora scritto nulla, pur se formula teorie generali, come quella che fa dell’acqua il principio di tutte le cose.
A un più alto livello teorico, cui corrisponde tra l’altro l’uso della scrittura, si colloca la riflessione di Anassimandro, la cui concezione della natura ruota intorno al concetto di Apeiron (indefinito), definisce la realtà come un gigantesco processo di trasformazione e compensazione nel tempo, ed è autore di un pinax (tavola) geografica del mondo conosciuto.
Anassimene mette fondamentalmente in gioco la nozione di “soffio vitale” (naturalisticamente, di “aria”), per rispondere ad analoghi quesiti.
Grandi individualità di tecnici, sperimentatori, osservatori, pensatori, che appaiono in qualche misura culturalmente apparentati (pur facendo le debite distinzioni tra le espressioni razionali, che essi rappresentano, es espressioni meno razionali)con le figure dei grandi saggi (o sciamani) dell’area microasiatica settentrionale (Aristea di Proconneso) ed egea, a cui appartiene il cretese Epimenide (fine settimo-sesto secolo) e apparterrà, in pieno e avanzato sesto secolo, lo stesso Pitagora, che sembra nativo di Samo e oriundo di Lemno.
Naturalmente la riflessione dei naturalisti ionici non è solo sperimentazione e rottura critica con la tradizione; nasce nel solco della stessa tradizione cosmogonica e teogonica, che da Esiodo (settimo secolo?) giungerà a Ferecide di Siro, che nella triade Zas Chronos Chthonia individua i tre principi del reale, il fuoco, il tempo, la terra.
La critica sferzante delle rappresentazioni religiose tradizionali, come dei comportamenti dell’aristocrazia della sua città, caratterizza la poesia di Senofane di Colofone (circa 570-480?), che, dopo l’avvento del dominio persiano nella Ionia, lascia la sua città per l’Occidente, cioè per una città, Elea, fondata anch’essa da fuggiaschi intolleranti del dominio persiano; di Elea Senofane scrive una ktisis in versi.
Si verifica dunque, dopo il 546, una significativa diaspora di importanti personaggi della cultura ionica, che sarà decisiva per la storia culturale della grecità d’Occidente, quando si pensi ai rapporti tra la riflessione di Senofane, nella ricerca dell’unità di fondo delle rappresentazioni umane (viste già in chiave extracittadina) e quella di Parmenide sull’essere.
Altra notevole espressione della cultura ionica, pur se con sue particolarissime caratteristiche, è Pitagora: ancora una volta una fuga di matrice politica, anche se in questo caso si tratta di ribellione alla tirannide di Policrate.
Di lui si conoscono l’arrivo a Crotone (circa il 530 a. C.); la creazione di uno o più gruppi di ‘amici’, dapprima a Crotone e forse anche a Metaponto; una riflessione teorica e politica, ma anche pratica e tecnica, che investe la sfera della società e dell’economia, l’aritmetica, la geometria, la musica, la medicina, la dietetica.
Pitagora riassume in sé tutte le esperienze greche ‘di frontiera’: gran parte della sua sapienza gli deriva dall’Oriente, cioè dall’Egitto come dalla Mesopotamia e dalla Persia, ma anche da altre regioni del mondo barbarico, quali la Tracia o la Scizia; a Oriente si può dire che gli impari, mentre ad Occidente egli insegna (nella tradizione, che amplifica a dismisura i suoi contatti e l’efficacia della sua scuola, egli insegna a tutti i popoli barbari dell’Occidente).
Maestro di dottrine etiche, è però sin dall’inizio sentito come poco interessato alla elementare verità dei fatti, la verità storica, possiamo ben dire, che rigorosamente distingue tra tempi, luoghi, soggetti; e si fa invece interprete di stimoli di matrice mistica e irrazionale, che nell’ambiente ionico più razionalisticamente improntato suscitano l’accusa di una sinistra propensione al falso.
La sua concezione politica fu aristocratica, perché ispirata all’idea del gruppo chiuso, del gruppo di consiglieri appartati (se non occulti) delle autorità cittadine; d’altra parte, l’aristocrazia pitagorica, in quanto ideologica, non è aliena da concezioni rigorosamente ugualitarie, di marca spartana.
In significativa contemporaneità con l’esperienza pitagorica (che si consuma però prevalentemente in Occidente, dove rivela, pur attraverso le temporanee eclissi, una incredibile vitalità, e che conosce comunque una forte rivitalizzazione in Platone e nel platonismo), si colloca la nascita della storiografia ‘critica’ (non dunque pura memoria celebrativa), anch’essa riconducibile, nelle sue primissime espressioni, ad area ionica (Ecateo di Mileto).
Essa ha tuttavia paralleli molto importanti nel continente (Acusilao di Argo, Ferecide di Atene), una prosecuzione di grande respiro nell’opera di Ellanico di Mitilene, e un decisivo salto di qualità in quella di Erodoto di Alicarnasso.
Tipico apporto ionico è la vastità dell’orizzonte geografico e storico dell’opera dei prosatori (logografi) di matrice ionica e, più in generale, egea.
La logografia ionica appare del resto come un momento decisivo nella presa di coscienza del ruolo della scrittura, nei confronti della tradizione orale (in questa luce ben s’intende il valore latamente rivoluzionario, dell’opera di Ecateo, che nel fr. 1 delle Genealogie esordiva con un grapho (scrivo): “scrivo le cose, come sembrano a me vere, poiché i logoi (discorsi) dei greci sono molti e risibili”).
Nello stesso filone critico s’iscrive, e a un gradino più rilevato, Eraclito di Efeso (fine sesto-inizio quinto secolo), con le sue veementi bordate contro Esiodo, Senofane, Pitagora e lo stesso Ecateo (segno del fatto che lo spirito critico equivale a un nuovo tipo di rapporto intellettuale fra gli uomini, che opera in una molteplicità di direzioni).
Pag. 252-254

Erodoto resta in definitiva la vera cartina  di tornasole dei rapporti storici più significativi tra i popoli e regni orientali e il mondo greco in quanto mondo delle poleis.
Certo, arrivava fino alla coscienza dei greci l’immagine di grandiosità di alcuni regni stranieri o l’impressione per le grandi catastrofi storiche che li avevano riguardati: ma queste reazioni dell’opinione greca poco cambiano delle fondamentale estraneità delle storie.
Pag. 256

Nonostante la menzione della spedizione di Sennacherib (2. 141), nel libro egiziano Erodoto non conserva una chiara memoria del dominio assiro in Egitto: questo la dice lunga sulla profonda separazione della storia greca da quella assira.
Ora, Ciro il Grande pose fine al regno neobabilonese, sorto dopo l’abbattimento della potenza assira, con la conquista della Babilonia nel 359; impose la sua sovranità alle città fenicie; morì combattendo contri i masageti, al confine orientale dell’impero, lungo l’Oxos (od. Amu Darya).
A rafforzare il confine meridionale di quest’impero (il primo impero orientale che faccia sul serio con la pretesa di un dominio universale, traducendo questo in una rigorosa tutela del confine, il che equivale ad una sistematica e quasi indefinita espansione dei confini medesimi) provvide il figlio Cambise con la conquista dell’Egitto nel 525 a. C.
Cambise moriva nel 522 a. C., senza essere riuscito ad assoggettare Cirene o Cartagine, in Persia si svolgeva un’aspra lotta per il potere, tra l’elemento sacerdotale del culto zoroastriano (i magoi, guidati  da Gaumata, che si presentava come Smerdi, un figlio di Ciro 2., fatto uccidere da Cambise), ed elementi dell’aristocrazia iranica, fra i quali s’impose Dario, figlio di Istape.
Probabilmente, non ultima ragione del suo successo fu la decisa riaffermazione del potere monarchico, in un momento in cui forze diverse e di diversa collocazione sociale si contendevano il potere.
Il testo di Erodoto, 3. 80-82, un fittizio dibattito fr ai grandi di Persia sui pregi e i difetti delle tre costituzioni tipiche (la monarchia, l0oligarchia e la democrazia), è probabilmente solo una trascrizione in termini greci di un conflitto reale tra forze sociali e politiche diverse presenti nel mondo persiano, come ad es. gruppi sacerdotali e gruppi dell’aristocrazia militare e fondiaria, conflitto che poteva mettere in forse le basi stesse del potere monarchico.
L’impero persiano, nella coscienza e nella rappresentazione dei greci, in primis in Erodoto, diventa il modello storico dello Stato barbarico potente e in grado di minacciare i greci, di suscitarne i timori ma anche l’ammirazione.
Un modello, per la sua sistematica politica di espansione; per la sua struttura di efficienza organizzativa (ripartito com’era in 20 satrapie con funzioni amministrative e fiscali, rigorosamente definite); per la sua ricchezza (la cui quintessenza agli occhi dei greci, l’oro, si identifica con il mondo persiano, e insieme lo connota di barbarico).
La moneta d’oro per eccellenza, nota ai greci, è costituita, del resto, dai darici (dareika)  di 8, 42 g.; di corrispondente i greci hanno, e non a caso in area anatolica, gli stateri ciziceni (dalla città di Cizico, sul Mar di Marmara) in elettro.
Pag. 257-58

Nella madrepatria greca le più antiche coniazioni sono da attribuire ad Egina, con le sue famose ‘tartarughe’ (databili almeno prima del 550 a. C.); a Corinto, con i suoi ‘pegasi’; ad Atene, con le monete con l’emblema dell’anfora; seguono le cosiddette Wappenünzen (monete con simboli araldici), mentre solo più tardi sono coniati ed entrano in circolazione i tetradrammi con la civetta sul verso (glaukes).
Ma intanto, proprio per ciò che riguarda la data delle monete ateniesi, l’incertezza regna sovrana.
Non che manchi coerenza nelle fonti letterarie antiche: ma, accettandone il quadro, dovremmo in primo luogo ammettere che Solone (circa 594/593 a. C.) adottò misure e pesi diversi da quelli precedentemente sussistenti ad Atene; modificò cioè il precedente sistema, di cui s’attribuiva la paternità a Fidone, istituendo una dracma ‘leggera’, equivalente a 1/100 di mina, in luogo della dracma ‘pesante’, che equivaleva ad 1770; per conseguenza, dovremmo riconoscere che nel 594/593 la moneta aveva già una certa (non necessariamente una lunga) storia ad Atene: in concreto, per ciò che si riferisce alla moneta corrente (la dracma d’argento), una nuova dracma, leggera, che generalmente è chiamata dai numismatici ‘euboica’, subentrava alla vecchia dracma pesante (chiamata ‘eginetica’); e l’introduzione della moneta ad Atene cadrebbe al più tardi alla fine del settimo secolo a. C., forse anche un po’ prima (probabilmente però solo dopo il 650 a. C.).
Ma può essere così?
Pag. 260

Bibliografia

La politica di Solone / A. Masaracchia. – 1964
Storia e civiltà dei greci / F. Adorno. – 1978
Introduzione a i Pitagorici / B. Centrone. – Laterza, 1996
Il simposio nel suo sviluppo storico / D. Musti. – Laterza, 2001
Dalla premoneta alla moneta / M. Caccamo…et al. – 1992
Magna Grecia: il quadro storico / D. Musti. – Laterza, 2005

Cap. 4. La fine dell’arcaismo: l’avvento della democrazia, le guerre persiane

La parola d’ordine della riforma di Clistene è “mescolare”, rendere impossibile o inutile la ricerca delle origini familiari, classificare ciascuno secondo il demo, che è la cellula vivente dello “Stato”, che, attraverso lo strumento intermedio della tribù (costruita col massimo di astrazione possibile da vincoli familiari e rapporti di interesse), costituisce il quadro organizzativo fondamentale della nuova polis.
E’ istituito perciò un consiglio (boulé) dei Cinquecento, sorteggiati in numero di cinquanta per ciascuna delle dieci tribù: viene ora ad avere larghissima applicazione il titolo, altrimenti grandemente selettivo, di prytanis (alla lettera “primo principe”).
Quello che altrove è il titolo di un alto magistrato cittadino, ad Atene è il nome di ciascun membro del nuovo consiglio popolare: e la prytaneia (pritania) è al tempo stesso uan frazione di 1/10 dell’anno (35/36 giorni, nell’anno 12 mesi, o 38/39 nell’anno con mese intercalare), durante la quale la preparazione dell’ordine del giorno (programma) e talora di fatto le stesse funzioni consiliari (probuleutiche) sono curate da quella parte che sta per il tutto: la tribù (già ampiamente idonea a mescolare interessi e persone) può per un tempo determinato rappresentare la città.
Al calendario naturale, astronomico e, se si vuole, religioso (nel senso di una religiosità tradizionale), si affianca un calendario politico, scandito secondo il numero 10: e in ogni pritania ci sono un’assemblea principale, o ordinaria (kyria) e tre straordinarie.
Pag. 274-75

Si capisce quindi come Clistene escogitasse un sistema preventivo contro il pericolo della tirannide, istituendo l’ostracismo, cioè la procedura, molto semplice e democratica, attraverso cui si denunciava, in due tempi (nelle assemblee principali della sesta e dell’ottava pritania), il timore che qualcuno (dapprima, dunque, solo in termini generali) e poi semmai un determinato personaggio politico (questa volta il nome veniva scritto su un coccio qualunque, di un vaso rotto e ormai inutile) costituisse un periodo di tirannide per la democrazia.
La procedura fu applicata per la prima volta circa il 487, contro Ipparco di Carmo, della famiglia dei Pisistratidi: ma non v’è ragione di negarne la paternità a Clistene, allo spirito della cui riforma comunque esso ben corrisponde.
Pag. 276

Dal 506 gravi minacce si addensano sul capo della neonata democrazia ateniese.
Vecchi rivali si coalizzano contro Atene: Beoti e Calcidesi invadono l’Attica, ma sono respinti e di vedono poi sottoposti a un vigoroso contrattacco ateniese, che culmina in una clamorosa sconfitta di beoti ed euboici.
Poco dopo, gli spartani premono sulla Lega peloponnesiaca per un intervento contro il nuovo regime politico di Atene e per la restaurazione della tirannide di Ippia; ma i corinzi si oppongono, invitando gli spartani a una riflessione storica sui mali della tirannide.
L’opera di dissuasione ha successo: la democrazia ateniese respira e guadagna ormai il tempo per consolidarsi.
La restante Grecia accetta, un po’ rassegnata, che una forma politica del tutto nuova abbia diritto di cittadinanza e libero corso storico: in pratica, rinuncia ad interferire e si acconcia alla nuova situazione creatasi; turbata da forti diffidenze e timori, per il momento decide di stare a guardare.
Pag. 277

Con le conquiste di Ciro il Grande e del figlio Cambise l’Impero persiano aveva raggiunto dimensioni vastissime: tre milioni di chilometri quadrati, dalle coste occidentali dell’Asia Minore al Caucaso, al confine con l’India, all’Egitto.
L’avvento di Dario certamente introdusse nuove forme organizzative nella struttura dell’impero e un nuovo dinamismo nella sua politica verso l’esterno.
Al sovrano la tradizione (Erodoto, 3. 89 sgg.) attribuisce un’organizzazione amministrativa e fiscale dell’impero in venti satrapie, che consente introiti annui di 14560 talenti d’argento euboici.
Alla luce di questo sforzo organizzativo, e dei caratteri nuovi della politica di Dario, va anche giudicata la sua spedizione contro gli sciti, svoltasi intorno al 513, a circa otto anni dall’insediamento del re, e la sua stessa politica verso i greci, i cui eventi più significativi si addensano nella parte finale del suo regno, dal 500 al 490 circa.
Sembra difficile negare che questi importanti momenti della politica di Dario segnino un atteggiamento in qualche misura nuovo in tema di confini come di conquista, perciò della politica greca del re.
Tuttavia sarebbe anche erroneo istituire una netta contrapposizione tra la politica dei regni anteriori a quelli di Dario: le più grandi conquiste furono infatti realizzati sotto i primi o, ove si consideri la politica estera sotto  l’aspetto dell’espansione realizzata, il regno di Dario potrebbe, a conti fatti, rappresentare persino una battuta d’arresto.
Pag. 277-78

Le origini del conflitto greco-persiano vanno ricercate nelle condizioni dei greci della Ionia, nei loro rapporti con i dominatori persiani, nei loro malumori, in certe iniziative in parte infelici, come lucidamente vide e descrisse Erodoto, forte anche dell’esperienza di risultati ben diversi di conflitti greco-persiani di anni più recenti.
Pag. 279

Si è discusso a lungo se la rivolta degli ioni d’Asia contro la Persia sia motivata da insofferenza per lo sfruttamento economico, risultante dall’esazione del tributo da parte persiana, o da un desiderio di libertà: sembra chiaro che per i greci le due motivazioni siano strettamente intrecciate tra loro, e che il desiderio di libertà comporti anche libertà dal tributo, in cui si materializza la sopraffazione.
Non è poi da sottovalutare il fatto che si cadano creando coesioni, collegamenti, linee di influenza e di intesa.
Ciò non va confuso con un determinato sentimento nazionale, quasi fosse possibile parlare id una coscienza nazionale unitaria, politicamente operante: ancora la spedizione di Serse metterà in luce le articolazioni e divaricazioni profonde del mondo greco.
Pag. 280

Anno di preparativi per la spedizione punitiva contro ateniesi ed eretriesi fu il 491; quindi, nella primavera del 490, conducevano una flotta, dapprima verso le Cicladi, poi verso l’Eubea e l’Attica, Artaferne, nipote del re, e il medo Dati.
Nasso fu, questa volta, piegata e distrutta, le Cicladi si sottomisero; a Delo lo stesso Dati celebrò un solenne sacrificio.
Poi fu la volta di Eretria, presto conquistata e data alle fiamme, mentre i cittadini venivano trapiantati ad Ardericca, presso Susa.
Da Eretria il passaggio in Attica è rapido e facile, nella parte nord-orientale della regione, quella in cui, tra l’altro, aveva avuto le sue basi politiche principali Pisistrato (il padre di Ippia, che, dal suo possedimento nel Sigeo, aveva seguito i persiani e ne aveva guidato i movimenti).
A Maratona sbarcò un esercito di circa 20000 persiani; ad Atene si decise di uscire dalla cerchia delle mura (dein exienai, secondo il dettato del cosiddetto “decreto di Milziade”) e di diffondere il nemico a Maratona.
Fu l’affermazione, celebrata anche in una precisa prospettiva ideologica, della tattica oplitica: 6000-7000 opliti ateniesi, al comando del polemarco Callimaco e dei dieci strateghi fra cui Milziade.
I due eserciti si fronteggiarono per alcuni giorni: furono poi gli ateniesi, secondo Erodoto, ad attaccare, percorrendo tra l’altro di corsa, nonostante le pesanti armature, l’ultimo tratto che li separava dai persiani.
Di questi restarono sul campo 6400 uomini; dei greci solo 192, che furono sepolti nel celebre soros (tumulo): fra di essi il polemarco Callimaco.
Questo è il racconto erodoteo: e non c’è ragione di preferirgli la costruzione di Beloch, fondata su una rapida osservazione di Cornelio Nepote, Milziade 5, secondo cui furono i persiani a prendere l’iniziativa dell’attacco, perché timorosi dell’imminente arrivo degli spartani.
I persiani aggirarono subito con la flotta il capo Sunio; si aspettava l’esito ci intese con una parte ateniese connivente, probabilmente con gente amica dei Pisistratidi, benché l’accusa colpisse (ingiustamente, per Erodoto) gli Alcmeonidi.
 L’esercito ateniese era però già schierato sotto le mura; e i persiani non poterono che prendere la via del ritorno.
Pag. 282-83

L’anno successivo (488) si apre invece per Atene un altro conflitto, quello con Egina, preceduto da una guerra, combattuta forse dalla neonata democrazia circa il 506 a. C., e dimostrazione palmare di quel tharrein (prender coraggio), che Aristotele lucidamente attribuisce al demos, dopo la vittoria di Maratona.
E’ chiaro che Atene va maturando una coscienza diversa del proprio ruolo all’interno del mondo greco, coscienza che non è puramente e semplicemente di contrapposizione nazionalistica al barbaro, ma anche di costruzione di una propria potenza e di un proprio ruolo, in perfetto parallelismo con il formarsi e lo svilupparsi di un nuovo regime, di un nuovo clima e di una nuova coscienza politica all’interno della città.
La politica segue ormai ad Atene nuovi binari: quanto meno, appaiono indimostrabili quelle collusioni degli ultimi Pisistratidi con la Persia, che spesso si danno per scontate, sempre e solo sulla base di un nome, quello di Ipparco figlio di Carmi, che fu anche il primo degli ostracizzati nella storia di Atene.
Non si può considerare come segno di un orientamento filopersiano della politica di Atene la guerra contro Egina ed ammettere al tempo stesso un significato antipersiano della contemporanea espulsione di Ipparco (ca. il 487): il fatto è che ormai nella politica ateniese si era impiantata una logica nuova.
Pag. 284

Quanto a Temistocle, è vero che con la sua proposta comincia a prender corpo la politica imperialistica della democrazia ateniese, di cui Egina era stata solo un’infelice avvisaglia.
Aristide in questa fase è, con ogni verosimiglianza, contro la politica imperialistica in quanto politica di ‘sacrifici’.
A modificarne l’atteggiamento sarà la guerra contro i persiani, con la sua forza di fatto ineludibile, e la conseguente relativa facilità per Atene di darsi uno strumento efficace di potenza navale con il sacrificio, o almeno il contributo, degli alleati.
Non è dimostrabile, insomma che, anche nella sua primissima fase, la politica di Aristide sia antinavale in assoluto; è ben più probabile che in gioco fosse una concezione del sistema dei rapporti, e degli obblighi e diritti dei cittadini, all’interno della polis, cioè una maggiore attenzione al privato di tipo tradizionale, attenzione che in questo casi giocava anche contro la legge navale di Temistocle, che era invece assai più orientata verso un’idea di preminenza di quello che per Temistocle era l’interesse pubblico.
Pag. 287

Allo sfondamento della posizione delle Termopili faceva seguito il dileguarsi dei focesi, e la resa dei beoti e dei locresi opunzi; è incerto se Delfi, che prima dell’arrivo persiano aveva tenuto un atteggiamento di prudenza e di sostanziale cedimento nei confronti delle richieste del re, sia stata saccheggiata.
E’ certo invece e illuminante ai fini dell’intero problema della qualità della coscienza nazionale greca, che la spedizione persiana mette in luce diversità di comportamenti nell’ambito del mondo greco e il formarsi di una solidarietà forte piuttosto fra i greci delle regioni meridionali della penisola, che sono anche quelle in cui la forma cittadina ha avuto un maggiore sviluppo.
E’ insomma vero che si forma una solidarietà nazionale greca, ma è anche vero (ed è un dato fermo nel tempo) che questa solidarietà nazionale è assai lontana dall’identificarsi con l’intera area della grecità culturale e politica, ha invece l’asse portante in Atene e, per il momento, in Sparta: una situazione, questa, che prelude all’altra, in cui Atene diventerà la punta avanzata di tale coscienza, senza che vi si accompagnino reali progetti di unificazione politica della Grecia intera.
Pag. 290

La flotta greca si concentra a Salamina, al comando dello spartano Euribiade; quella nemica, dalle acque dell’Eubea, raggiunge il Falero.
Ateniesi, egineti e megaresi ottengono che i greci affrontino i persiani nel canale tra Salamina e l’Attica e non all’altezza dell’Istmo, che avrebbe garantito la sicurezza del solito Peloponneso.
Una sera di settembre del 480 la flotta persiana, che contava contingenti fenici e ionici, forza il canale, mentre truppe persiane sbarcano a terra, nell’Attica, e nell’isoletta di Psittalia (H. Gheorghios? o Lipsokoutala?), sita nel canale.
Lo scontro avvenne al mattino, sotto gli occhi del re, che aveva fatto installare il suo trono sulla costa ateniese: agilità, capacità di manovra, esperienza dei luoghi giocarono a favore della flotta greca, che riuscì a sospingere quella persiana verso la costa attica, che si trovava a Salamina, sbarcava ora a Psittalia, facendo strage della guarnigione persiana.
Pag. 291

Gli eventi che seguono sono storicamente dei più significativi.
Da un lato si verifica la ribellione di tutti gli ioni, l’abbattimento delle tirannidi filopersiane e l’inserimento delle isole di Samo, Lesbo e Chio nella Lega greca: in definitiva, nel 479 si realizzano i fini della rivolta di Aristagora del 499.
Ma, insieme, un importante passaggio verso l’esito imminente ed epocale del 478/477 (cioè verso la fondazione della Lega navale delio-attica) è costituito dall’andamento delle operazioni, e dai diversi tipi di comportamento tra i greci, nei mesi successivi alla battaglia di Micale.
Come. Sull’Ellesponto, Abido e Sesto erano ancora nelle mani dei persiani, la flotta greca si dirige verso la zona degli Stretti, ottenendo subito la defezione di Abido; ma con l’arrivo dell’autunno i peloponnesiaci se ne tornano a casa, lasciando il campo agli ateniesi, che assediano e poi prendono per fame Sesto (primavera 478), con la cooperazione degli ioni, che già in questa campagna risuscitano quel rapporto privilegiato con Atene che avevano avuto agli inizi della rivolta del 499.
Pag. 294

In definitiva, dopo gli anni (481-477) in cui aveva esercitato un ruolo fondamentale nella storia nazionale greca, Sparta, pur forte di grande prestigio fra i greci, rientra in una dimensione politica quasi regionale (che però è nella storia greca il dato più costante e caratteristico); Atene invece procedeva, in una lega di cui deteneva l’egemonia, per libero e autonomo consenso degli alleati ioni, ad un’organizzazione sistematica dei rapporti che si erano andati rapidamente annodando intorno alla città, in un processo che sembra presentare i caratteri di un fenomeno spontaneo e improvviso, ma che affonda invece le sue radici in tradizioni più remote nel tempo e nella stessa comunanza di vicende, saltuaria ma non casuale, tra Atene e il mondo ionico durante la rivolta dell’inizio del 5. secolo, con tutte le conseguenze che ne erano derivate alla città e alla Grecia intera.
Pag. 295

Il sesto secolo rappresenta il periodo di massima fioritura della Magna Grecia: al che corrispondono spinte espansionistiche, volte a modificare le delimitazioni areali originarie.
Se la nozione di Megale Hellas ha avuto realmente corso in epoca arcaica, il periodo a cui questa denominazione più si attaglia è certamente quello in cui le città achee si impegnarono a costituire un’area unitaria e a cancellare ogni traccia di intrusione.
Magna Grecia è nozione che fa pensare a una comparazione possibile, e forse neanche la più probabile: l’espressione può stare a significare il dilatarsi verso Occidente della grecità in quanto tale e, solo secondariamente, un’area coloniale specifica.
La ‘grandezza’ è al tempo stesso culturale e politica, secondo una concezione arcaica che certamente non conosce ancora l’opposizione di valutazioni materialistiche e spiritualistiche.
Se ebbe davvero corso prima di Pitagora, l’espressione tuttavia non poté non avere una rinnovata diffusione proprio in epoca pitagorica, quando alla fama delle città dell’Italia meridionale, e in particolare di Crotone e di Metaponto, tanto contribuì la presenza, la dottrina, l’opera, l’influenza culturale e politica del Maestro e dei suoi discepoli; molto improbabile invece che l’espressione sia nata alla fine del quinto secolo, quando le città achee conoscono un’ultima fase di riorganizzazione, ma si avviano già al declino.
Quando comparirà nei testi (Timeo?, Polibio), la definizione sarà solo un’espressione di nostalgia di una perduta e forse anche mitizzata grandezza.
Megale Hellas diventa dunque, presso gli autori del secondo e del primo secolo a. C., una denominazione che evoca il passato, e che al passato appartiene; è la celebrazione nostalgica di una grandezza che è stata e che or non è più.
Così si conclude la storia di una regione che all’origine (nel sesto-quinto secolo a. C.), era stata un ‘oggetto del desiderio’, e che alla fine (nel secondo secolo a. C.), soprattutto a seguito dell’invasione dell’Italia da parte di Annibale, e per le connesse distruzioni e rovine, era quasi completamente deleta, pur avendo ospitato una civiltà capace di grandezza, dal punto di vista culturale, materiale e anche politico.
Pag. 296

Nel 474, intervenendo a favore di Cuma, egli sconfisse duramente la flotta etrusca in una battaglia che ebbe conseguenze storiche decisive per i greci ed etruschi di Campania.
Nulla più che un episodio du l’installazione a Pitecussa (Ischia) di un presidio siracusano, presto rimosso a causa degli incessanti fenomeni tellurici; a Pitecussa sopraggiunse il dominio di Neapolis (città nuova), fondata sul sito dell’antica Partenope (ora divenuta Palaipolis, città vecchia), debba la sua fondazione all’impulso del tiranno siracusano.
Pag. 302

Nota integrativa

Come tutte le rivolte fallite, quella della ionia contro la Persia ha avuto nella letteratura storica giudizi severi, a cominciare da Erodoto, che ne ha ricavato, o almeno visto confermata, la sua convinzione del velleitarismo degli ioni.
La personalità di Aristagora appare la più esposta a una critica demolitrice; notevole il tentativo di difesa e riabilitazione operato da G. De Sanctis, legato alla convinzione che la rivolta ridestasse il ‘sentimento nazionale’ dei greci.
Più che mettere alla prova il criterio nazionalistico, che nel mondo greco può avere solo una temperata applicazione, serve interrogarsi sul coordinamento della rivolta, la coesione dei rivoltosi, la chiarezza sui fini da raggiungere; e che la rivolta sotto questi aspetti mostri gravi carenze, lo dimostra il dato ineluttabile della profonda disparità di opinioni fra i più illustri greci della stessa Ionia, o fra gli stessi milesii; Ecateo, ad esempio, era palesemente contrario.
E’ in discussione anche il tema della responsabilità, rispettivamente di greci e di persiani, nello scoppio dei conflitti che seguirono, tra il 492 e il 479, alla repressione della rivolta.
Che la Persia ambisse ineluttabilmente all’annessione della Grecia è tesi giustamente contestata da G. Nenci.
H. Bengston giudica giustamente indimostrabile, dal canto sui, la tesi che i persiani abbiano favorito di proposito sul piano commerciale i porti fenici a detrimento di quelli ionici (come riteneva Th. Lenschau), ma ammette che la conquista di Cambise chiudesse ai greci l’accesso commerciale all’Egitto e che la spedizione scitica di Dario minacciasse i traffici greci, e in particolare milesii, col Mar Nero.
Altro comunque è il problema dell’aggressività dei persiani verso la penisola greca, altro quello della responsabilità persiana verso il mondo greco in generale: è chiaro, dalla disponibilità all’emigrazione anche di uomini (come Ecateo) non favorevoli al conflitto con la Persia, che il dominio persiano sui greci di ionia, impiantatosi dopo la caduta del regno di Lidia, doveva apparire sempre più intollerabile.
Pag. 305

E’ innegabile che quei processi che in ambito greco condussero alla nascita della storiografia siano stati nella Ionia d’Asia più intensi che altrove.
Dei dodici archaioi syngrapheis, “antichi storici”, fioriti prima della guerra del Peloponneso, che Dionisio d’Alicarnasso ritiene di poter elencare nel Saggio su Tucidide, cap. 5, 5, ben nove provengono da città dell’Asia minore o isole vicine, due sono nativi delle Cicladi, solo uno, Acusilao di Argo, è originario di una città (dorica) della penisola greca.
All’ambiente ionico appartiene Ecateo, che, in una famosa definizione del lessico bizantino Suida, è considerato come “il primo che abbia pubblicato una historia in prosa”, e contrapposto a Ferecide, forse l’ateniese, che fu invece “il primo autore di una syngraphé” (anche se non sono impossibili più sottili implicazioni, sembra trattarsi di  un’antitesi tra la ‘vera e propria’ storia critica e una semplice esposizione complessiva o narrazione in prosa).
Di una città originariamente dorica, ma poi ionizzata, dell’Asia minore, Alicarnasso, e nativo Erodoto, il pater historiae della celebre definizione ciceroniana (De legibus 1. 1, 5).
Comunque, una caratterizzazione della storiografia greca come un prodotto esclusivo della cultura ionica va evitata.
Con il termine ‘logografi’ sono frequentemente indicati, nella letteratura moderna, gli autori di storie e di cronache fioriti anteriormente a Tucidide, gli storici cioè del sesto e del quinto secolo a. C., fino a Ellanico di Mitilene, con esclusione di Erodoto.
E’ stato più volte osservato, e ribadito anche il recente (von Fritz), che in Tucidide, 1. 21, 1, logographoi indica semplicemente i “prosatori” in quanto distinti dai poeti, e fra essi Tucidide sembra voler comprendere anche Erodoto.
“Logografo” non sta dunque a caratterizzare uno scrittore, che faccia uso di una tecnica particolare o che pratichi un ‘genere letterario’ realmente distinto da quella che potremmo chiamare la ‘grande storiografia’ del quinto secolo a. C., la storiografia ‘non locale’ (altro è il significato di logographos [nel quarto secolo], come “autore di discorsi giudiziari”).
Pag. 308-9

Di che tipo di materiale facevano uso i ‘logografi’?
Si trattava soprattutto di tradizioni orali o di testi scritti?
La nascita della storiografia è certo un momento della storia della cultura scritta.
Il primo verbo usato da Ecateo nelle sue Genealogie è grapho: “queste cose scrivo, come a me sembrano vere”; e il verbo è, in certa misura, in antitesi con la parola logoi, “discorsi, racconti” (un termine ambivalente, che indica innanzitutto i racconti orali, ma che per sé potrebbe anche indicare il contenuto narrativo di testi scritti).
Ciò che noi cogliamo in primo luogo nei frammenti conservati dei ‘logografi’, è certo la rielaborazione di tradizioni mitiche, genealogiche, etnografiche, che in larga parte, anche se non esclusivamente, erano mediate dalla tradizione epica, e poetica in genere; e il pieno affermarsi della cultura scritta (cioè la diffusione ampia della scrittura, e la funzione di principale e generale veicolo d’informazione e comunicazione che la scrittura assume) appartiene solo ad epoca più tarda, cioè alla fine del quinto secolo a. C.
Nell’insieme, è sullo sfondo di questa limitata diffusione e funzione della scrittura che va vista una teoria esposta da Dionisio d’Alicarnasso sulle origini della storiografia greca nel Saggio su Tucidide , capp. 5 e 7, secondo il quale gli archaioi syngrapheis sarebbero stati in sostanza degli editori di cronache locali.
Mi sembra che Dionisio prospetti un processo del genere: le tradizioni orali si depositano in memorie scritte (mnemai-graphai), cioè cronache locali conservate in archivi sacri e profani, commiste di elementi leggendari, che gli antichi storici pubblicano, lasciandole sostanzialmente invariate.
Egli descrive dunque un processo che si svolge in tre fasi: quella della diffusione orale di tradizioni miste di elementi mitici; quella della redazione in forma scritta, ma di una scrittura di tipo archivistico, cioè di scarsissima o nessuna ‘diffusione’; quella infine della diffusione nelle forme storiografiche primitive.
Dionisio ci parla da un’epoca (fine del primo secolo a. C.) di piena diffusione della scrittura, come mezzo di comunicazione; per questa ragione (e per altre ancora) il quadro che egli prospetta potrebbe contenere delle forzature; tuttavia, fermo restando l’idea di una funzione e diffusione limitata della scrittura in epoca arcaica, l’esistenza di cronache locali non pare impossibile, soprattutto in base a considerazioni di ordine comparatistico e alle analogie riscontrabili nel mondo orientale.
Il problema è aperto, anche se discusso da tempo: è noto come, proprio per l’Atthis, cioè la storiografia locale dell’Attica, Wilamowitz sostenesse, alla fine dell’Ottocento, l’ipotesi della derivazione dell’attidografia letteraria da una cronaca di esegeti, che sarebbe stata pubblicata circa il 380 a. C., ipotesi che Jacoby ha invece fortemente contrastato.
Le opere di Erodoto e di Tucidide, pur così radicalmente diverse fra di loro per il metodo storiografico ei criteri di scelta del contenuto, presentano almeno un punto in comune: sono il risultato del reperimento di un materiale in larga misura nuovo, cioè non depositato precedentemente in cronache o tradizioni locali in qualche modo codificate; tramite è la tradizione orale, in Erodoto anche quella di origine e provenienza remota, in Tucidide quella più direttamente verificabile, e relativa in prevalenza a fatti contemporanei.
La preferenza data da entrambi gli storici alla tradizione orale (a parte riserve di Tucidide sul quale v. pp. 452 sgg.) comporta nell’uno e nell’altro uno scarso gusto (certo più scarso in Erodoto che in Tucidide) per il reperimento del documento, della pezza scritta d’appoggio, su cui si fonda invece per lo più il metodo storiografico moderno (Momigliano).
Come del resto ha osservato lo stesso Momigliano, una storiografia, come quella erodotea, che si ispira ai criteri della historie (la ricerca critica), è programmaticamente, e di fatto prevalentemente, disancorata da tradizioni locali scritte, da cronache locali, dalla documentazione d’archivio.
La ‘grande storiografia’ greca, la storiografia non locale, quella che potremmo definire alla meglio come la storiografia ‘dei grandi conflitti’ (anche se questa definizione, proprio per Erodoto, va integrata e quindi modificata), farà scuola su questo punto.
La cultura greca esprimerà il gusto per il documento e per la ricerca d’archivio nel quarto secolo, soprattutto per effetto delle  ricerche svolte in ambiente peripatetico, e poi nei grandi centri di cultura e di erudizione dell’ellenismo; e nell’ambito della storiografia questo gusto per la ricerca libresca, d’archivio e di testi epigrafici, sarà per esempio espresso nell’opera di Timeo di Tauromenio (circa metà  quarto – metà terzo secolo a. C.); ma Polibio, il più insigne storico dell’età ellenistica, criticherà Timeo per il fatto che nello storico siceliota l’interesse per l’informazione documentaria appare scisso dall’esperienza militare e dalla visione diretta dei luoghi da descrivere (i due momenti che, nella metodologia storiografica polibiana, devono precedere lo studio dei documenti).
Lo scarso interesse dei grandi storici del quinto secolo per la documentazione scritta è in effetti l’altra faccia della loro esigenza di esperienza diretta delle cose narrate.
Eraclito aveva affermato che gli occhi sono testimoni più veritieri delle orecchie: Erodoto sembra condividere questa opinione (18,2); ciò non significa che egli non tenga conto delle tradizioni orali pervenute attraverso un lungo percorso orale (che sono gran parte della sua storia), ma che egli considera tanto più valida la sua testimonianza e quella altrui quanto più fondata su un’esperienza diretta.
Ecateo: figlio di Egesandro, nacque da famiglia nobile a Mileto, nella Ionia d’Asia, circa il 560-50 e morì circa il 490-80 a. C.
Ecateo fu un viaggiatore: di sue esperienze in Egitto, che dovevano stimolare in lui un atteggiamento critico verso le tradizioni mitico-genealogiche dei greci, racconta Erodoto (2. 143).
Il clima intellettuale della città natale e l’esperienza di vita si dovevano riflettere nelle due opere di Ecateo, di cui conserviamo solo scarsi frammenti: l’opera geografica, in 2 libri (Europa e Asia: per il secondo libro sussistono invero nella tradizione problemi di attribuzione), citata dagli autori antichi come Perieghesis o Periodos ghes (Descrizione o Circuito [Carta] della terra: per alcuni studiosi il secondo titolo indicherebbe specificamente la carta geografica collegata con l’opera), e a cui appartengono i più dei frammenti rimasti; e quella storica, più precisamente genealogica (indicata nella tradizione come Istoriai o Genealoyiai [forma ionica Gheneloyai] o Erooloyia, in 4 libri); le due opere furono composte tra il 520 e il 490 circa, forse nell’ordine di successione che abbiamo ora dato.
Del ‘razionalismo’ di Ecateo (F. Jacoby, FGrHist 1) si suol vedere una conferma nel disinvolto e accorto realismo dei consigli dati al tempo dell’insurrezione ionica contro la Persia, 499-494 a. C. (Erodoto, 5. 36; 125).
Complesso il rapporto di Erodoto con Ecateo, che è insieme di derivazione e di critica.
Erodoto: figlio di Lyxes (un nome cario), nacque intorno al 484 ad Alicarnasso, una città dell’Asia minore, fondata dai Dori, ma ionizzata nella lingua e almeno in parte della popolazione, al più tardi nel corso del sesto secolo.
Aristocratico di nascita, Erodoto conobbe ancora giovane l’esilio, dopo un tentativo di abbattere la tirannide di Ligdami: suo rifugio fu l’isola di Samo.
Circa il 455 contribuì alla caduta del tiranno.
Erodoto non visse a lungo nella città natale; oltre alle vicissitudini politiche di cui s’è detto, lo allontanarono da Alicarnasso i ‘grandi viaggi’ in quelle regioni del vicino Oriente (Egitto, Fenicia, Mesopotamia, Scizia) che descrive nella sua opera (avvenuti all’incirca tra il 455 e il 445); un soggiorno ad Atene e in altre città della penisola greca, in cui egli tenne letture (a pagamento, almeno in parte) delle sue Storie (si ricordano, accanto alle conferenze ad Atene, quelle ad Olimpia, Corinto, Tebe); un soggiorno a Turii, la fondazione panellenica nella Magna Grecia (444/3), ispirata da Pericle, della quale ebbe anche la cittadinanza.
Erodoto vide gli inizi della guerra del Peloponneso, e perciò morì non molto dopo il 431 a. C.
Le sue Storie, in 9 libri (ma la ripartizione è di epoca alessandrina, e forse ancor più tarda la designazione, già nota a Luciano, di ciascun libro con nome di una Musa), si sogliono comunemente considerare come una storia delle guerre persiane.
In realtà le guerre greco-persiane, quella del 490 e quella degli anni 480 e seguenti, sono narrate solo dal sesto libro in poi.
Ciò che precede, si presenta come una storia soprattutto dell’Oriente e della Grecia, dalla metà del sesto secolo in poi, sino all’insurrezione ionica compresa (con ampie digressioni etnografiche, sull’Egitto, sulla Sicilia, su Cirene ecc.), in cui un’essenziale funzione di limite storico è assolta dall’espansione persiana.
Nell’Ottocento si fondava una “questione erodotea”: che posto hanno le guerre persiane in un’opera così composita?
Si è sostenuto che l’opera risulti dalla fusione di varie monografie (logoi: è la teoria di Schöll, 1854, e di Bauer, 1878, poi perfezionata da Jacoby); che il tema sia quello di una storia persiana (Persika) in generale,  e dei vari popoli, nell’ordine secondo il quale vennero a conflitto coi persiani e ne furono assoggettati (De Sanctis), una storia che perciò culmina solo progressivamente nella narrazione delle guerre persiane; o che, nata da interessi geografici, sia maturata solo col tempo e in un’opera storica (von Fritz).
Oggi comunque l’apparente dispersione e complessità della storia erodotea viene piuttosto studiata con l’occhio rivolto al particolare tipo di storiografia che rappresenta (in cui l’oralità ha ancora il suo peso) e al pubblico vario a cui è destinata; si cerca più di apprezzare la ricchezza dell’informazione e il modo di procedere dell’esposizione (per associazione di idee), che commisurarla a rigidi canoni di unità e staticità.
Pag. 309-12

Si parla spesso delle guerre persiane come fattore decisivo nella formazione del sentimento di unità nazionale presso i greci.
Quanto queste proposizioni siano frutto di indebiti trasferimenti di nozioni moderne (e non-elleniche) al mondo greco, risulta già dalla semplice constatazione che, poco dopo, esplose (e coinvolse i greci) il conflitto fra Atene e Sparta; che Sparta non esitò a servirsi dell’aiuto persiano contro Atene nella guerra del Peloponneso; che la Persia influenzò le vicende greche per vari decenni del quarto secolo.
Di volta in volta, certo, alcuni greci combatterono contro i persiani, ma mai tutti i greci contro i persiani.
Vero è che le guerre persiane furono un eroico combattimento: in favore della libertà greca, che in quegli anni era minacciata da una politica persiana sempre arrogante e allora divenuta invadente.
Ma dire che, dopo Salamina e Platea, per 150 anni un esercito straniero non calpestò più il suolo greco (Bengston), lascia un po’ in ombra il fatto che la Grecia anche prima del 490, e per secoli, non era stata toccata da alcun esercito straniero.
Le condizioni per la coscienza di un Hellenikon, dell’”ellenicità”, s’erano date già molto prima, come somma globale della coscienza  di parentele culturali: si pensi al periodo della colonizzazione del Catalogo delle navi; al periodo in cui Archiloco parla di “miseria panellenica” (Panhellenon oizus) raccolta a Taso; al periodo stesso delle tirannidi (la gara, quasi panellenica, di pretendenti alla mano di Agariste): e così via di seguito.
Sono altrettanti indirizzi dell’esistenza di una ‘coscienza ellenica’, che le guerre persiane ribadirono (e non senza eccezioni e spaccature), ma non crearono per la prima volta né in forme radicalmente nuove.
Pag. 313

Bibliografia

Introduzione alle guerre persiane / G. Nenci. – 1958
La rivolta ionica / P. Tozzi. – 1978
Plutarco e il quinto secolo / M. A. Levi. – 1055
Temistocle, Aristide, Cimone, Tucidide di Melesia fra politica e propaganda / L. Piccirilli. – 1987
La spedizione di Serse da Terme a Salamina / G. Giannelli. – 1924
Tra Orfeo e Pitagora: origini e incontri di culture nell’antichità / a cura di M. Tortorelli… et al. – 1996-98
Poesia e pubblico nella Grecia antica / B. Gentili. – 1984
Società antica / D. Musti. – Laterza, 1973
Il razionalismo di Ecateo di Mileto / A. Momigliano. – 1931
Intorno al razionalismo di Ecateo / G. De Sanctis. – 1933
La composizione della storia di Erodoto / G. De Sanctis. – 1926
Il momento del classico nella grecità politica / M. Pavan. – 1972
La forma proemiale: storiografia e pubblico nel mondo antico / L. Porciani. – 1997
Prime forme della storiografia greca / L. Porciani. – 2001

Cap. 5. Il cinquantennio dall’età di Temistocle all’età di Pericle

Per pentecontaetia i moderni intendono il periodo di circa 50 anni che intercorre tra la fine delle guerre persiane (con la conseguente fondazione della Lega navale delio-attica) e l’inizio della guerra del Peloponneso.
L’espressione non è così antica, come può far ritenere il suo aspetto, né di uso così frequente ed univoco nelle fonti antiche come può far credere la sua diffusione nei testi moderni.
L’astratto pentecontaetia (“cinquantennio”) è anzi di uso rarissimo; nella storiografia di Diodoro Siculo appare l’equivalente concreto “periodo di cinquanta anni”; ma l’idea di considerare unitariamente quegli anni ricchi di eventi diversi e complicati, che investono teatri storici disparati, configurabili in fasi realmente distinte tra loro, è di Tucidide, perciò nel fondo antica e in parte, anche se solo in parte, giustificata.
Per Tucidide il periodo è un’ampia premessa alla narrazione della guerra del Peloponneso, la lunga gestazione dello scontro tra Atene e Sparta.
Al di là di aspetti particolari, e diversità d’opinioni possibili solo in questioni specifiche, il modo in cui Tucidide (nel primo libro delle Storie) rappresenta le vicende e le responsabilità storiche del cinquantennio di preparazione alla guerra del Peloponneso è alquanto chiaro.
In esso si mescolano (e sarebbe insensato tentare di distinguerle, contrapporle, privilegiare una sull’altra) due nozioni fondamentali.
L’una è quella secondo cui gli Stati tendono a crescere (auxanesthai) come esseri organici; se perciò in un determinato spazio storico, geografico, politico coesistono e concrescono due realtà di questo tipo, è anche una sorta di dato naturale, fisiologico, che esse si scontrino; ed è appunto quel che è inevitabile accada fra Sparta e il mondo peloponnesiaco da un alto, e Atene e il suo impero dall’altro.
Con questa concezione naturalistica di fondo (di radicale e fatalistico pessimismo) si intreccia una concezione, più critica, delle responsabilità di ciascuna di queste realtà: Sparta è la città che psicologicamente si configura come il mondo della conservazione, dell’avversione al nuovo, del timore di ciò che è diverso, distante, in movimento; Atene è la città del coraggio, dell’audacia, dell’iniziativa, dell’intraprendenza che sconfina nel gusto del rischio, dell’avventura, del nuovo e del grande, spesso del troppo grande.
Pag. 322-23

Secondo il giudizio di Beloch, Pericle aveva più qualità di ‘parlamentare’ che di ‘uomo di Stato’.
Appare evidente il significato che qui viene ad assumere la figura dell’uomo di Stato: essa è misurata nei termini della politica di potenza.
In Beloch operava anche una nozione negativa del parlamentarismo e dell’uomo politico in genere; per questo gli sfuggiva quello che è invece l’apporto specifico e più creativo di Pericle.
Si può dare a ‘Stato’ una nozione assai vasta, come comunità fornita di un suo autonomo potere, dotata di un suo territorio, di sue risorse, suoi mezzi di difesa o anche di offesa.
Ma si può proporre una nozione più restrittiva ed esigente, in cui la statualità è direttamente proporzionale alla definizione e al consolidamento di un sistema di funzioni e valori pubblici, che si forma, di fatto, proprio attraverso uan decantazione del pubblico (che è, evidentemente, al tempo stesso una decantazione del privato).
Il separarsi delle due sfere e il consolidarsi di quella pubblica sono da considerare, all’interno della storia politica greca, come il processo e il momento di formazione dello Stato, nel senso più rigoroso del termine.
Di questo processo certamente, nella storia greca, massimo fautore fu Pericle, come vedremo attraverso l’esame delle decisioni e innovazioni politiche più significative.
Dal punto di vista della politica estera, Pericle appare come un personaggio di più discutibile profilo, perché il suo periodo di governo ingloba il momento della maggiore espansione della Lega delio-attica, ma anche momenti di grave crisi interna, connessi con le ribellioni (451-440) di Mileto, dell’Eubea (Calcide ed Eretria), di Samo, e con l’avvio di un conflitto, la guerra del Peloponneso, che doveva produrre la scomparsa dell’impero medesimo.
La strategia di Pericle, di contenimento e logoramento dell’avversario, ebbe pochissimo tempo per esplicarsi, dato il rapido sopravvenire della morte dell’uomo politico (nel 429), nel corso della peste scoppiata ad Atene nel 430.
Poté così restare, consegnato alle parole di Tucidide e alle pagine di altri scrittori, il dubbio circa gli esiti che avrebbe avuto la guerra tra Atene e Sparta, se nel corso degli anni fosse  stato dato semplicemente seguito alla strategia di Pericle.
Ma né oggi né ieri la storia, cioè la ricostruzione storica, si è potuta fare con i se; e nella storia resta più la responsabilità di Pericle, di aver voluto o aver fatalisticamente accettato lo scontro globale con Sparta, che non il merito di una conclusione politicamente buona.
Pag. 336-37

E tuttavia va detto qualcosa di più sul problema del predominio del politico, poiché questo c’è si, nella polis del quinto secolo (come anche del quarto), ma solo a livello ideologico.
Infatti, l’ambito del privato si configura come il regno dell’individuale (o familiare) e del diverso, e anche della divergenza; così come il pubblico si presenta coem il regno dell’uguaglianza e dell’omologia.
Due cose distinte e diverse, dunque, in prima istanza; eppure due cose che debbono essere messe in rapporto e d’accordo, fra loro, nella visione periclea.
Ed è qui, solo qui, solo a questo punto che appare il famoso (ma bisognoso di corretta definizione) ‘predominio del politico’.
Infatti il problema storico che si pone per Pericle è quello di conciliare, di raccordare, di armonizzare; ma poiché il luogo privilegiato dell’accordo, della concordia, dell’omologia è per definizione (definizione di Pericle, in primo luogo) quello del politico, per questo il risultato complessivo (ma storico e mediato) porterà il segno del politico.
Lo Stato pericleo si incaricherà quindi, in quanto realtà politica, di realizzare l’accordo e l’armonia (il consenso dunque) tra il mondo del diverso e del conflitto, che è quello del privato e dell’economia, e quello dell’accordo e dell’intesa, a cui corrisponde la sfera dei diritti politici generalizzati, la sfera del pubblico.
In parole povere, e riducendo all’essenziale: le leggi, nello Stato pericleo, consentono di essere ricchi (e di arricchirsi); ma sono appunto le leggi che lo consentono.
Tuttavia, poiché siamo su un terreno di sviluppo storico, che la ricerca degli elementi sistematici non dovrebbe mai farci dimenticare, bisogna attenuare l’impressione che il valore del pubblico proprio della democrazia periclea sia storicamente qualcosa di radicalmente nuovo: lo è, in quanto a sua volta ‘liberato’ dal sociale, cioè dalle vecchie distinzioni aristocratiche secondo connessioni familiari e rango economico, e in quanto definito in nuove istituzioni; ma è anche vecchio, perché esso è anche l’estensione e lo sviluppo (in altro ambito e in diversa misura e con diversa qualità) del vecchio valore ugualitario dell’isotes, e di valori omogenei, prodotti dalle precedenti comunità aristocratiche.
Direi però che questo è l’aspetto più noto dei nostri studi di storia greca.
E’ più stimolante invece considerare l’aspetto correlato: il privato della democrazia greca è sì in gran parte il privato tradizionale, quello della proprietà e del privilegio, che Pericle lascia di fatto in vita, ma è anche (segno dei tempi nuovi, del clima culturale nuovo che alla democrazia periclea si accompagna) un privato di tipo molto individuale, quello dei nuovi bisogni, di un’educazione più ricca e di un uso libero della mente come del corpo: sì, anche del corpo, quale Pericle rivendica (diciamolo a scanso di equivoci modernizzanti) in antitesi all’educazione militaristica spartana, che vincola il corpo al di là di quel che gli ateniesi ammettono per sé.
Questi, secondo ciò che dice Pericle, sanno  goderne liberamente, e senza inutili costrizioni, e però sanno anche, al momento opportuno, combattere e morire per la propria città.
Il valore politico appare qui ancora una volta come una sorta di terminale ideologico, che alle spalle si lascia però, nella realtà conosciuta e accettata, un forte spazio disponibile.
Pag. 339-40

Non tutte le spedizioni ateniesi in direzione di Cipro significano la potenza e l’iniziativa di Cimone, anche se è vero l’inverso, che cioè Cimone, già all’epoca della battaglia (o delle battaglie) dell’Eurimedonte (470?) e poi ancora alla fine della sua vita (451-449), mostra interesse a interventi nell’isola in chiara funzione antipersiana, complessivamente nazionalista, in coerenza con i principi della sua politica estera.
La prima spedizione ateniese contro Cipro veniva antedatata da Beloch, convinto che la si dovesse connettere con un’iniziativa di Cimone: ma la meccanicità del criterio, e il silenzio di Tucidide, interessato, per affinità ideale e legami di parentela, alle azioni di Cimone, inducono a rigettare un collegamento di questo con la spedizione ateniese a Cipro e in Egitto degli anni 460/459 e seguenti.
Alla spedizione in Egitto si attribuisce di solito una finalità di ordine economico: la conquista di un paese produttore di grano.
Non siamo certo di coloro che negano che nella storia il movente economico svolga un ruolo importante; tuttavia, proprio in questo caso sembra diversa la dinamica del conflitto.
Inaro, principe dei Libii ai confini con l’Egitto, invita a intervenire in Egitto gli ateniesi, che si accingevano ad attaccare Cipro con 200 navi.
In primo luogo, dunque, la spedizione d’Egitto fu determinata da un’occasione presentatasi in un contesto diverso.
L’attacco a Cipro rientrava nel quadro di una liberazione del Mediterraneo dai persiani e la rivolta dell?Egitto offriva innanzi tutto l’occasione per completare l’opera.
Pag. 346-47

E’ l’inizio di quella che nei manuali viene spesso indicata come prima guerra del Peloponneso.
L’espressione è impropria e fuorviante, rispetto al vero significato della Guerra del Peloponneso per eccellenza, l’unica guerra nota con questa definizione alla tradizione antica.
Il significato di quel complemento di specificazione (“del Peloponneso”) è che si trattò della guerra portata dai peloponnesiaci contro Atene: quel genitivo è un genitivo (come ben osserva Pausania in un passo, 4. 6,1, che confronta la definizione con altre di tipo oggettivo, quale ad esempio “guerra di Troia”, la guerra cioè che ebbe Troia come oggetto e teatro degli scontri).
Parlare di una prima guerra del Peloponneso, per una serie di conflitti tra Atene e Sparta (459-446), che per la massima parte ebbero come teatro il Peloponneso, significa dunque pregiudicare – e in senso improprio -  il significato autentico dell’espressione Peloponnesiakos polemos.
Quest’ultima è definizione, per la guerra scoppiata nel 431 a. C., largamente diffusa nei testi antichi, che trae però la sua origine dall’impostazione stessa di Tucidide: infatti, a parte il complesso problema delle responsabilità ultime, per Tucidide non sussiste dubbio sul fatto che, ad aprire le ostilità nell’immediato, fu appunto la Lega peloponnesiaca, capeggiata da Sparta.
La guerra del Peloponneso è insomma per lui una guerra che viene portata dal Peloponneso contro l’Attica.
Pag. 348-49

Più difficile delineare la politica ateniese nelle regioni del Mediterraneo occidentale.
I racconti centrati intorno a grandi personalità, anche se inseriti nel contesto di opere a carattere storico e non specificamente biografico, ricevono, dalla stessa cornice in cui si trovano collocati, caratteri di continuità; per i moderni è quindi, tutto sommato, facile raccogliere le spedizioni ateniesi nel Mediterraneo orientale intorno all’iniziativa di un personaggio, visto che la storiografia antica ha già preparato il terreno in questo senso.
Per le stesse ragioni, è difficile tracciare una chiara linea di sviluppo della politica e delle imprese di Atene in Occidente.
Si questi fatti le fonti sono eterogenee (scarsi cenni letterari, che si presentano come rinvii casuali da fatti successivi) o epigrafi di non facile datazione, o non chiare nella definizione del carattere di novità o di ripetizione dell’alleanza che registrano.
Negli anni Cinquanta Atene persegue una politica di intese con gli elementi non greci (anche se grecizzati) della Sicilia occidentale (gli Elimi di Segesta, con cui stipula forse un’alleanza nel 458/457 o 454/453), con città non doriche di Sicilia (Leontini) e d’Italia (Reggio, le cui vicende tradizionalmente si mescolano con quelle della città di Sicilia).
A questo ambiente si rivolge l’iniziativa dell’invio di una flotta da parte di Atene nel golfo di Napoli, in data non definibile.
Di spiriti diversi sarà l’iniziativa della fondazione della colonia panellenica di Turii nel 444/443.
Le imprese degli anni Cinquanta sono dirette anche verso regioni lontane da Atene: Egitto e Sicilia, due sogni grandiosi, che danno la misura di una ricerca del ‘grande’, nello spazio come nella mole dell’impresa, in piena corrispondenza con quel clima di esaltazione della democrazia ateniese, che si avverte nella politica come nella psicologia di massa (le prospettive di acquisizione di aree granarie restano per ora forse solo all’orizzonte).
Nonostante lo scossone, risultante dalla sconfitta in Egitto nel 454, i piani grandiosi non vengono ancora meno.
Pag. 351-52

Atene diventa ormai la portatrice dell’idea democratica: un atteggiamento che accentua il conflitto ideologico, la creazione di fronti contrapposti nel mondo greco.
Non bisogna evidentemente immaginare (ciò che abbiamo già detto lo dimostra) che Atene esportasse la democrazia univocamente in tutte le direzioni.
Le distanze contano, e con esse le coerenze geografiche: in Eubea (con maggiore intransigenza) come in Beozia, come forse a Megara, Atene ha cercato, già negli anni tra Enofita e Coronea, di esportare il regime democratico.
A maggior distanza l’irradiazione è meno sistematica, ma i tentativi (o le tentazioni) non mancano.
Dice la diversità e gradualità delle interferenze la complessa vicenda della ribellione (sarebbe meglio dire ‘delle ribellioni’) di Samo tra il 441 e il 439.
Ma è la seconda metà degli anni Quaranta il periodo in cui si consolida la politica sociale di Pericle, l’attività nel campo dell’edilizia pubblica, la costruzione dello Stato sociale, la democrazia nautica, la ricerca di una centralità per Atene nel mondo greco.
Come il modello si rafforza, l’opposizione interna cresce.
Ma Pericle è ancora in grado di vincere: di qui, l’ostracismo di Tucidide figlio di Melesia, probabilmente nel 444/443.
Le iniziative di politica estera sono meno ispirate a mania di grandezza: nel 444/443 viene fondata, sul sito dell’antica Sibari, una colonia panellenica.
Sulle dieci tribù, che rappresentano l’impronta attica più evidente, solo quattro, l’Atenaide, la Iade, l’Euboide e la Nesiotide, richiamano Atene e il mondo ionico; tre sono del Peloponneso non dorico, l’Arcade, l’Acaide, l’Elea; due, forse tre, della Grecia centrale, la Beotica, l’Anfizionica, e la Doride, come credo, e non ai dori del Peloponneso).
Il sito è lontano, ma l’atteggiamento non è di mera conquista e di sfida al restante mondo greco.
Ma entro l’impero navale i contorni della politica di dominio, della lotta ideologica, dell’immagine nuova di Atene da proiettare verso l’esterno e verso l’interno, si fanno più netti.
Si è parlato spesso di un imperialismo pacifico che seguirebbe, dopo la pace trentennale del 4467445, a un imperialismo aggressivo, bellicista.
Forse è più giusto parlare di un imperialismo più duro all’interno dei confini dell’impero, e ideologicamente più connotato, che succede a un espansionismo, degli anni fino al 446, che agli antichi (e talora anche a noi) appare alquanto megalomane e dissennato.
Si vanno determinando le condizioni di una spaccatura netta, politica e ideologica, all’interno del mondo greco.
In termini di storia culturale, è anche il vero periodo ‘classico’ della storia greca: dove il momento del ‘classico’ coincide, nei suoi pregi e nei suoi costi, nel bene e nel male, con quello delle grandi divaricazioni, delle rigorose decantazioni.
Pag. 355-57

Non si può costruire la storia politica e ideologica di questi anni, complessa nei particolari ma chiara negli sviluppi complessivi, su una considerazione rigidamente formalistica dell’uso di demos e democrazia, rispettivamente.
La presenza della seconda parola è certo argomento più forte; quella di demos resta più ambigua, anche se può essere una semplice variante.
L’elaborazione dell’idea democratica come segno di contraddizione compie un netto passo in avanti intorno al 440, ma è già una realtà negli anni che immediatamente precedono.
Il sistema fondato da Pericle portava in sé i suoi rischi e le sue contraddizioni.
La parabola politica percorsa da Pericle è quella di un leader democratico in grado di controllare il rischio di un declino del favore popolare, quando (come è nel 430) Pericle chiede al popolo ateniese vistosi sacrifici in guerra, senza evidenti vantaggi o sbocchi positivi.
Pag. 358

La politica di Pericle sembra piuttosto configurarsi come un complesso sistema, che innovò per alcuni aspetti, conservò per altri, e verso cui si fece comunque sentire profondamente un’opposizione conservatrice, quale si esprime, con un alto grado di probabilità, nella Costituzione degli ateniesi pseudo-senofontea.
Naturalmente si poteva anche dare una qualche strumentalizzazione, ad opera di oppositori di parte conservatrice, proprio degli atteggiamenti tradizionalistici della grande massa.
In questo potrebbe risiedere la genesi delle accuse di empietà (asébeia), rivolte ad Anassagora, il filosofo di Clazomene, teorico del nous (la mente) come principio universale, amico e maestro di Pericle e degno rappresentante di quell’impulso razionalistico che il secolo della democrazia conosce, al tempo stesso promuovendolo e mettendolo a frutto.
A muovere le accuse fu un chresmologos (raccoglitore e interprete di oracoli), degno rappresentante di una religiosità popolare delle più tradizionaliste e retrive, Diopite (forse attivo a Sparta circa il 400 a. C. nel diffondere oracoli contro lo zoppo Agesilao).
Le accuse sono assai simili a quelle che circa il 400 a. C. saranno mosse a Socrate.
Anassagora si sottrasse alla condanna abbandonando Atene e ritirandosi a Lampsaco, in Asia minore, nella regione, anche se non nella città, da cui proveniva (vi morrà nel 428).
A lui, nativo di una città dell’impero, Atene aveva aperto le porte, in quel clima di larga circolazione di uomini e di idee, che l’Impero ateniese aveva creato.
Pag. 359-60

Non convince del tutto, in queste condizioni, la definizione di Pericle come “re non coronato” di Atene.
In tutti i suoi sviluppi l’età di Pericle appare come quella in cui i meccanismi di una democrazia autentica vengono lasciati funzionare, almeno in linea di principio, in quella autonomia che ne è la quintessenza.
Pericle cerca di bloccare i singoli sviluppi, ma non sembra aver mai rimesso realmente in discussione i principi stessi.
Socialmente questi meccanismi, una volta introdotti, potevano portare alla ribalta uomini come Cleone: Pericle potrà non aver gradito esiti del genere, ma era certo ben consapevole che il suo sistema comportava, tra le diverse possibilità, anche questa.
La risposta di un democratico alla Pericle poteva solo essere quella di chi cerca di far sì che, dal campo di possibilità una volta posto in essere la democrazia, emerga questo determinato sviluppo concreto e non quello, lasciando però che il campo di possibilità uan volta creato sussista per intero.
Se, d’altra parte, Pericle avesse subito una vera opposizione popolare, nel segno di una contrapposizione ideologica, e questa si fosse sommata con l’opposizione conservatrice, egli non avrebbe continuato ad essere eletto annualmente stratego, come fu invece anche dopo il ritorno dell’ostracismo di Tucidide di Melesia (4337432), un rientro che avrebbe dovuto operare la combinazione e la sommatoria delle due opposizioni presenti.
Il primo vero conflitto col popolo produrrà solo nel 430, quando i ‘sacrifici’ della guerra faranno individuare (e neanche del tutto a torto) un capro espiatorio in Pericle, che viene deposto dalla strategia, per essere  però subito rieletto stratego nel corso del 430/429.
La peste lo stroncò nell’esercizio di una ormai pluriennale funzione.
Pag. 363

Nota integrativa

In tema di migrazioni culturali significative, dopo la diaspora di eminenti personalità della cultura ionica verso Occidente, avvenuta per effetto della conquista persiana della Lidia (546) o della restaurazione seguita alla repressione dell’insurrezione ionica (494/493), il movimento più cospicuo è quello dell’afflusso di intellettuali ad Atene, quale si determina dopo le guerre persiane e soprattutto nel clima della democrazia efialteo-periclea.
Atene diventa un centro capace di richiamo per gli uomini e le espressioni culturali più diversi, un ambiente intrinsecamente cosmopolita, dove l'intellettuale viaggiatore sa di poter trovare ascolto, e occasioni di incontro e di confronto.
Le provenienze sono le più disparate: da centri dell’impero navale, come da regioni del Peloponneso meno soggette (o non soggette) al controllo spartano, o da centri dell’Occidente greco meno legati alle città della lega peloponnesiaca.
Da Clazomene giunge, intorno agli anni Sessanta, Anassagora, il teorico del nous (la mente) della forza determinante che produce le distinzioni all’interno della mescolanza del chaos; la sua riflessione rappresenta il punto d’arrivo (e insieme il superamento) del naturalismo ionico, nella direzione di un intellettualismo e id un razionalismo, che contribuisce (e al tempo stesso corrisponde) alle caratteristiche culturali di fondo della democrazia periclea.
L’ultima fase periclea e il periodo della guerra archidamica  e delle connesse convulsioni che attraversano il mondo greco sono caratterizzati dall’arrivo dei grandi sofisti: Protagora, dalla vitale Abdera in Tracia (fondazione degli ioni emigrati dall’asiatica Teo), da cui proviene probabilmente l’atomista Leucippo e certamente il discepolo Democrito; intorno agli anni Cinquanta da Elea (in Italia) vengono Parmenide e Zenone, i teorici dell’’essere’; qualche decennio più tardi da Leontini (Sicilia) verrà Gorgia, da Ceo (nelle Cicladi) Prodico, dall’Elide Ippia.
E’ un vitale afflusso, incontro, proliferare di idee intorno al ruolo dell’uomo come misura di tutte le cose (Protagora), ai modi e all’efficacia della persuasione retorica (Gorgia), alle infinite possibilità di distinzione che il linguaggio consente (Prodico), alla necessità di scansioni cronologiche di validità generale (Ippia).
Il clima della democrazia periclea e post-periclea è però idoneo allo scontro, non meno che all’incontro delle idee: alla riflessione critica verso la religione tradizionale di un Anassagora di Clazomene, di un Diagora di Melo (Diagora l’ateo), dello stesso Socrate, fa riscontro da un lato il tradizionalismo battagliero di un Tucidide figlio di Melesia o di un Diopite, e dall’altro, semmai, l’introduzione di nuovi culti dall’Oriente o la crescita e la diffusione ci culti greci che nel passato erano stati minori (come, rispettivamente, la tracia Bendis o il greco Asclepio).
Pag. 373-74

Bibliografia

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L’economia in Grecia / D. Musti. – Laterza, 1981
L’ideologia del potere e la tragedia greca: ricerche su Eschilo / V. Di Benedetto. – 1978
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Storia dell’urbanistica: il mondo greco / E. Greco, M. Torelli. – Laterza, 1983
Pittura greca: da Polignoto ad Apelle / P. Moreno. – 1987
Arte e artigianato in Grecia / V. Saladino. – 1988
Protagonismo e forma politica nella città greca / D. Musti. – In: Il protagonismo nella storiografia classica. – 1987
Lavoro manuale e lavoro intellettuale nell’antica Grecia / B. Farrington. – 1953
Polis: lavoro e tecnica / R. Mondolfo. – 1982
L’Atene di Aristofane / V. Ehrenberg. – 1957
Urbanistica delle città greche / A. Giuliano. – 1966
Alimentazione e demografia della Grecia antica / L. Gallo. – 1984
Gli schiavi nella Grecia antica dal mondo miceneo all’ellenismo / Y. Garlan. – 1984

Cap. 6. La guerra del Peloponneso come guerra civile dei greci

La pace del 446/5 tra gli spartani (e la Lega peloponnesiaca) e gli ateniesi, prevista per trent’anni, ne durò assai meno.
Si può dire che già gran parte degli anni Trenta siano percorsi dalle avvisaglie del conflitto che lacererà il mondo greco (pur con una grande pausa) dal 431 al 404: la guerra del Peloponneso.
Dal nome, che antichi e moderni hanno attribuito al conflitto, si può essere indotti a collocarlo nella serie dei numerosissimi eventi bellici che punteggiano la storia greca in una serie quasi ininterrotta.
E’ invece evidente che si tratta di una guerra che, pur avendo come oggetto, come di consueto, la potenza o il potere, ha in più una fortissima connotazione ideologica, corrispondente alla radicalizzazione dello scontro politico in Grecia.
E’ la ‘guerra civile’ dei greci: ma, appunto, combattuta alla greca, cioè da quei soggetti storici preminenti nella storia ellenica che sono le poleis.
E’ dunque la contrapposizione cruenta non di due partiti all’interno di un territorio nazionale unitario, ma di due tendenze politiche, cui aderiscono  le molteplici entità del variegato mondo greco, le poleis, come altrettante molecole di questo scontro: anche se, ovviamente, anche all’interno di queste, c’è un riflesso di questo scontro interstatale; ci sono dunque città democratiche e città oligarchiche e inoltre, all’interno di molte singole città, di nuovo i due partiti contrapposti.
Se questo è il profilo generale e la collocazione complessiva all’interno della storia dei conflitti greci, la dinamica specifica va perseguita un paio di decenni più in alto, sulla scorta, del resto, di Tucidide, che nella pentecontaetia (1. 23 sgg.) dà una rappresentazione complessivamente unitaria (anche se certo non statica) dei processi che conducono allo scoppio del conflitto nel 431.
Si assume coem data d’inizio l’invasione dell’Attica da parte dell’esercito peloponnesiaco, guidato dal vecchio re di Sparta Archidamo 2.; onde il nome, esteso un po’ impropriamente a tutto il primo decennio di guerra (431-421), di guerra archidamica (il re spartano morì invece già nel 427).
Pag. 393-94

Le guerre nascono, nella genesi immediata, come guerre territoriali; i conflitti dunque hanno dimensioni e coerenze areali.
Alla guerra del Peloponneso si attribuiscono, sempre sulla scorta di Tucidide, come cause reali, tre o quattro grandi fatti: l’intervento di Atene nel conflitto scoppiato tra Corinto e la sua colonia nel mar Ionio, Corcira, per il comportamento da tenere nel conflitto civile tra i democratici e gli oligarchici ad Epidamno (a Corcira si rivolgono gli esuli oligarchici, a Corinto i democratici che si sono impadroniti del potere); la ribellione di Potidea, colonia corinzia sull’istmo della penisola Pallene, la più occidentale della Calcidica, contro la pretesa ateniese di indebolirne i rapporti con Corinto; il decreto di Atene contro i diritti commerciali di Megara, sita appunto tra Atene e Corinto.
Si può forse premettere un episodio del 437, che investe già l’area corinzia, cioè l’intervento dello stratego ateniese Formione a favore degli epiroti nel conflitto con Ambracia, altra colonia corinzia, nella parte sud del territorio epirota, in posizione diagonale rispetto ad Azio.
Sono le colonie di Corinto, dunque, il bersaglio diretto di Atene (che presto dimostrerà, indirettamente negli anni Trenta, direttamente più tardi – non senza precedenti ancora più antichi – un’analoga ostilità contro la colonia corinzia d’Occidente, Siracusa).
In questo primo blocco di dati si riscontrano le consuete contrapposizioni di ordine territoriale (Corinto poteva sentirsi minacciata ad esempio dall’eventuale presenza ateniese nella confinante Megara) e forse altre ancora, di natura economica anch’esse,  ma di tipo diverso (una concorrenza mercantile).
La matrice corinzia di queste cause immediate della guerra del Peloponneso è dunque evidente, non meno del profilo di contrapposizione tra Sparta e Atene, che il conflitto assume.
Sono i due piani sui quali occorre situare il conflitto, che da conflitto ‘areale’, non privo di connotazioni ideologiche (eppure le costellazioni corinto-democratici di Epidamno da un alto, e Atene-Corcira-oligarchici di Epidamno dall’altro, nel 436 a. C., non sono ancora di questo segno), diventa presto conflitto fra due gruppi di Stati, due schieramenti, due ideologie.
Pag. 394-95

Gli interventi ateniesi furono numerosi, e lo furono a causa delle insufficienze volta per volta dimostrate dai corpi di spedizione (prima 30 triremi con 1000 opliti, poi 40 triremi con 2000 opliti), e della necessità di contrattaccare e fronteggiare Perdicca 2. di Macedonia, a cui fu tolta dapprima Terme e minacciata Pidna, e poi (nell’estate del 431) restituita la vitale  posizione di Terme.
Di fronte a una Lega peloponnesiaca sempre più disposta a controazioni, Pericle compì un passo che doveva rivelarsi decisivo, ma anch’esso dello stesso spirito politico delle precedenti misure: una decisione ostile, che colpisce nei fatti una città della Lega peloponnesiaca, ma che si presenta come una decisione interna alla Lega navale attica: proibizione ai megaresi di frequentare l’agorà attica e i porti dell’impero.
Questo significava strangolare l’economia di una città che, come Megara, viveva delle esportazioni di tessuti e vesti di lana, connesse con il ruolo della pastorizia in un’economia che poteva contare molto di meno su terra da coltivare.
Pag. 397

La tradizione antica ha talora attribuito a Pericle la responsabilità della guerra e ha individuato i motivi di questa scelta nell’intento di creare un diversivo per le difficoltà suscitategli dall’opposizione, e nel desiderio di tutelare la sua posizione di potere: un quadro accolto anche da alcuni moderni.
Ma questa non è né la sola né la prima decisione di Pericle, che subisca in una parte della tradizione un’interpretazione di segno personalistico, forse non destituita di ogni fondamento e tuttavia fortemente riduttiva della portata politica della decisione medesima; anche dell’istituzione del sistema dei misthoi (indennità), così centrale nell’ideologia periclea e nella sua concezione dello Stato (perciò nella storia stessa dell’idea di Stato, in assoluto), fu data nella tradizione una motivazione personalistica (crearsi col denaro pubblico quella popolarità che non ci si poteva dare con i modesti mezzi finanziari privati).
D’altra parte un’interpretazione ben più complessa e rispettosa delle forze storiche in movimento, dei processi storici in atto, è quella che fornisce Tucidide.
Questi vede, nello scontro tra Atene (con tutto il suo impero) e i peloponnesiaci, l’esito ineluttabile di un processo naturale, quello della crescita (auxesis) di un organismo in piena espansione, qual era l’impero ateniese; l’intraprendenza storica che esso esibisce (puntuale riscontro dell’audacia, che è il segno storico complessivo dell’avanzata delle masse) fa contrasto con i timori di parte peloponnesiaca, timori che proprio quel fenomeno di crescita va ad alimentare fino alla reazione finale.
Il giudizio di Tucidide è chiaro: nella dinamica dei fatti l’iniziativa della guerra è dei peloponnesiaci (in questo senso, la guerra è del – cioè dal – Peloponneso); nelle cause ultime la responsabilità è dell’espansionismo ateniese.
Nonostante tutte le discussioni moderne, il quadro interpretativo tucidideo resta ancora oggi più valido.
Gli si potrà imputare un accentuato naturalismo e fatalismo nella concezione di fondo; si noterà il marcato psicologismo e pessimismo nella formulazione; si avvertirà anche l’inevitabile conseguenza del deciso sovraccarico di responsabilità ateniese, che a questo quadro naturalistico e psicologico logicamente inerisce, ma difficilmente si potrà andare oltre lievi correttivi, modesti aggiustamenti, opportune integrazioni.
Dunque l’espansionismo e il dinamismo ateniese da un lato, la dura volontà di difesa, che a un certo punto si rovescia in offesa e cerca di togliere l’iniziativa all’avversario, dall’altro, descrivono bene, nell’insieme, il sistema di cause che determina lo scoppio della ‘guerra civile’ dei greci.
A monte c’è il progressivo costituirsi degli elementi di due società, che pur con i numerosi fili che attraversano – come sempre nella storia greca – le distinzioni e le opposizioni, si vanno però costituendo come entità storiche in larga misura distinte e tendenzialmente fra loro alternative.
A che cosa mira però l’espansionismo ateniese, come interpretato ora da Pericle?
A che cosa si deve la resistenza di tanta parte della Grecia?
Sarebbe riduttivo anche solo tentare di individuare una direzione e un’intenzione unica.
Ma impostiamo la questione in un primo momento al negativo.
L’espansionismo ateniese non aveva necessariamente il fine di un’unificazione politica di tutta la Grecia; nel solco della tradizione e della consapevolezza delle possibilità interstatali greche, gli ateniesi potevano desiderare di allargare sempre di più, cominciando dalle zone più vicine,  la loro sfera di influenza; e sempre più chiara avevano l’utilità di una esportazione del modello democratico come strumento di dominio.
Che essi abbiano invece progettato un’unificazione totale della Grecia (per esempio anche compresa Sparta) sotto il loro dominio, e la eliminazione, o anche solo la forte contrazione, delle diverse entità cittadine, cioè la costituzione di un’unità e continuità territoriale sotto il dominio di una sola capitale, non è dimostrabile; ciò non era forse neppur pensabile, almeno a quello stadio di sviluppo storico e di eventi.
Viceversa i peloponnesiaci si impadroniscono subito, alla vigilia della guerra, della bandiera stessa dell’eleutheria e dell’autonomia.
Il campo della demokratia, che era propriamente quello di Atene, se ne lasciava privare (e per la demokratia ciò rappresentava un costo storico pesantissimo).
Alla fine del conflitto, nel 404, il giorno in cui dopo la resa di Atene si abbatteranno le Lunghe Mura, sarà salutato come data d’inizio della libertà greca, e occorreranno vari anni prima che Atene possa, giovandosi degli errori e delle insufficienze di Sparta, recuperare alla parte democratica le parole d’ordine, decisive più di ogni altra nei rapporti interstatali greci, di libertà e di autonomia, facendo ricadere su Sparta l’accusa  di voler minare in Grecia proprio quei principi.
Pag. 398-400

E’ del tutto comprensibile che, fra le due grandi rivali, sia Atene a impostare piani ispirati a grandiosità di iniziative e di progetti, alla capacità di muoversi su uno spazio assai ampio, di condurre guerre a distanza.
In un primo momento la nuova strategia sembra rendere bene; i peloponnesiaci stentano ancora a seguire gli avversari su questa strada.
La situazione è destinata a rimanere senza grandi mutamenti fino al 424, quando, con Brasida, gli spartani si metteranno su una strada simile, ma alla prova dei fatti un po’ più fruttuosa.
Per il momento le strategie grandiose si presentano ancora ricche di promesse: deve passare qualche tempo, perché la lentezza dell’adeguamento dei fatti e dei risultati concreti alle impostazioni grandiose getti, in Atene, una luce di sospetto sulle stesse linee strategiche, e perché gli avversari imparino la lezione.
Ma tra il 427 e il 425 l’idea della guerra deve aver ottenuto in Atene una nuova popolarità.
Pag. 407

Non potrebbe risultare più chiaro, dal seguito degli eventi, come sia improprio distinguere rigidamente tra un partito della pace e un partito della guerra: almeno agli inizi, è più un succedersi di comportamenti più o meno bellicisti, più o meno pacifisti, che non di partiti (nonostante l’innegabile propensione di fondo di ciascuno dei soggetti).
Nella primavera del 424 è Nicia a togliere agli spartano l’isola di Citera, a sud-est della Laconia: la nuova strategia, decisamente post-periclea, di attacco diretto alle basi nemiche, sembra essersi ormai imposta.
Pag. 409

La pace ‘di Nicia’ si presenta come un accordo di tregua di 50 anni, stipulato tra gli ateniesi e gli spartani e i rispettivi alleati.
Di fatto, essa fu rifiutata, per la parte peloponnesiaca, da corinzi, elei, megaresi e dagli stessi beoti, cioè da una parte cospicua dell’alleanza anti ateniese.
Le clausole furono giurate da 17 personalità per parte: le stesse che, poco dopo, giureranno un nuovo trattato, questa volta di alleanza militare bilaterale tra Sparta e Atene.
Non deve sorprendere che l’aspro scontro tra le due città si concluda con la formazione di una specie di asse preferenziale tra di esse.
Sparta e Atene assolvono, nelle dimensioni del mondo cittadino greco, il ruolo di grandi potenze, in grado certo di fare complessivamente prevalere la loro volontà, ma anche, tutto sommato, più capaci degli altri Stati di decisioni responsabili, almeno nella stessa misura in cui, viceversa, quando esse accendono conflitti o intervengono in conflitti già in corso, la loro presenza dà una dimensione ben più ampia e toni più aspri alle guerre.
Può capitare, in queste condizioni, che le due città trovino punti d’accordo, persino a dispetto dell’ostilità dei rispettivi alleati; insomma esse configurano, nel mondo greco, un classico caso di bipolarismo.
Pag. 413

La pace di Nicia si ispira al principio sopra illustrato delle restituzioni, o delle compensazioni obbligate ove le restituzioni non siano possibili (fra le premesse è ad esempio la rinuncia a Platea, da parte ateniese, contro la conservazione di Nisea).
Dopo aver garantito la libertà di tutte le espressioni culturali tradizionali e aver segnatamente riconosciuto l’autonomia del santuario delfico e di Delfi stessa, il trattato di pace prevede che fra i due schieramenti non siano posti in essere atti di ostilità di nessun tipo, e che le controversie siano risolte in base ai principi del diritto e ai giuramenti.
Ad Atene verrà restituita Anfipoli (un impegno che gli spartani non potranno mantenere: né Atene occuperà  mai più la città in tutta la sua storia); ma le città ribelli della Calcidica (Argilo, Stagiro, Acanto, Scolo, Olinto, Spartolo, cui poi si aggiungono nel trattato Meciberna, Sane e Singo) devono essere autonome, pur pagando agli ateniesi il tributo ‘del tempo di Aristide’: alla Lega ateniese esse aderiranno solo se lo vorranno.
In altre aree, gli ateniesi avranno (al confine attico-beotico) Panatto, gli spartani (dal Peloponneso alla Locride) Pilo (Corifasio) e Citera, Metana e Pteleo e Atalanta; otterranno inoltre la restituzione dei prigionieri di Sfacteria.
Ma poi il trattato (di cui la struttura a mosaico dice forse la lunga gestazione) torna sul tema della Calcidica (divenuto, evidentemente, negli ultimi anni e sviluppi, decisivo): gli ateniesi potranno fare quel che vorranno di Scione, Torone e Sermilia (città che hanno ormai sotto controllo), a patto di rilasciare spartani e alleati che siano in loro mano (altrettanto vale per i prigionieri ateniesi in mani spartane).
Il trattato, da riconfermare con giuramento ogni anno (una clausola non frequente nei trattati, e di tanto più significativa), sarà pubblicato, su steli di pietra, nei grandi santuari panellenici (a Olimpia, Delfi, all’Istmo) e in santuari delle due grandi città (ad Atene sull’Acropoli, a Sparta nell’Amyklaion).
Pag. 414-15

Con la guerra decennale, Atene non aveva fatto un solo passo avanti, dal punto di vista territoriale, rispetto allo stato del 431 a. C.; ma certo otteneva che fosse, almeno da Sparta, riconosciuta, come un dato storico (e di diritto) acquisito e irreversibile, la consistenza e la struttura del suo impero.
Le gravi perdite umane ed economiche subite erano fortemente controbilanciate dall’acquisizione di una maggiore autorità storica da parte di Atene, nel riconoscimento concesso da parti cospicue e assai rappresentative dell’’altra’ Grecia.
Se il dinamismo ateniese si fosse attenuato, e quel magma in movimento anche soltanto solidificato, c’era per Sparta ragione di temperare i propri timori; ma il mondo greco – e Atene e il nuovo mondo democratico da essa suscitato – era ancora in fermento.
Al confronto e al conflitto i greci tornano immediatamente dopo la stipula degli accordi del 421.
Il mondo greco non conosce ancora a questa data quei meccanismi di raffreddamento che, solo dopo il disastro del 404 e le convulsioni di vari decenni, cominceranno a imporsi alla coscienza dei greci, caricandosi però assai presto dei doni dell’utopia.
Pag. 416-17

Appena stipulata la pace di Nicea, cominciò a farsi avvertire la difficoltà di realizzarne i complicati meccanismi, gli equilibristici scambi.
Il nuovo generale spartano del settore tracico, Clearida, non fu in grado di assicurare la restituzione di Anfipoli, non voluta dai calcidici; perciò Atene non restituì né Pilo né Citera, né (in un primo tempo) i prigionieri di Sfacteria.
Corinzi e beoti si sentivano d’altra parte frustrati nelle loto attese, per non essere stata prevista la liberazione di Potidea o Corcira, o di altre città.
A questo punto Elide, Mantinea, Corinto e i calcidici stringono alleanza con Argo, libera ormai dagli obblighi del patto trentennale con Sparta.
Tuttavia altra motivazione, prospettiva e consistenza ha l’alleanza con Argo di Stati del Peloponneso in tradizionale conflitto o antagonismo con Sparta, altra la fronda di alleati insoddisfatti e inquieti verso la città loro egemone, o addirittura verso la stessa idea di una doppia egemonia da spartire tra le due grandi, ora rappacificate.
Con i suoi alleati, Sparta cerca dunque di riannodare rapporti, sollecitando anche l’attuazione del trattato di pace, ad esempio la distruzione della fortezza di Panatto, al confine attico-beotico.
Ma per il 420 sono eletti, fra gli efori spartani, alcuni ostili alla pace.
E da parte ateniese si aggiunge l’elezione di Alcibiade alla strategia, nella primavera del 420, per l’anno 420/419: subito segue la stipula di un’alleanza difensiva di Atene con Argo, Mantinea e l’Elide e, nell’inverno 419/418, la denuncia ateniese della violazione della pace da parte spartana.
Pag. 417

La complessa situazione ateniese, e l’assenza di un vero ‘partito della pace’, o almeno di una sua autorevole rappresentanza, spiegano la dinamica della nuova spedizione ateniese in Sicilia, la più famosa e disastrosa, quella degli anni 415-413.
La richiesta di aiuto da parte di Segesta, città elima di Sicilia, e degli esuli di Leontini, città di origine calcidese, contro Selinunte (fondazione di Megara Iblea), in contrasto con Segesta per questioni di territorio e di matrimoni), e contro Siracusa (la potente colonia corinzia), mette in moto la macchina di guerra ateniese.
Si fa balenare ad Atene l’idea dell’esistenza di grandi ricchezze da mettere a disposizione per la guerra; si fa leva sul timore che i dori di Sicilia possano intervenire a fianco di quelli del Peloponneso.
Ad Atene la sollecitazione e i timori hanno l’effetto voluto.
Invano Nicia fa presente il vantaggio di un timore reverenziale prodotto da lontano, rispetto a una minaccia insufficiente portata da vicino; inutilmente egli ricorda il gran numero e la potenza delle città da combattere.
Senso di sicurezza, mania di grandezza (Alcibiade parla di conquista della Sicilia e della stessa Cartagine), voglia di nuovo (vivissima, come sempre, ad Atene, soprattutto fra i giovani) hanno la meglio.
Atene si conferma come la città che osa, come Tucidide l’ha già rappresentata nei capitoli del primo libro della pentecontaetia; e, soprattutto, osa per inesperienze di un’isola vasta, abitata da popoli diversi e da tante vecchie e potenti colonie greche (6. 1-5).
Pag. 420-21

La dinamica dei fatti ha comunque una sua interna plausibilità: ha tutti i tratti della grande provocazione e,  come tutte le provocazioni, si attua in più ampi tempi, di apparenza diversa, ma cospiranti a un medesimo fine destabilizzatore.
Primo tempo, mutilazione delle erme (neo volti, sembra), turbamento pubblico e presagi negativi per la spedizione che sta per partire: si cercano gli autori di questo crimine, , come di altri dello stesso tipo; comincia, per usare un’immagine anacronistica, la caccia alle streghe.
Alcibiade, che è vittima prima del gesto degli ermocopidi (tagliatori di erme), e che non può certo considerarsi fra gli autori di quell’episodio, viene coinvolto direttamente nell’accusa di sacrilegio in quello che è, visto al rallentatore, il prevedibile secondo tempo del complotto, il tempo cioè della caccia alle streghe.
Si cerca l’empio e lo si trova proprio in Alcibiade, accusato di aver parodiato, in casa sua, i misteri di Eleusi, di aver cioè celebrato, per continuare con anacronistiche metafore, una sorta di nefanda messa nera.
Alcibiade chiede di essere giudicato subito, con l’impazienza caratteristica di chi vede sorgere intoppi di carattere giudiziario o burocratico a imprese che sta realizzando: ma (e anche questo sembra un terzo tempo ben calcolato) sulla testa è lasciato pendere l’accusa, lo si spedisce in Sicilia (troppo forti erano i rischi connessi con la presenza di un’armata pronta a partire ed impaziente), e si rinvia solo a un secondo momento il suo richiamo.
La spedizione parte nell’estate del 415, rotta Egina, poi Corcira; quindi, tagliando il Mar Ionio, raggiunge l’Italia.
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Già al momento dell’invio di Gilippo (414) gli spartani avevano progettato di occupare e fortificare Decelea in territorio attico, circa 20 km a nord-est di Atene; nel corso dell’anno ci furono scontri di breve respiro tra spartani e argivi, dapprima con incursioni nei rispettivi territori, seguite poi (e il fatto era decisamente più grave) dall’intervento ateniese e da una serie di sbarchi sulle coste orientali della Laconia.
La pace di Nicia era ormai palesemente violata, con lo scontro diretto tra le due grandi città; perciò nella primavera del 413 il re Agide Secondo invadeva l’Attica e dava inizio all’occupazione stabile di Decelea, adottando una strategia diversa da quella  delle incursioni periodiche degli anni 431-425.
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Nel fitto susseguirsi degli eventi, intrecciarsi di situazioni, sovrapporsi di piani diversi di azioni politiche che costituiscono il secondo grande spezzone della guerra del Peloponneso (413-404), iniziatosi con l’occupazione spartana di Decelea, possono individuarsi, e debbono segnalarsi al lettore per una più immediata intelligenza del periodo, almeno quattro aspetti fondamentali, in parte nuovi rispetto alle caratteristiche della guerra archidamica (431-421).
In primo luogo spicca il ruolo di Alcibiade, di una personalità politica, che tra il 415 e il 411 determina in senso negativo le vicende di Atene, sia in Sicilia, con i consigli di intervento rivolti agli spartani, sia in Egeo, con l’intesa da lui promossa tra Sparta e la Persia, sia in patria, con l’ideazione (che a lui in prima istanza risale) del cambiamento di regime da democratico ad oligarchico nel 411.
Non era certo una novità la presenza e l’influenza di una forte personalità politica: ma se un Pericle o un Cleone avevano rappresentato, con fondamentale coerenza, un punto di vista e una linea politica e di comportamento, in Alcibiade si vede all’opera una personalità che assoggetta (o crede di assoggettare) ai suoi disegni e alla su aidea di rapporto col popolo, comportamenti e politiche in fiero contrasto fra di loro: e (fatale per Atene) i disegni che più andarono ad effetto furono proprio quelli più avversi alla sua città.
Segno di contraddizione in Atene e nella Grecia intera, al centro di amori e di odii violenti, che si scontrano intorno alla sua persona, uomo di fondamentale formazione democratica (nonostante i rinnegamenti occasionali e strumentali), ma assai meno capace di Pericle di tenere quella linea divisoria tra pubblico e privato, tra la realtà politica e la sua persona, a cui lo zio e tutore aveva ispirato la sua propria visione e azione politica, Alcibiade rappresenta l’esplodere della personalità in un contesto in cui i valori comunitari erano stati finora decisivi.
Lo registra la storiografia nei fatti che racconta di lui; lo significa il fiorire di interesse biografico intorno alla sua persona, che Plutarco puntualmente sottolinea.
Ad Alcibiade si deve l’avvio di quei contatti con i governanti persiani dell’Asia Minore, che dovevano procurare l’intervento di questi nella guerra greca e l’appoggio del re a Sparta (secondo  caratteristica della nuova fase di guerra).
Che poi nel corso delle trattative egli abbia cambiato posizione, e cercato di sfruttare a vantaggio di Atene il patrimonio di relazioni che aveva accumulato e imbastito, se da un lato rivela la vera propensione di Alcibiade, dall’altro toglie però assai poco al fatto che l’idea, nata nella mente dell’ateniese, abbia poi preso corpo e marciato per conto suo: i trattati spartano-persiani del 412/411 sono la distante ma logica premessa delle fervida intesa tra il viceré persiano di Sardi, Ciro (il giovane), e il generale spartano Lisandro dal 408 in poi.
Ad Alcibiade si devono ancora iniziative, presto rinnegate, per modifiche nella costituzione ateniese,  ed è questo il terzo motivo caratteristico del periodo.
Le avvisaglie sono da riconoscere nel clima di complotto rivelato dall’episodio delle erme del 415; primi sviluppi di aspetto legalitario sono nell’istituzione, nel 413, di una commissione di 10 probuloi (consiglieri che ‘istruivano’ le varie questioni), presto portata a 30 membri; infine, nel 411, il colpo di Stato oligarchico.
E’ nel senso di quanto s’è già sopra osservato il fatto che Alcibiade avviasse il processo oligarchico, sostenendo che esso sarebbe stato gradito alla Persia (al momento in cui aveva deciso, in un nuovo revirement, di trasferire a beneficio di Atene le sue aderenze persiane), ma che poi si decidesse a rientrare a vele spiegate nel campo democratico, che era in definitiva quello della sua vera vocazione politica, pur se adulterata e resa inquietante da marcate componenti personalistiche.
Un quarto aspetto da sottolineare risiede nelle dimensioni e nel ruolo che assume in questa nuova fase della guerra greca il problema degli alleati di Atene.
Fra tutti, questo è certo il motivo meno nuovo, perché tutta la storia dell’impero navale ateniese è percorsa da tensioni tra Atene e i suoi symmachoi, tensioni che ogni vota assumono un grado e una caratteristica diversi.
Nell’ambito della seconda fase della guerra del Peloponneso, le stesse fonti distinguono, in riferimento all’area dove la guerra si svolge, una ‘guerra ionica’.
L’episodio di ribellione ad Atene – tutto sommato isolato -  che aveva affiancato la guerra archidamica nell’Egeo orientale, nell’area latamente definibile della Ionia (la rivolta di Mitilene), ora si moltiplica e diventa sistematico; e vi si intrecciano la rivolta spontanea degli alleati ionici di Atene, la sollecitazione e la presenza spartana e, ancora una volta, dello stesso Alcibiade (Tucidide, 8. 6, 3; 17, 1), lo scontro fra le flotte dei due grandi schieramenti greci e gli interventi finanziari, militari, politici dei persiani.
Del resto, la guerra del Peloponneso si deciderà soprattutto qui, nell’Egeo settentrionale e orientale, fra le isole prospicienti le coste e presso le stesse coste dell’Asia Minore occidentale.
Abido, Cizico, Notion, le Arginuse, Egospotami, sono tutti nomi di luoghi ‘asiatici’ o di aree vicinissime all’Asia Minore, connessi con svolte e con fatti decisivi della guerra del Peloponneso: per gli antichi non v’era dubbio che la vittoria di Lisandro, nell’estate del 405, ad Egospotami sull’Ellesponto (dal versante europeo), fosse, in senso lato, la diretta premessa della resa di Atene, avvenuta solo otto mesi dopo.
Pag. 429-31

Dopo la presa di Mileto da parte peloponnesiaca, comincia la serie di trattati di Sparta con la Persia: sono tre, procurati rispettivamente da Calcideo, Terimene e Tissaferne.
Tucidide sembra credere che ogni nuovo trattato fosse risultato da un progressivo miglioramento delle condizioni del trattato con i Lacedemonii; un’analisi più attenta mostra che i tre testi sono soltanto l’uno più preciso dell’altro;  e un ulteriore passo avanti dovrebbe indurre a vedere nei primi due le versioni provvisorie, rispetto a cui il terzo trattato è solo la versione definitiva: i primi due trattati non sono in realtà altro che lo stesso (unico) trattato di volta in volta presentato in una versione diversa, dapprima in una che rispecchia di più la ‘competenza’ spartana, cioè l’insieme delle clausole che più specificamente attengono a Sparta (trattato di Calcideo), poi in un’altra che rispecchia di più la ‘competenza’ persiana (trattato di Terimene); un rapporto di speculazione sussiste tra i due, di cui sintesi e formalizzazione è il terzo (un complesso processo diplomatico, a determinare la forma del quale appare decisiva la presenza di un contraente orientale, quale il re persiano).
La materia dello scambio è in effetti la rinuncia, da parte spartana, alla difesa dell’autonomia dei greci d’Asia dal re di Persia e la concessione di aiuti finanziari per la guerra, da parte persiana,
Pag. 433

Sono ormai date le condizioni per una svolta politica in senso oligarchico, coem logico sviluppo di precedenti avvisaglie, come reazione agli insuccessi della politica estera democratica, come maturazione delle trame più o meno occulte tessute da Alcibiade con gli ufficiali ateniesi della flotta di Samo.
Se un fattore del deterioramento delle posizioni ateniesi nell’Egeo orientale era l’alleanza spartano-persiana, la situazione si poteva ribaltare, secondo Alcibiade, mutando il regime da democratico in oligarchico: Pisandro, trierarco a Samo, raggiunge Atene, latore di queste proposte.
In realtà, per gradi, Alcibiade sta tentando di rientrare nel gioco politico ateniese: quando il disegno sarà maturo, il suo interlocutore sarà, come agli inizi della sua carriera, il regime democratico.
Ostacoli al nascente regime oligarchico potevano venire, e di fatto vennero, dalla stessa flotta di Samo, da cui erano partiti gli ufficiali istigatori del complotto (Pisandro e altri).
Erano infatti numerosi i cittadini impiegati negli equipaggi; e questi vennero presto a trovarsi nella condizione di contrastare gli sviluppi politici ateniesi.
Occorre comunque tenere distinte le vicende della città di Samo e quelle della flotta e degli equipaggi della flotta ateniese a Samo stessa.
Nell’estate del 412 c’era stata nell’isola una rivoluzione democratica, che aveva fatto strage di capi oligarchici e privato gli altri di diritti politici e di proprietà.
Nel 411 sono gli oligarchi a tentare di rovesciare la situazione, contando sugli ufficiali cospiratori, e uccidendo Iperbolo.
L’intervento degli equipaggi ateniesi democratici e dei nuovi strateghi da essi eletti (tra cui Trasibulo di Stiria e Trasilo) è decisivo per soffocare il tentativo ologarchico.
Preoccupati per i fatti di Samo, gli oligarchi di Atene (fra cui spiccano l’oratore Antifonte, Frinico e Teramene) cercano di ammansire gli uomini della flotta, sforzandosi di mostrare che, una volta passati effettivamente i poteri dei Cinquemila, nulla praticamente sarebbe stato diverso dal passato: ad Atene tanti e non più sarebbero i cittadini che frequentavano di norma l’assemblea.
L’argomento passava evidentemente al di sopra di tutte le questioni di principio e di diritto.
Pag. 435

Ed ecco che, alla fine della guerra del Peloponneso, riappaiono (a dimostrare la validità dell’impostazione originaria da noi data all’esposizione dei fatti) i due fili che abbiamo distinto all’inizio.
Corinzi e tebani (o almeno un tebano, un certo Eriante) volevano la distruzione di Atene e la dispersione, con la validità della schiavitù, dei suoi cittadini; ma il governo spartano si oppose, nonostante l’orientamento estremistico di Lisandro e Agide 2.
Le condizioni furono: rinuncia di Atene a tutti i possedimenti esterni, anche le cleruchie di Sciro, Lemno e Imbro (il vitale corridoio ateniese verso l’Ellesponto); abbattimento delle fortificazioni del Piero e delle Lunghe Mura; consegna delle flotte da guerra, tranne 12 triremi; richiamo degli esuli; revisione della costituzione, che doveva tornare ad essere quella ‘patria’.
Il 16 Munichione del 404 Lisandro entrava con la flotta nel Piero; l’abbattimento delle Lunghe Mura era avviato al suono dei flauti: quel giorno sembrava l’alba della libertà, degli ateniesi all’interno di Atene e dei greci tutti verso la città che li aveva dominati.
Qualche mese ancora resisterà Samo, che alla fine dovrà arrendersi e subire un nuovo mutamento di regime, questa volta in senso oligarchico.
Anche ad Atene, del resto, gli sviluppi politici saranno nel senso dell’oligarchia: per la seconda volta, in pochi anni, la democrazia era abolita, dopo aver (dal 508 al 411) esibito in grado notevolissimo di stabilità.
Lo svolgimento degli eventi tra la capitolazione e l’instaurazione della commissione dei trenta “costituenti” (syngrapheis), incaricati di redigere le “leggi patrie”, la “costruzione patria” (patrioi, nomoi, patrios politeia), non è del tutto chiaro.
Si parla di conflitti civili e si propone di datare in questo periodo, della durata di un paio di mesi, una congiura di parte democratica (Strombichide, Eucrate) mirante a una strage di capi oligarchici; si ha notizia del resto (in Lisia, 12. 43) di un collegio di cinque efori, tra cui Crizia ed Eratostene, a capo di un gruppo di oligarchi, ancora al tempo della democrazia.
Presto Crizia e Teramene diventeranno protagonisti di un conflitto che sarà fatale per entrambi.
Alla fine della guerra del Peloponneso qualcuno, come Crizia, può credere seriamente di poter trasformare Atene in una nuova Sparta: un paradosso storico, che costituisce un’emblematica conclusione del periodo storico, che costituisce un’emblematica conclusione del periodo storico qui trattato, e un’ideale formula di passaggio alla considera<ione delle spinte e situazioni che fermentano nella nuova epoca storica dischiusa dalla disfatta di Atene.
Pag. 441-42

E’ del tutto comprensibile che un teatro propositivo come quello di Euripide possa dimostrarsi per più aspetti impegnato, più o meno esplicitamente, sui grandi temi di politica estera, di politica interna, di storia della cultura e della civiltà, che investono il mondo ateniese, e in generale il mondo greco, negli ultimi anni di Pericle e nel periodo della guerra del Peloponneso e della democrazia post-euclidea.
Delle 17 tragedie conservate, le più antiche (Alcesti, 438, Medea, 431), che sono quelle dell’età periclea, appaiono come originali ripensamenti del mito, ove già emerge un interesse per ciò che, all’interno dello stesso mondo greco, si presenta coem esotico e che avrà poi particolare espressione nelle tragedie degli ultimi anni (dalle conservate Baccanti all’Archelao).
Il tema della guerra  è ben presente nelle tragedie del periodo del conflitto peloponnesiaco; dall’Andromaca, ca. 429, all’Ecuba e alle Supplici degli anni 424-423 (?), alla trilogia troiana del 415 (Troiane, Alessandro, Palamede, di cui solo la prima conservata), in cui gli accenti pacifisti si vanno sempre più accentuando.
Sul terreno della forma politica Euripide mostra di concordare, nelle Supplici (forse posteriori al 424), con l’idea di democrazia quale Tucidide attribuisce a Pericle, nelle Storie 1. 37 sgg.: esaltazione della forma democratica e dell’uomo medio che ne è il portatore.
Quando Euripide scriveva questa cose, la democrazia era a uno stadio ancora più avanzato, che già faceva apparire come miracolo (e un miraggio) di equilibrio la democrazia periclea.
D’altra parte, neanche in Euripide la tragedia viene meno a quello che è il suo compito specifico, che è di registrare e insieme creare il consenso della comunità, assai più che di immettervi elementi di lacerazione: quest’ultima è piuttosto la funzione della commedia politica, anche se è subito da aggiungere che la stessa commedia concepisce comunque la lacerazione solo come una fase intermedia, attraverso la quale si intende pervenire al fine ultimo, che è pur sempre quello della ricostituzione, nella comunità, di una totalità di armonico consenso intorno ai propositi del poeta.
I miti del mondo dorico, specialmente per i momenti di più positivo contatto con l’Atene micenea, hanno in Euripide un posto ancor più significativo che negli altri tragici, ove pur sono ben presenti: dagli Eraclidi (428?) ancora alle Supplici (dopo il 424?) all’Eracle (tra 421 e 416) all’Oreste del 408, per non parlare delle tragedie – non conservate se non per frammenti – come l’Archelao o i Temenidi, che illuminano le relazioni tra l’ambiente argolico e la Macedonia.
Come è stato anche di recente richiamato, è difficile dare letture univoche, in chiave di politica contemporanea, di tragedie che abbiano per argomento miti argivi: quanto riflettono esse di favore per Argo, quanto di attenzione, perfino di stampo pacifista, per il mondo dorico in generale?
Non si può dimenticare che il complesso dei miti argivi costituiva uno dei pilastri delle tradizioni epiche nel mondo greco miceneo (un altro è il ciclo tebano: e Tebe è condannata con chiarezza nelle Supplici, per la non disponibilità, a restituire i corpi degli argivi, caduti combattendo contro di essa).
La verità è che il mondo dei miti greci è una rete di tradizioni intrecciate tra loro, un patrimonio comune di archetipi, i quali, nella rappresentazione poetica, non contano tanto o soltanto per la loro pertinenza geografica.
E tuttavia la tesi di una evoluzione complessiva del rapporto di Euripide con la società democratica ateniese in sé molto di vero, pur se non se ne possono individuare tutte le tappe.
E’ un dato di fatto che Euripide lascia nel 408 Atene; e che l’elogio dell’autourgos (il coltivatore diretto) nell’Elettra (413) o la critica ai demagoghi contenuta nell’Oreste (408) segnano un certo ripiegamento rispetto alla più fiduciosa affermazione di una ideologia democratica fatta nelle Supplici.
C’è qualcosa, nella parabola di Euripide, che ricorda quella di Socrate: impensabili i suoi inizi, e gran parte della sua riflessione in genere, fuori del clima culturale della democrazia ateniese, impensabile quella spregiudicatezza di toni che è un portato anch’essa della democrazia, ma che alla fine comincia a ritorcere la sua punta proprio contro di questa, senza che tuttavia il processo critico giunga a totale compimento.
Pag. 447-48

La commedia archaia è per definizione ‘politica’ e dotata, per lo più (Cratete è un’eccezione) di iambikè idéa, cioè di una attitudine aggressiva, in cui si esprimono l’opinione pubblica, il conflitto tipicamente democratico delle idee e la velenosità dell’attacco personale, che vari decreti (di Morychides nel 440, di Syrakosios ca. 415) tentano di arginare.
Complessivamente, la commedia esprime posizioni conservatrici, ostili ai personaggi della democrazia radicale.
Ma niente è così istruttivo, circa il carattere relativo di tali distinzioni, quanto il fatto che di generazione in generazione la commedia cambi bersaglio, e quel che era il capro espiatorio di un tempo diventi, per la legge del tempo, il segno e l’oggetto della nostalgia per il buon tempo andato.
Così, una prima generazione di comici è tutta contro Pericle, lo Zeus kephalegherétes (che “raccoglie la testa”, non, come il dio dell’épos, nephelegheréta, “raccoglitore di nubi”); lo Zeus schinoképhalos, cioè “dalla testa (a forma) di cipolla” (allusione al cranio grande e allungato, del politico che si atteggia a superuomo) nelle commedie Chironi e Tracie; e le ingiurie, i nomignoli, le critiche finiscono puntualmente nella biografia plutarchea di Pericle.
Pag. 449

Con ciò è dato il quadro storico per una valutazione d’insieme dell’unico poeta della commedia antica, di cui ci siano pervenute commedie intere, Aristofane.
Tutto il nuovo della democrazia viene passato al setaccio della sua critica pungente ed estrosa.
Aristofane (vissuto all’incirca dal 445 a qualche tempo dopo il 388), che nei Banchettanti e nei Babilonesi (non conservati se non per frammenti) e ancora negli Acarnesi (425, prima delle 11 commedie conservate) si era servito, per ragioni di età o di prudenza, di un prestanome, Callistrato,  sottopone a critica la politica estera ateniese, per il suo bellicismo (Acarnesi) e i comportamenti ingiusti verso le città alleate (Babilonesi): il poeta vuole essere portavoce, o anche promotore, di un’opinione pubblica cittadina (o anche intracittadina, con riferimento agli alleati), potenzialmente esistente.
Il demagogo conciapelli Cleone è bersaglio già delle prime commedie, ma in modo particolarissimo dei Cavalieri (424), in cui la scelta di Aristofane è inequivocabile, in favore della élite stessa del demos ateniese e del popolo di proprietari e contadini, e contro i demagoghi nuovi ricchi: naturalmente nella prospettiva della costituzione del consenso dell’intero demos, o quasi, intorno alla sua parte migliore.
Non è solo il nuovo sociale della democrazia ad attirare gli strali di Aristofane; lo è anche il nuovo sul terreno della cultura e dell’educazione, nelle Nuvole (423, da noi conservate però in una redazione più tarda), al cui centro è un Socrate sofista, studioso delle cose trascendenti e di quelle sotterranee, ancora fortemente anassagoreo: il riconoscimento che il Socrate aristofaneo, pur così diverso da quello di Platone e dello stesso Senofonte, registri uan prima autentica esperienza intellettuale diversa da quella successiva, è ormai così diffuso, da costituire un luogo comune e ben giustificato.
C’è solo da aggiungere che questa prima fase (anassagorea) di Socrate non solo appare come fondamentalmente storica, ma addirittura coerente con quella successiva: e la coerenza è data dalla comune temperie culturale democratica e urbana che è al fondo delle due fasi dell’esperienza socratica.
E un ulteriore elemento di coerenza è proprio nell’ostilità di Aristofane, solo che non si rinunci alla caratterizzazione del poeta coem un tradizionalista e conservatore, che si colloca però pur sempre all’interno della democrazia (in questa stessa luce, per le ragioni già dette sopra, va vista l’ostilità ad Euripide, che si dichiara nelle Tesmoforiazuse, del 411 o 410, e nelle Rane, del 405).
Il nuovo regime democratico, consistente nell’assistenzialismo (corruttore, agli occhi di Aristofane) dell’elargizione delle indennità (misthoi) per i giudici, è rifiutato nelle Vespe (422), che trattano il tema dell’’isterismo giudiziario’ dell’uomo comune della democrazia ateniese, smanioso di esercitare funzioni di eliasta e di percepire il relativo soldo (scarso e umiliante, sempre per Aristofane).
E contro il bellicismo della democrazia radicale, e in favore dell’ampia base rurale della democrazia ateniese, si pronuncia la Pace, che nel 421 precede pochissimo la stipula della pace di Nicia.
La serie delle commedie successive conservate si apre con gli Uccelli del 414, e continua con la Lisistrata del 411, le Tesmoforiazuse del 411 o 410, le Rane del 405, le Donne in assemblea del 393-391 (?), il (secondo) Pluto del 388 (edizione di ben 20 anni successiva alla prima, che è del 408).
E’ ben difficile negare il cambiamento complessivo di tono: se nelle commedie della prima fase della guerra del Peloponneso il poeta di era impegnato in una lotta politica, che lo vedeva ancora determinato  e fiducioso nella contrapposizione e contestazione diretta del nuovo della democrazia, già con gli Uccelli egli sceglie le vie dell’evasione – sempre nella misura possibile a un autore che continua pur sempre, fino in fondo, ad occuparsi della vita reale.
Non viene certo meno né lo spirito polemico né l’orientamento suo proprio, ma sembra appannarsi la fiducia nel senso stesso della battaglia da svolgere; la polemica del poeta aggira in qualche misura lo scontro politico diretto, non è più semplice e immediato rovesciamento del dato esistente: è il suo aggiramento realizzato mediante l’invenzione fantastica di una realtà in tutto e per tutto diversa.
Un’altra città, in un altro tempo, in un altro modo, in un altro dove, fuori dei confini e magari dello stesso linguaggio dell’umanità, è la città degli Uccelli.
Nella Lisistrata è l’utopia di una pace panellenica, realizzata con una trovata fuori del comune, lo sciopero dell’amore, da quella parte della città in guerra che meno conta (o che non conta), nella guerra come nella politica, le donne.
E sempre dal coté delle donne, e della città in quanto da esse rappresentata – questa volta in una festa reale e di tutto rispetto, in onore di Demetra Thesmophoros -, si esprime il malumore di Aristofane verso il teatro e la persona stessa di Euripide, che toccherà l’apice del capolavoro nella ricostruzione della storia del teatro ateniese, fatta in chiave, diremmo, etico-politica; e dopo ciò che abbiamo detto sul carattere della ‘prima democrazia’, quella pre-periclea, non sorprenderà che il conservatore Aristofane decida du riportare in vita Eschilo (che a quella fase di ‘prima democrazia’ largamente appartiene).
Ancora dal coté delle donne (sorta di segno convenzionale del carattere utopico della proposta) il progetto di riforma ugualitaria e comunistica presentato nelle Ecclesiazuse (Le donne all’assemblea), e nel Pluto, dove è in primo piano il problema del pauperismo, cui solo un miracolo (la guarigione del cieco dio della ricchezza) potrà, per poeta, porre rimedio.
Utopia e attesa del miracolo (che in definitiva è solo un rapporto privilegiato con la potenza soprannaturale del dio, da cui il singolo attende la sua individuale salvezza, quando comincia a scindere il suo personale problema di salvezza da quelli che riguardano più in generale la comunità) sono segno di nuovi tempi, nei quali (come ho avuto modo di studiare altrove), si assiste, con solo apparente contraddizione, a un affievolirsi dell’impegno politico del cittadino comune e contemporaneamente a una partecipazione interessata (per il percepimento di gettoni di presenza) alle assemblee politiche.
Pag. 450-52

 

La storia degli anni 431-411 è narrata per estati e inverni (thére e cheimones): un nuovo progresso nella ripartizione e definizione del tempo narrativo.
In Tucidide la dimensione spaziale è del tutto subordinata a quella temporale: è il periodo scelto che detta legge, che determina anche la dimensione geografica del racconto, che condiziona la struttura dell’opera, conferendole quell’aspetto generale di compattezza, che la distingue così nettamente dalla struttura della storia erodotea.
Per questa via s’inizia anche una tradizione storiografica per cui uno storico continua (o integra) l’opera dello storico che l’ha preceduto.
In Tucidide, alla riduzione del campo storico nella sua dimensione temporale come in quella spaziale, si affianca anche una particolare scelta del contenuto.
Un posto privilegiato è fatto agli aspetti politico-militari della storia, perciò ai conflitti (la cui importanza Tucidide valuta, nella rapida sintesi della più remota storia della Grecia contenuta nei primi capitoli dell’opera, in relazione allo sviluppo economico generale dell’età in cui le guerre avvengono).
L’attenzione di Tucidide è concentrata sugli aspetti ‘dinamici’ della storia umana, sulla potenza e i conflitti di potenza, lasciando in ombra gli aspetti ‘statici’, le ‘costanti’, cioè le istituzioni, le tradizioni religiose, i costumi, il mondo dei nomoi insomma, che tanto stimolava la curiosità di Erodoto (Strasburger).
Si configura nell’opera di Tucidide un tipo di storiografia selettiva, concentrata sugli aspetti politico-militari (e solo in termini generali interessata a certi presupposti economici), che è in forte contrasto con la varietà del tessuto narrativo dell’opera di Erodoto.
In questa occupavano un larghissimo posto gli aspetti geografici ed etnografici, la curiosità per usi e costumi singolari, il gusto per l’aneddoto e per il meraviglioso, insomma le mille cose raccontate con l’autentica e trascinante gioia di ridire ciò che la propria mai sazia curiosità è riuscita a scoprire (accanto all’ispirata narrazione  e celebrazione delle guerre combattute e vinte dai greci contro i persiani in difesa della loro libertà).
Alla ‘struttura larga’ dell’opera erodotea Tucidide contrapponeva una pretesa di tipo monografico.
La rinuncia, compiuta da Tucidide, a tanta ricchezza di temi era il prezzo pagato in nome di un ideale di ‘oggettività’, di ‘verità’, di ‘utilità’, che avrebbe dovuto realizzarsi attraverso una approfondita (e perciò necessariamente limitata) indagine sui fatti storici e sulle loro connessioni causali.
L’ineguagliata profondità del pensiero di Tucidide s’impose all’amministrazione degli storici che seguirono; lo sforzo di una rigorosa rappresentazione dei fatti avvenuti (e di una riproduzione il più possibile fedele dei discorsi pronunciati), nonché di un’approfondita analisi delle cause, non poteva non suscitare il più grande rispetto (e nessuno storico greco seppe elevarsi al livello di queste esigenze tucididee come Polibio), anche se la complessità del suo stile suscita la critica dell’erodoteo Dionisio d’Alicarnasso.
A Erodoto invece neanche i più convinti ammiratori sentivano di poter riconoscere una qualità, che Tucidide sembrava aver posseduto in sommo grado: la veridicità (Momigliano).
D’altro canto, l’aspirazione all’oggettività che caratterizza il metodo tucidideo non risolve davvero la storia di Tucidide in un resoconto freddamente oggettivo dei fatti.
Per quanto si possa discutere sui particolari della visione politica di Tucidide, è innegabile che egli mostri avversione per certe forme dell’imperialismo espresso dalla democrazia ateniese; e mi pare che l’elogio riservato all’oligarchia riservato all’oligarchia moderata del governo dei Cinquemila (in 8. 97, 2) concorra con lo scarso entusiasmo per le masse popolari (in quanto si assumano o consentano ai demagoghi responsabilità di conduzione politica) a configurare una posizione politica conservatrice (con cui non contrasta né l’ammirazione per l’uomo e il politico Pericle né quella per gli aspetti umani e civili del regime politico ateniese, espressa per bocca di Pericle, in 2. 35-46).
Con una schematizzazione non priva di utilità, si possono distinguere nella storia della storiografia greca (mi riferisco al periodo più ‘creativo’, quello che va grosso modo dalle origini sino a Posidonio) due grosse correnti: quella della storia politico-militare (o ‘pragmatica’, per usare un termine della metodologia polibiana), che ha i suoi massimi rappresentanti appunto in Tucidide e Polibio, e quella che evita la rigida selezione che la storiografia ‘pragmatica’ comporta, e dà rilievo alla rappresentazione di caratteristiche e curiosità etnologiche e individuali (accanto alla narrazione dei conflitti): la corrente, insomma, etnografica, descrittiva (con cui è più direttamente in rapporto, per l’esigenza, cui dà luogo, di una rappresentazione della realtà nei suoi aspetti spettacolari e patetici, la storiografia ‘mimetica: cfr. più avanti, Duride).
Tra le due correnti non ci sono comunque nette barriere di separazione, e in diversa misura,  secondo il temperamento, al qualità, la coerenza con le istanze metodologiche dei vari scrittori, l’un tipo di storiografia è permeato dalle esigenze e dagli apporti dell’altro.
Pag. 453-55

Bibliografia

Aspirazione al consenso e azione politica in alcuni contesti di fine quinto secolo a. C.: il caso di Alcibiade / a cura di E Luppino Manes. – 1999
La crisi del 411 a. C. nella Athenaion Politeia di Aristotele / F. Sartori. – 1951
La posizione di Tucidide verso il governo dei Cinquemila / G. Donini. – 1969
Iperbolo ateniese infame / G. Cuniberti. – Il Mulino, 2000
La moneta in Grecia e a Roma / M. H. Crawford. – Laterza, 1982
L’Atene di Aristofane / V. Ehrenberg. – 1957

Cap. 7- Crisi e ricomposizione della “polis” dopo la prima guerra del Peloponneso

Il crollo di Atene nella guerra del Peloponneso vale comunemente quale avvio della crisi della città greca.
Ma che cosa vuol dire “crisi”?
Si può vedere la crisi della polis come scadimento di valori; non è però questo il miglior modo di affrontare il tema.
Parlare di crisi significa constatare e analizzare una “trasformazione”: ma la storia è sempre trasformazione; paradossalmente, si potrebbe dire che la crisi è la forma stessa della storia.
Parliamo, tuttavia, di crisi quando la trasformazione investe uan larga parte degli elementi che compongono l’assetto esistente, e quando i mutamenti si addensano in un determinato periodo, cioè la trasformazione conosce un’accelerazione.
Ne risulta la rottura dell’equilibrio esistente, cui segue poi un altro equilibrio.
I periodo di non-crisi non saranno certo di staticità assoluta, ma di conservazione del rapporto di determinati elementi.
E una cesura importante, nella storia della polis classica, è appunto la fine della guerra del Peloponneso, con la sconfitta di Atene da parte di Sparta e della lega peloponnesiaca (404).
Atene e Sparta, protagoniste, sono emblematiche nel quinto secolo in uan misura ben più netta di quanto lo saranno nel quarto secolo, e dal quarto in poi.
Nel quinto secolo rappresentano non solo città diverse e nemiche, ma modelli di società, di economie, di culture diverse.
La guerra del Peloponneso, che cronologicamente coincide con il momento più alto della classicità, è anche il momento del più consapevole divario all’interno del mondo greco: ne risulta lo scontro e il disastro, la trasformazione non solo per i vinti ma anche per i vincitori.
Basti considerare come l’Atene democratica produca, subito dopo la sconfitta, un’oligarchia dai tratti tirannici e, dopo il suo abbattimento, una democrazia, che, per lo più identica con la precedente sul piano formale, non sarà però la stessa, ma fondamentalmente più moderata, nella sostanza politica.
D’altra parte, questa democrazia alquanto attenuata diventerà la forma politica più diffusa, che investirà la struttura anche delle città che si coalizzarono con Sparta contro Atene.
E’ una vera osmosi.
Le due città, le due società si affrontano, combattono, danneggiano a vicenda, perché diverse; poi finiscono per diventare, proprio attraverso il conflitto, ciascuna un po’ più simile all’altra.
Lo vediamo anche nell’economia: se Atene rappresenta la forma più avanzata dell’economia, in cui accanto all’attività primaria (quella agraria), ha largo sviluppo l’attività secondaria (artigianale, mercantile, monetaria, e nel quarto secolo bancaria di primaria importanza), i germi di questa trasformazione economica finiscono con l’investire le città nemiche di Atene, persino Sparta, roccaforte dell’economia agraria e antimonetaria, la quale conoscerà sussulti, e poi via via un vero sviluppo verso la forma comune dell’economia delle città greche, anche se attraverso vari stadi e momenti drammatici.
Pag. 462-63

Sparta aveva fatto la guerra in nome dell’autonomia delle città greche; ma per un significativo scambio di ruoli, che si verifica via via, toccherà semmai ad Atene, dopo la sconfitta, e l’oligarchia dei Trenta Tiranni, di raccogliere in qualche misura il programma dell’autonomia, quello per cui Sparta aveva fatto la guerra.
Certamente, Atene aveva conseguito una superiorità di cultura e civiltà, di cui gli ateniesi erano orgogliosi: basti ricordare il testo che alla fine del quinto secolo più rappresenta questa affermazione orgogliosa, Tucidide 2.-35-46.
Pag. 463

E’ che stanno emergendo sulla scena politica altri fattori, che intervengono nel gioco.
Se non proprio la Grecia delle campagne, emergono i centri di minore urbanizzazione; è caratteristica in questo senso l’egemonia tebana, che culmina negli anni 371-362 a. C., tra le battaglie di Leuttra e di Mantinea.
Per il modo in cui si esplica, essa non fa che riproporre quel policentrismo, che sarà di nuovo – ma con aspetti diversi rispetto all’epoca arcaica in cui aveva già avuto la sua espressione – la caratteristica della Grecia, nel suo insieme.
Ne segue l’appiattimento del ruolo politico e della funzione di aggregazione, e insieme disarticolazione del mondo greco, propri delle città egemoni, e perciò l’emergere di nuovi poli,  il formarsi e l’assestarsi di una facies politica e culturale, policentrica da un lato e insieme ormai relativamente omogenea al suo interno: sono le novità del quarto secolo, sul piano dei rapporti interstatali, novità che preparano l’assetto della Grecia di età ellenistica e romana.
L’immagine canonica della Grecia, quella che ci è stata trasmessa dagli scrittori romani, è anche quella formatasi nel quarto secolo, al di là dei fulgori e dei contrasti netti del periodo classico.
Pag. 464

Al tempo stesso, sempre per restare nel tema dei rapporti interstatali, si verifica una depressione complessiva della Grecia sul piano internazionale, rispetto a fattori interferenti, o perfino dominanti, come la Persia in una prima fase, e la Macedonia e i regni ellenistici poi.
La fine della guerra del Peloponneso è la cesura intorno a cui si addensano tutte queste trasformazioni.
Ora, perché cesura si sia nella storia, occorre che essa sia sentita come tale.
Sul piano politico, il significato della perdita dell’impero da parte di Atene, la responsabilità della democrazia radicale nello scoppio e nell’esito della guerra, le trasformazioni di ordine sociale e politico che democrazia e impero hanno insieme prodotto, sono ben colti nella storiografia e nella letteratura greca in generale.
Persino chi dell’Impero ateniese dà una rappresentazione sostanzialmente positiva, come Isocrate nel Panegirico, che risale al 380 a. C., si vede poi costretto a dare un’immagine in qualche modo edulcorata dei rapporti all’interno dell’impero, per adeguare l’immagine di Atene a quel che avrebbe dovuto essere e non fu.
In forma, si può dire, contraddittoria e paradossale, emerge anche nell’orazione isocratea la consapevolezza delle responsabilità che Atene si era assunte nell’esercizio dell’impero.
Vero è che questa rappresentazione idealizzante, che consapevolmente adegua alla forma il fatto, potrebbe essere vista come frutto di propaganda, intesa a favorire la ricostituzione della Lega navale.
E’ la tesi, non del tutto accettabile, del grande Wilamowitz (nell’opera Aristotele e Atene, del 1893), che il Panegirico isocrateo sia in qualche modo la carta ideologica che prepara la rifondazione della Lega navale di Atene.
Pag. 464-65

Dal punto di vista della storia economica e sociale, il quarto secolo registra fenomeni che sono nuovi per intensità e qualità, ma che nella sostanza continuano fatti e fenomeni del quinto secolo.
Si afferma talora che nel quarto secolo la comunità civica stessa, specie ad Atene, di essere “socialmente omogenea”, per inglobare categorie economiche diverse: contadini, artigiani, mercanti, proprietari terrieri, schiavi, oziosi: contemporaneamente però questo composito gruppo sociale, in seno al quale le disparità economiche e sociali si sono accresciute, rafforzerebbe la sua unità politica, presentandosi come demos, come insieme di cittadini la cui sovranità si esprime nelle assemblee e nei tribunali.
Il quadro storico sarebbe quello di una comunità civica socialmente omogenea nel quinto secolo, che nel quarto cesserebbe di essere omogenea e rafforzerebbe, però, al tempo stesso, il suo livellamento politico.
Pag. 465-66

C’è da sottolineare, nell’economia del quarto secolo, lo sviluppo delle banche private: prima le banche erano soprattutto templari.
Ma il tempio, il sacro, è l’altra faccia del ‘pubblico’, il pubblico visto in rapporto con la divinità.
E’ l’età ellenistica quella della fioritura delle banche private.
Vi sono banche private ad Atene dalla fine del quinto secolo; su 33 casi di banche private note, pochissimi sono di età preellenistica e si ritrovano ad  Atene, Corinto, Delfi, Bisanzio, Olbia, Egina, ecc.
I primi trapeziti di Atene sono, nel quinto secolo, gli stranieri Antistene e Archestrato, col tempo accolti nella cittadinanza; il denaro preme sulle strutture cittadine.
Nel quarto secolo è solo un’eterogeneità più accentuata, che si realizza attraverso nuove forme di aggregazione, ma che affonda le sue radici in pieno quinto secolo.
Il vero problema, chiarissimo alla coscienza degli antichi, è dunque quello di un’accurata analisi del rapporto  tra privato e pubblico.
Il privato non manifesta la sua forza solo nel quarto secolo; esso ha una sua larghissima possibilità di espressione già nel quinto.
Molte volte si legge che il quarto secolo rappresenta l’esplodere del conflitto tr ala città e l’individuo, il momento in cui fiorisce l’individualismo.
Socrate, personaggio simbolico, identificherebbe es esprimerebbe questo conflitto in maniera drammatica.
Ma bisogna fare una premessa essenziale, che era ben chiara alla coscienza degli antichi: va distinto, in certa misura, fra privato e individuale.
I due termini non coincidono completamente: si potrebbe infatti dire che il privato è una individualità strutturata; anche il privato è in rapporto, fra individui e fra gruppi di individui.
Un singolo animale ha una vita individuale; ma non sarebbe facile parlare della vita privata di un animale senza suscitare il riso; il privato è l’individuale come si esplica all’interno di una società e delle sue strutture.
Credo che alcune delle aporie di quel complesso problema che è la definizione del rapporto di Socrate con la città risultino dal fatto che si è immediatamente adottata come chiave di lettura quella antinomia fra città e individuo, che è soltanto il caso estremo di un rapporto assai frequente e storicamente più significativo e costruttivo, fra pubblico e privato, inteso, quest’ultimo, come qualcosa di più che pura individualità.
Ricordiamo che il più grande sociologo dell’antichità, Aristotele, nel Primo libro della Politica (1253 a), propone la ben nota definizione dell’uomo come “animale politico”, intendendo contrapporre quella forma associativa che è la polis (culmine di un processo ideale, che passa attraverso forme associative minori, quali la famiglia e il villaggio)a una di isolamento totale “che compete soltanto agli dèi o alla bestie”.
Nell’isolamento individuale ci possono essere livelli diversi, che qui vengono esemplificati con due estremi.
Il privato rappresenta una categoria più complessa del puro individualismo.
Quest’ultima è stata la chiave di lettura di tutta una tendenza idealistica, che, nella scelta tra la città che condanna Socrate, e Socrate stesso, non ha naturalmente altra possibilità che scegliere Socrate – cosa che nessuno di noi potrebbe non fare -, ma non si lascia la possibilità di capire le ragioni della città.
A livello di produzione letteraria l’eterogeneità si nota di  meno, sembra che tutto questo crogiolo si sia composto come non mai in un ideale di omogeneità, specie nella retorica.
Mai come ora la storiografia ha prospettato un ideale di concordia sociale; mai come ora è forte l’ideologia della polis: reazione alla disgregazione incipiente, ma anche capacità di manipolazione e omologazione a livello ideologico.
L’assetto sociale resta quello del quinto secolo, ma in esso si accentua la divisione ricchi-poveri; la società tende però a rappresentarsi come unità.
L’idea di una forte trasformazione avviatasi intorno al 404, data della sconfitta di Atene e della fine dell’Impero navale e della democrazia radicale, resta comunque valida in relazione ai fatti politici e militari.
Sul terreno istituzionale, attraverso e al di là dell’oligarchia dei Trenta, si passa a una democrazia di stampo moderato, o meglio più moderato; nel quarto secolo, aspetti particolari del radicalismo pericleo e post-pericleo si vanno attenuando.
Trasibulo è il restauratore della democrazia dopo aver abbattuto i Trenta costituenti, che abbozzavano l’idea di limitare a 3000 i cittadini – con fortissima limitazione, se i liberi maschi adulti erano circa 30.000 (era una radicale decimazione, se la scure dell’esclusione dai diritti politici doveva cadere sui 8/10 dei cittadini).
Trasibulo, esule dall’Attica, dapprima con altri 70 a File, fortezza alle falde del Parnete, si trasferisce al Pireo e si batte a Munichia, nel 403, in uno scontro in cui muore Crizia; ma solo nell’anno di Euclide, settembre del 403, gli oligarchi si ritireranno ad Eleusi, creandovi uno Stato altamente improbabile, che chiude la sua esistenza già nel 401/400.
Nel marzo del 399 Socrate è condannato.
Pag. 467-68

Per gli eventi politico-militari, la data del 404 è una cesura storica.
Ma se pensiamo a Socrate (470/69-399), il 404 è data convenzionale; egli è maestro già nelle Nuvole di Aristofane, anche se il testo che abbiamo è la rielaborazione fatta solo dopo il 423.
L’incontro con Platone è del 407/408, quando già ad Atene si ha sentore che le cose andranno male.
Si può dire che Socrate esercitò l’insegnamento nell’epoca post periclea, nella democrazia degli artigiani, dei bottegai.
Ridurre anche Socrate alla sua misura storica, e riflettere sull’ambiente in cui egli vive, è essenziale.
La singolare vicenda dell’uomo condannato a morte dalla città che egli rispetta più di ogni altro, merita risposta solo dopo l’esame del rapporto Socrate-città; la posizione distaccata del filosofo di fronte alla morte è l’esito di un rapporto complesso.
Socrate appartiene, per formazione, all’epoca periclea: fu visto dai contemporanei come uno dei sofisti (Protagora e Gorgia, più anziani, Prodico e Ippia, più giovani: rispettivamente di Abdera, Leontini, Ceo, Elide – tutti stranieri ad Atene).
Socrate si differenzia già perché puro ‘animale di città’, tipico rappresentante dell’inurbamento alimentato da Atene nel quinto secolo.
E’ ben nota la difficoltà di Socrate ad allontanarsi dalla città prodottasi con il forte inurbamento della metà del quinto secolo, per la politica forse di Aristide, certo di Pericle.
E la ‘missione’ dell’insegnamento socratico cade già dopo il 431, la data più bassa da accettare, con Tucidide, per l’inurbamento.
Aristotele e i peripatetici antedatavano il fenomeno dell’inurbamento, collegandolo con le maggiori disponibilità di denaro e lo sviluppo dell’industria nautica del Pireo, che si integra alla città, formando con l’asty una entità bicefala che emerge come quell’ambiente urbano in cui si svolge l’interrogare (exétasis) di Socrate.
Anche il gusto di Socrate per il rapporto dialettico e i destinatari del suo ‘insegnamento’ si spiegano con la città nella città.
Sul piano filosofico c’è la nuova attitudine socratica a rivolgere l’attenzione all’uomo, di contro alle filosofie naturalistiche.
Socrate non ha certo scoperto l’anthropos, ché l’uomo è già per Protagora “misura di tutte le cose”; educare gli uomini è il compito storico che Protagora si è assunto, secondo il Protagora platonico.
Ma la finalità pratica dell’insegnamento è prevalente per il sofista.
Socrate ha dimensioni e profondità diverse.
Il problema educativo dei sofisti con lui si approfondisce, c’è un progredire e caratterizzarsi nuovo della filosofia.
Del resto, psicologismo, moralismo, pedagogismo (con la correlata verbosità che è, essa stessa, un problema di cultura) segnano l’influenza della nuova riflessione filosofica sulla letteratura.
Confluiscono perciò téchnai diverse in quella storiografia che era allo stato puro in Erodoto e nei logografi.
Ma psicologismo, moralismo, pedagogismo hanno bisogno delle premesse socratiche e delle reazioni a Socrate.
La storiografia conta allievi di Socrate, come Senofonte, e di Isocrate, come Eforo e Teopompo.
Isocrate (436-338 a. C.) esprime il pensiero dell’uomo medio, che è poi la realtà storica con cui si ha a che fare.
Interessante è il rapporto di questo retore con la filosofia, il quale considera filosofia il proprio insegnamento (negli anni 380-370 a. C. ci si contendeva anche l’etichetta di filosofia).
Tutti gli insegnamenti sono filosofici, così anche l’insegnamento pratico di Isocrate, il quale resta personalmente fuori della vita politica; questo atteggiamento lo associa a Socrate, che da Delfi ha avuto il precetto di ‘vivere da privato’; ma con l’insegnamento (si pensi al ruolo di Timoteo, ai rapporti con Filippo di Macedonia) Isocrate vuole condizionare la politica.
Il suo è un insegnamento etico-politico; egli si tiene fuori della politica quotidiana, come Socrate; i loro rapporti con la politica sono dunque mediati.
Pag. 469-70

Diodoro (16. 5) fa intervenire in suo aiuto Socrate, di cui – egli dice – Teramene era discepolo.
Nelle genealogie culturali, non c’è limite alla fantasia degli antichi: Teramene sarebbe stato anche il maestro di Isocrate.
Si creerebbe così una linea genealogica Socrate-Teramene-Isocrate, interessante per ciò che ciascuno rappresenta in filosofia, politica, retorica; interessante anche per le assimilazioni che questa ideale genealogia istituisce, in primo luogo per il problema di Socrate e la posizione mediana, centrista, che a conti fatti si individua in lui.
Del resto, per Isocrate e la sua scuola, democrazia e patrios politeia finiscono con l’identificarsi.
Quelle che erano le tre posizioni politiche vigenti ad Atene dal 404, secondo lo schema aristotelico,  finiscono col dar luogo a uan sostanziale ricomposizione; sicché, nel corso del 4. secolo, si ha una convergenza di fatto delle posizioni che si riconducono all’idea di patrios politeia, e persino certe istanze di parte oligarchica possono figurare sotto il connotato della democrazia.
La patrios politeia non riuscirà a diventare il nuovo modello politico; formalmente sarà la democrazia, infatti,  a vincere, ma essa si adatterà (e qui si completa il processo di ricomposizione) ad assorbire tante istanze della patrios politeia,  e in tanto essa non sarà contrastata, in quanto si sarà trasformata.
Il processo, anche sul piano lessicale, è chiaro, se seguiamo con attenzione la storia della parola demokratia, che nel 4. secolo si avvia a significare di nuovo “forma libera, repubblicana”, a recuperare cioè quel significato generico di opposizione alla tirannide o alla monarchia, che però non oblitera mai in assoluto la possibilità di un significato più specifico.
Pag. 474

Nell’emendamento di Clitofonte si parla di patrioi nomoi, cioè di “leggi patrie”; nel 404 si parlerà con certezza di patrios politeia.
C’è differenza?
Alla lettera una gran differenza non c’è.
Finley considera alcuni momenti della storia politica anglosassone e americana e il senso che ha in essa il richiamo alla ‘costituzione degli antenati’, cioè al valore costitutivo del passato; la trasformazione politica non si può proporre, se non operando su modelli.
Qualcosa di più e di diverso bisogna dire però sul mondo greco.

Certo, patrioi nomoi non significa “leggi specifiche”, di contro a un patrios politeia che indicherebbe le “leggi di livello costituzionale”.
Per questo aspetto non si può distinguere; ma è tutto il contesto delle due esposizioni che va rimeditato.
Noi vediamo che i patrioi nomoi, nell’emendamento di Clitofonte, appaiono come un correttivo, un elemento accessorio, della proposta di Pitodoro di riformare la costituzione “per la salvezza” di Atene, di fronte ad un’idea generale ancora indefinita, c’è la ricerca del ‘meglio’ politico.
In concreto, per Clitofonte si tratta di recuperare le leggi poste da Clistene quando istituì la democrazia, in quanto la sua costituzione viene sentita in ambienti oligarchici come non troppo popolare, ma alquanto vicina alla costituzione di Solone.
Così si pensa di garantirsi nei confronti degli affezionati alla democrazia: si tutelano quelle leggi di origine lontana, che sono state accolte, fra le altre, nel fascio di leggi della democrazia.
Pag. 478

Socrate è condannato, tra l’altro, come maestro di Crizia e di Alcibiade, nel 399.
Perché solo allora e non nel 403?
Taylor si è posto il problema, e lo risolve, supponendo che gli ateniesi non ebbero materialmente il tempo nel 403, al rientro della democrazia,  di mettere sotto processo Socrate.
La spiegazione è che la rivoluzione e la controrivoluzione (404/403) avessero portato il caos nel lavoro ordinario dei tribunali: tutto il corpo delle leggi attiche dovette essere sottoposto a revisione, e codificato, ad opera dei 500 nomothétai, che conclusero i loro lavori sono nell’anno 401 (altri nomothétai, sistematori di leggi, sono attivi comunque nel 4. secolo).
Ecco perché il procedimento contro Socrate non poté essere avviato nel 403; in realtà Anito si sarebbe mosso non appena fu praticamente possibile.
La spiegazione è di carattere formalistico; l’interpretazione più soddisfacente, ma che va resa un po’ esplicita, è quella di De Sanctis: l’integrale unità della polis, che si voleva ricostruire al prezzo della rinuncia alle vendette, sarebbe stata frantumata dal logos di Socrate e dal suo daimon; in sostanza, la riconquistata unità esigeva che si eliminassero gli autori di azioni dissolvitrici, come Socrate.
Sostanzialmente, ciò coglie nel vero, anche se possiamo tentare di veder meglio i fattori, le condizioni, le circostanze di questa nuova unità.
Mi pare comunque da escludere quell’impostazione, in parte di tipo individualistico, in parte centrata sul tema dell’empietà, che finisce con il relegar in secondo piano le considerazioni di ordine politico, che invece spiegano le ragioni della scelta di quella data.
E’ la posizione di Finley, per il quale sia Platone che Senofonte lasciano intendere che la risposta nella scelta del momento per il processo a Socrate sarebbe di carattere individuale: Anito, Meleto e Licone si sarebbero coalizzati contro il filosofo per ragioni personali, su cui possiamo fare soltanto delle congetture.
Eppure in Platone, Apologia di Socrate 23 2 24, si parla appunto dell’attacco sferrato da “Meleto adirato a nome dei poeti, da Anito a nome dei demiourgoi (scil. Degli artigiani), e da Licone a nome dei retori”.
Nei Memorabili di Senofonte ricorrono pettegolezzi sulle ragioni personalissime di rivalità fra Anito e Socrate, il comune interesse per Alcibiade; e tutto ciò fa parte di una aneddotica, che in teoria  potrebbe anche avere un qualche fondamento, ma che non emerge affatto in primo piano.
Sociologicamente legato all’esperienza della cultura democratica e urbana, certamente Socrate non rappresenta l’ala democratica; sappiamo attraverso quali e quanti momenti passi il suo maturare posizioni politiche diverse.
Egli ebbe un continuo contatto con l’ambiente degli artigiani, ma – questo risulta esplicitamente dai Memorabili di Senofonte – era convinto che si dovesse riformare il sistema elettorale ateniese, eliminando il sorteggio, perché  - dice Socrate in un famoso passo dei Memorabili (1. 2, 9) – “quando ci affidiamo a un timoniere, o a un falegname, o a un flautista, non lo scegliamo col sorteggio; invece i governanti li scegliamo col sorteggio”.
Quindi, semmai, c’era in lui l’interesse a modificare i sistemi elettorali nel senso della scelta non con il sorteggio, ma con un voto di designazione che premiasse le competenze reali nel campo politico.
Egli vuole trasformare (e proprio in questo è la genesi del suo tendenziale distacco dalla democrazia) la politica in una téchne, cioè in una attività di ‘competenti’.
Pag. 484-85

Le accuse a Socrate furono fondamentalmente due nella formulazione definitiva, quella che noi troviamo in Diogene Laerzio, 2. 40.
La prima era il theous ou nomizein (il “non onorare gli dei”, che Socrate estremizza nel “non credere negli dèi”, perché più facilmente smentibile, visto che lo si accusava di onorare nuovi daimonia); l’altra accusa è quella di avere “guastato” i giovani.
Anche nei Memorabili di Senofonte c’è quest’ordine nelle accuse.
Platone ha stabilito un nesso fra le due: della negazione del culto cittadino e dell’introduzione di nuove divinità egli ha fatto l’oggetto stesso di quest’opera di “corruzione”; il contenuto dell’opera di corruzione è esattamente la sollecitazione all’empietà; di fatto egli ha reso il diaphtheiren tous néous la forma, e il theous ou nomizein la sostanza, delle accuse a Socrate.
Quando si prescinda dalla formulazione dell’accusa nei termini in cui fu scritta, appare comunque evidente il peso che ebbe il richiamo alla responsabilità di Socrate come maestro di Crizia e Alcibiade.
Nel 399 si è a poca distanza di tempo dalla seconda e definitiva conciliazione tra democratici e non democratici, essendo stata cancellata l’autonomia di Eleusi.
E’ anche l’unico momento per cui Senofonte, alla fine del secondo libro delle Elleniche, richiama esplicitamente l’amnistia, la formula del mè mnesikakein come impegno formale del “non recriminare”.
Aristotele ha certo esaltato il 403 come il momento della homonoia, della concordia; ma quand’è che veramente la frattura si salda?
Appunto, quando rientrano anche gli oligarchi di Eleusi, nel 401/400 e comincia la vera ricomposizione.
Allora la storia arriva a compimento, ed emergono Anito e Meleto; di Licone sappiamo poco.
Pag. 486-87

Quindi non si capisce l’itinerario di Socrate, senza vederne l’inizio nella realtà democratica ateniese.
La tradizione aristocratica della ricchezza e della posizione sociale è un valore di crisi, ma al suo posto, d’altro canto, è emersa ad Atene un’altra tradizione, quella dei grandi personaggi politici della democrazia.
Nel Menone Socrate ammette che ciascuno dei grandi del passato (Temistocle, Aristide e Pericle in primo luogo, e poi anche Tucidide di Melesia) siano degli agathoi; ma nega che i figli ne abbiano ereditato la virtù politica.
A lui Anito replica, difendendo il ruolo della gente comune e delle leggi nell’educazione politica e reagisce con durezza e minacce all’ironia sottile da Socrate sulla galleria di personaggi eminenti della storia democratica.
Pag. 488

Torna quindi utile l’idea di ‘parabola’ che si completa, per dare una plausibile ricostruzione della vicenda di Socrate.
La sua fine credo che aiuti realmente a chiarire i suoi inizi e tutto l’arco della sua storia.
C’è in Socrate un atteggiamento nativo, originale, di ricettività, di docilità, che si verifica sotto vari aspetti.
Non sembri, così, un Socrate eccessivamente passivo: primo, perché non lo è, in quanto sull’atteggiamento iniziale di ricettività, di docilità (che è solo la condizione preliminare), immediatamente si imposta in lui tutto quel che compete alla sua potenza intellettuale, alla sua autentica ansia di ricerca.
Egli svolge la sua attività, di fatto educativa, nella forma dell’interrogazione, dell’esame (exétasis), e già questo dice quel suo carattere originario di philomathés (“colui che ama apprendere”).
Ma l’interrogazione è soltanto il varco attraverso cui passa la comunicazione con l’altro; ed è ovvio che a personalità in quel rapporto più potente (che è senza dubbio Socrate) percorra questo varco a svantaggio dell’altro; e la domanda finisce con l’essere solo lo strumento che cattura l’altro nella logica di chi comanda.
Dunque, sulla preliminare forma passiva reagisce immediatamente tutta la potenza intellettuale di Socrate.
Nella bibliografia, vastissima, sono addirittura rappresentate posizioni che presentano Socrate come un pensatore del tutto passivo e non costruttivo, coem un uomo che “non aveva nulla da dire”; esse sono state giustamente respinte.
Ci si domanda perché Socrate, che per tutta la vita ha posto a base del suo ragionare il dubbio e ha contestato qualunque forma di autorità di principio, accetti l’ingiunzione, che gli viene dalle leggi, di morire perché la città lo ha condannato.
Ma, paradossalmente, proprio la condanna a morte e l’accettazione di questa condanna rappacificano Socrate con la città e con se stesso.
La fine lo riconduce ai suoi inizi: e i suoi inizi erano quelli di un atteggiamento di nativa obbedienza, di originaria, nativa docilità.
A questo lo riconduce la condanna a morte, e questo traspare dal discorso che, nel Critone platonico,  Socrate immagina gli rivolgano le Leggi.
Le Leggi (Nomon) nel famoso dialogo che Socrate immagina esse intreccino con lui, iniziano con il ricordi dell’infanzia: come Socrate nacque e come fu educato (50c-e).
Le Leggi qui si propongono come figure protettive e materne (o paterne, se si vuole tener conto del genere maschile di nomoi).
Le prime parole che le leggi dicono a Socrate, sono: ”Noi ti abbiamo generato. In virtù di noi, per opera nostra, tuo padre ha preso tua madre e ti ha seminato e piantato”.
Cioè a generarlo sono state le Leggi, il padre ha soltanto fatto opera di colui che pianta (phyteuei).
E gli domandano: “Hai da lamentarti di quelle fra noi che regolano i matrimoni?”.
Tutta la sua storia biologica, affettiva, educativa (sono le Leggi che gli hanno imposto l’apprendimento della ginnastica e della musica), è dovuta ad esse.
La prima risposta di Socrate è ou mémphomai: “Non ho nulla da rimproverarvi”.
Questo è un ritorno completo, un rientro nel grembo materno; la fine veramente qui illumina il principio,
Socrate non muore disperato o maledicendo la città, la città storica, cioè la città democratica.
Chi avesse veramente percorso per intero un cammino di rottura, avrebbe finito gridando contro la città.
Invece Socrate immagina di lasciarsi guidare con molta docilità alla morte, quando gli amici potevano permettergli una fuga altrove.
Ma la replica di Socrate, dell’uomo che, settantenne, è condannato a morte, è nella sostanza: “Questa è la mia casa: dove mai dovrei andare?”.
E’ come dire: la città dà, la città toglie.
Pag. 489-90

Il problema dell’affinità, o della diversità, delle idee politiche di Socrate e di Platone trova il suo campo di verifica più diretto nel tema del filolaconismo, cioè del giudizio di entrambi su Sparta e dell’atteggiamento favorevole nei confronti della costituzione aristocratica spartana, che, evidente in Platone, va invece verificato in Socrate.
In relazione all’analisi che di Socrate e di Platone faceva Karl Popper – tutta in chiave di condanna del totalitarismo platonico, e di difesa, invece, del messaggio politico socratico, che Popper trovava affine a quello dei vari umanitari ed ugualitaristi che vanno da Protagora ad Antistene – va osservato che egli si doveva confrontare con un passo del Critone (52e-53°), che, inteso come prova di filolaconismo in Socrate, gli si raccomandava per l’espunzione.
Ma non c’è nessun bisogno di espungerlo, perché la tesi di Popper, e in generale di coloro i quali negano l’assimilazione, soprattutto sul terreno decisivo del filolaconismo, tra Socrate e Platone, resta tesi valida anche senza eliminare questo passo.
Esso sta invece bene come suggello all’interpretazione di tipo dialettico, che di Socrate ha proposto, in relazione alla città democratica, alla cultura democratica e urbana, di cui egli in prima istanza è frutto ed espressione (non in senso deterministico naturalmente, ma nel senso che quella cultura è la grande condizione storica, da cui può nascere, per virtù propria, l’opera e il messaggio socratico).
La sua appare come una tensione irrisolta fra le sollecitazioni che vengono dalla città democratica, dalla cultura democratico-urbana con cui egli è tanto legato, da un lato, e le prospettive che, per le forme del suo insegnamento per l’ambiente che lo recepisce e per alcune sue autentiche riflessioni su carenze della democrazia in cui egli vive, lo portano, dall’altro, ad orientarsi verso una prospettiva aristocratica: ma non approda alla scelta definitiva che sarà di Platone.
Interpretazione dialettica significa che la tesi e l’antitesi convivono in una sintesi, che, fra l’altro, ha una storia nel tempo.
La prova è sempre nel discorso che le Leggi fanno a Socrate per convincerlo a restare e a subire la condanna: “Tu ti accingi a violare quei patti, quegli accordi, che hai stretto con noi, non per costrizione e nemmeno per inganno, e nemmeno costretto a decidere in poco tempo, se noi non ti piacevamo e se non ti sembravano giusti i patti stretti. Ma tu non hai preferito ad Atene né Sparta né Creta, che, ogni volta che puoi, dici ben governate (eunomeisthai), né alcun’altra delle città greche o barbariche; e ti sei poi allontanato da Atene meno di quanto facciano gli zoppi, i ciechi, e gli altri invalidi. Così straordinariamente, rispetto alle altre città, ti piaceva la città di Atene, ma evidentemente anche noi leggi ti piacevamo: a chi potrebbe infatti piacere una città senza le leggi? E ora, dunque, non resterai ai patti stretti? Si, se ci dai ascolto; e tu, Socrate, non diventerai ridicolo, uscendo dalla città”.
Sembra quasi che Platone replichi a una possibile obiezione, che Socrate fosse legato solo all’ambiente fisico di Atene e alle relative abitudini; ora, sono state proprio le Leggi, quelle leggi di quella città, a trattenere il filosofo ad Atene e a fargli accettare la condanna.
Posizioni critiche, ma legaliste,  di questo tipo, ci potevano essere nella democrazia ateniese (si pensi a un personaggio come Cimone); ma ancor di più Socrate è innervato in questa storia democratica e urbana, perché ha origini umilissime, e con questa città è legato fino in fondo: di questa città egli accetta l’ambiente fisico, ma anche tutte le leggi, pur se riconosce di aver simpatia per l’eunomia, cioè per i principi di “buon governo”, che vigono altrove.
Dunque, Socrate non ha scelto la costituzione spartana, non ha scelto il complesso delle leggi spartane.
Il passo del Critone non nuoce a chi sostiene il non compiuto filolaconismo di Socrate, e non giova a chi lo considera un elemento di dimostrazione dell’opzione spartana del filosofo; al contrario, lascia vedere il giusto rapporto tra la concezione socratica e quella platonica, che è pienamente aristocratica e attinge, naturalmente modificandolo, al modello storico spartano.
All’inizio del quarto secolo, probabilmente i cittadini spartani sono un po’ più di 3000; questo è un modello, rispetto a cui la polis myriandros (di circa 10.000,  o da 10.000 cittadini in su) rappresenta una soglia di rischio.
E invece al di sotto, o entro quella che sembra ancora una soglia rispettabile, si ha una città di dimensioni possibili, una comunità di cittadini che non significa necessariamente la comunità di tutti gli abitanti, perché il modello spartano prevede anche la possibilità dell’esistenza di liberi, che non siano né servi, né cittadini.
Ad Atene, la democrazia è tentata da progetti riduttivi, che non passano, sicché il contrasto politico si trasferisce all’interno della stessa città democratica, in uno sforzo di riassestamento dei rapporti fra il vecchio strato  oplitico-proprietario e i nuovi ricchi da un lato, e i teti dall’altro, che hanno avuto molta voce in capitolo nel quinto secolo, e ne avranno di meno nel quarto.
Pag. 491-93

Tra i tre aspetti della libertà che noi cogliamo nella triade eleutheria, demokratia, autonomia, è l’eleutheria quello di cui Sparta prova a farsi campione nel corso della guerra del Peloponneso e subito dopo di essa.
Eleutheria è la libertà come principio, l’indipendenza cioè, ma, più in generale, e in assoluto, la libertà; il comportamento di Lisandro è però una smentita della prospettiva politica di libertà come principio.
La demokratia non può certo essere la parola d’ordine della politica spartana, e perciò la libertà politica interna dell’uomo greco non può essere il fine di tale politica e, meno che mai, quella di Lisandro.
Tuttavia, per quanto riguarda l’indipendenza dei greci nei confronti della Persia, con le campagne di Tibrone, Dercillida e Agesilao in Asia Minore – che si svolgono tra il 400 e il 394 a. C. -, Sparta tenta di assolvere il ruolo di patrona della grecità in generale: il risultato ultimo di questa politica sarà nei fatti la pace di Antalcida (386), che certamente non sancirà la libertà per le città greche d’Asia, anzi sarà uan rinuncia da parte spartana alla funzione di patronato nei confronti dei greci d’Asia.
Tuttavia Sparta si era mossa realmente, da Tibrone ad Agesilao, nel senso di una difesa dell’eleutheria delle città greche d’Asia.
Pag. 496-97

Che cosa insomma di singolare in questa guerra?
Il fatto che essa sia al fondo una guerra di cui non si può venire a capo senza soluzioni drastiche: da un lato c’è l’esigenza di autonomia dei greci, che coincide con il desiderio di liberarsi dalla paura di una minaccia sempre incombente, dall’altro il re persiano non rinuncia all’affermazione della sua sovranità fino alla linea della costa.
Una volta affermato questo principio, e rifiutata l’autonomia e la libertà ai greci, si potranno infatti prelevare tributi, e si potrà collocare (ma non è detto che lo si debba) una guarnigione persiana nelle città o nel territorio.
Si profilano i dati del rapporto tra città e sovrano, che i greci vivranno soprattutto nel periodo ellenistico (salvo che gli stati territoriali con cui avranno a che fare saranno allora greco-macedoni).
Le città greche temono la grande potenza territoriale alle loro spalle e invocano l’aiuto dei confratelli della madrepatria, in questo momento degli spartani, che, avendo distrutto l’impero di Atene (il quale, bene o male, rappresentava un supporto militare, politico e morale per i greci d’Asia), ora devono coerentemente subentrare allo scomparso patronato ateniese delle città della Ionia.
Pag. 504-5

Si verifica un nuovo ribaltamento della politica spartana nei confronti della Persia; un ribaltamento che sarà appena contraddetto da qualche fatto episodico di segno diverso.
Il protagonista di questo rovesciamento di fronti è Antalcida (o Antialcida, secondo la forma epigraficamente attestata).
D’altra parte nel 392 c’è lo stesso interlocutore che troveremo negli anni 388-386, Tiribazo, il satrapo persiano di Sardi, di orientamento filospartano.
Anche la Persia, ovviamente, opera un mutamento di linea politica.
A Sparta, la linea filopersiana certamente trova in Antalcida un interprete costante; ancora per buoni 25 anni egli continuerà a praticare una politica di intesa strettissima con la Persia, e quando, circa il 367, conoscerà un fallimento su questa strada, si suiciderà.
Agesilao ha certo al suo attivo tutta la campagna antipersiana; però ad esercitare una costrizione, con minaccia di intervento, sui beoti e sugli argivi e i corinzi perché accettino la pace del re (o pace di Antalcida), sarà nel 386, proprio Argesilao.
Quindi momenti e atteggiamenti sono probabilmente diversi, nei comportamenti dei due spartani, ma non si concretano realmente in uno scontro di linee politiche contrapposte.
Antalcide è comunque l’interprete della svolta filopersiana di Sparta tra il 393 e il 392, una svolta che, alla prova dei fatti, viene largamente condivisa nella città.
E’ Antalcida a denunciare (nel 393), al governatore di Sardi Tiribazo, il fatto che gli ateniesi, con i soldi ricevuti da Fornabazo, ricostruiscono le Lunghe Mura, e si dotino di una flotta.
Senofonte presenta la denuncia in una maniera molto obiettiva, fornendoci elementi per imputare di grettezza Sparta, che, per la sua rivalità con Atene, non esita a rinunciare a una politica, cui ha dedicato impegno, forze, vite umane.
Sparta cambia quindi direzione.
E seguono, nel racconto senofonteo, le trattative di pace di Sardi.
Antalcida, dopo aver fatto le sue denunce, offre dunque al governatore persiano la rinuncia alla tutela dell’autonomia delle città greche d’Asia.
Come si diffonde la voce di questa intesa persiano-spartana,  vengono a Sardi anche i rappresentanti degli ateniesi, degli argivi e dei tebani.
Il compenso per Sparta, il principio su cui Tiribazo e Antalcida possono intendersi, è quello dell’autonomia delle città greche non d’Asia.
Quelle d’Asia sono dunque rimesse alla sovranità del re di Persia, quelle della madrepatria dovranno regolarsi e organizzarsi secondo il principio dell’autonomia.
Ma l’autonomia è concetto polivalente, che può usarsi contro i persiani (e, sotto questo aspetto, gli ateniesi continuano a difendere i greci d’Asia, mentre gli spartani vi rinunciano); può valere però, in quanto applicato al mondo greco e ai suoi rapporti interni, contro Atene e contro tutti quelli che vogliono costituire coalizioni regolate da un rapporto egemonico, e opposte a Sparta.
Sparta è interessata alla seconda faccia del principio dell’autonomia, e quindi a un regime di autonomia interna al mondo greco, che possa frenare le pretese egemoniche di Atene, o quelle di Argo (concretatesi nell’annessione di Corinto), o quelle dei tebani sull’intera Beozia.
Di fronte al rischio di vedere frustrate le proprie aspirazioni egemoniche, ateniesi, argivi e tebani rifiutano la proposta di Tiribazo di una pace fondata da un lato sulla rinuncia alla difesa dell’autonomia dei greci d’Asia, dall’altro sull’estensione generalizzata del principio di autonomia ai rapporti intragreci.
Gli ateniesi, secondo Senofonte, non volevano questa pace perché temevano di essere privati di Lemno, Imbro, Sciro; gli argivi non la volevano perché si vedevano privati di Corinto, che avevano assorbito nella nuova Argo (ed è oggetto di scandalo, nella storia dei greci, l’annientamento di un’identità cittadina); non la volevano i tebani, che intendevano conservare la loro egemonia in Beozia.
In Senofonte, che è un filospartano, si riconosce certo un’interpretazione riduttiva delle ragioni del comportamento dei nemici di Sparta, ma è lui stesso a informarci che Conone aveva convinto Farnabazo a lasciare autonome le città, e a descrivere, in maniera oggettiva, i sondaggi degli spartani presso i persiani, e le loro denunce, che nessuno potrebbe giudicare come un comportamento molto onorevole.
L’oggettività storica è qui realizzata, forse un po’ meccanicamente, come somma di due valutazioni di segno diverso.
Pag. 509-11

Il re Artaserse “ritiene giusto” che siano le sue città d’Asia, e insieme Cipro e Clazomene (un’isola grande e una piccolissima che si trova in un’ansa della costa asiatica a nord di Teo e a oriente di Eritre e contiene il nucleo delle città, che ha un suo territorio anche sul continente).
In queste precisazioni c’è il rigore della definizione del confine geopolitico (le due isole appartengono all’Asia e quindi spettano alla sovranità del re); ma esse erano state anche veramente oggetto dell’attivismo degli ateniesi negli ultimi anni.
Diverso è il discorso per le altre città greche: in Europa esse possono, anzi devono, essere autonome.
Il re sancisce l’autonomia di città piccole e grandi, tranne Lemno, Imbro e Sciro; le cleruchie dovranno essere ateniesi, come già erano prima.
Se qualcuno si opporrà a questa pace, o non l’accoglierà, il re gli muoverà guerra su tutti i fronti e con tutti i mezzi.
Diodoro dice che la pace lasciò malumore fra gli ateniesi, i tebani e alcuni altri dei greci, per il fatto che con essa erano state cedute le città greche d’Asia; ad esserne lieti furono solo gli spartani.
Senofonte dal canto suo ricorda che tutti i greci accettano e giurano: salvo che i tebani vorrebbero giurare per i beoti, con questo mettendosi già in conflitto con la pace che stanno giurando, perché non vogliono evidentemente riconoscere l’autonomia alle città beotiche.
A ciò si oppone Agesilao; gli ambasciatori tebani tornano per consultazioni a Tebe; ma Agesilao nel congedarli annuncia loro un intervento militare, se non accetteranno la pace soltanto a nome di Tebe, senza quindi invocare l’egemonia sulla Beozia e la sua rappresentanza.
In effetti, egli non si limita a minacciare la spedizione, ma già la organizza e stabilisce il quartier generale a Tegea in Arcadia.
Ma quando a Tebe si sa dell’imminenza dell’attacco spartano, si accetta la condizione di ‘firmare’ a solo proprio nome, e non in nome della Beozia.
Come si vede, non c’è nessun sostanziale conflitto tra la linea politica di Agesilao a e quella di Antalcida: il primo è in definitiva solo il braccio armato della politica di Antalcida.
A Corinto c’è un certo ritardo nella esecuzione degli impegni: la parte democratica al potere teme che, una volta rimossa la tutela argiva, gli oligarchici rientrati possano farle pagare le stragi che nel 392 essa aveva compiuto, perciò trattiene la guarnigione di Argo; a una nuova minaccia spartana segue l’attuazione degli impegni anche da parte corinzia.
A questo punto, Sparta ha finalmente ottenuto ciò che voleva: ha abolito l’egemonia tebana in Beozia, ha reso autonoma Corinto, ponendo fine all’annessione argiva, ed ha ottenuto, almeno in linea di principio, da parte di Atene, il riconoscimento che i rapporti interstatali nel mondo greco si debbano regolare sul principio dell’autonomia (il che comporta almeno una certa remora alla ricostituzione di un suo impero navale).
Pag. 517-18

L’esito ultimo è la magna charta, la “carta di fondazione” (o piuttosto il “manifesto” di ampliamento del nucleo) della Lega navale attica, che si trova iscritta nella stele detta “di Nausinico” dal nome dell’arconte (378-377) sotto cui si data la rifondazione della lega e la redazione dei principi su cui essa si rifonda.
Questo decreto, proposto dall’ateniese Aristotele di Maratona, è datato alla settima pritania, quella della tribù Ippotoontide, il che ci porta al febbraio-marzo del 377.
Il testo del decreto di questa “carta di rifondazione della Lega navale ateniese” occupa la faccia anteriore della pietra e serve a registrare i nomi di coloro che aderirono al patto federale in diversi periodi.
Il testo si articola in due parti: indica, innanzi tutto, le finalità della symmachia (alleanza), che sono sostanzialmente due: che gli spartani lascino vivere in pace i greci “liberi e autonomi”, e inoltre che venga fatta salva la “pace generale”, che i greci e il re avevano giurato.
Come è evidente, il principio dell’autonomia, che era stato solennemente sancito dalla pace di Antalcida, viene esplicitamente richiamato, come un fondamento che non si intende in alcun modo violare; ma la pace di Antalcida viene messa abilmente a frutto dagli ateniesi, che si ritagliano, all’interno del nuovo assetto interstatale greco garantito dal re, tutti gli spazi possibili ed usano il principio di libertà ed autonomia, questa volta (con uan esplicitezza che è rara nello stile epigrafico, spesso incline ad eufemismi e preterizioni), proprio contro Sparta.
Il principio si ritorce ora contro Sparta: nell’ottica ateniese, Sparta è servita; il cerchio, apertosi con la guerra del Peloponneso e la sconfitta del 404, si chiude 26 anni dopo.
Pag. 518-19

Quali le condizioni della città per l’avvenire?
Ora figurano motivi autocritici sull’esperienza del quinto secolo.
Gli alleati devono aderire rimanendo liberi ed autonomi, conservando il regime politico che vogliono.
Salvaguardia, dunque, nei confronti di Sparta, che aveva fatto un cattivo uso del principio della eleutheria e dell’autonomia, con l’imposizione delle guarnigioni ed altro ancora, ma anche critica verso il comportamento ateniese del quinto secolo, quando c’erano state forti interferenze nei regimi politici, abusi nell’occupazione di terre degli alleati e altre forme di limitazione della loro sovranità; e, soprattutto, all’oppressivo tributo annuale (phoros) vengono sostituite le contribuzioni occasionali (syntaxeis); le decisioni saranno prese dall’assemblea di Atene e dal consiglio degli alleati (a cui è dunque riconosciuto un qualche diritto di veto).
Pag. 521

Note integrative

Sul rapporto di Platone con la politica

Non è possibile qui dare neanche sommariamente conto dell’opera del filosofo Platone (427-347 a. C.); converrà limitarsi a indicarne il ruolo dal punto di vista delle interconnessioni tra politica e cultura.
Nell’opera di Platone confluiscono le più diverse esperienze di pensiero, come l’idea dell’essere dell’eleate Parmenide, filtrata attraverso la pluralità dell’essere uno di Anassagora o di un Democrito, e la nozione socratica di eidos (idea).
Profonda è inoltre l’influenza del pitagorismo, forse mediata già da personaggi della diaspora pitagorica nel Peloponneso e in Beozia, susseguente alle rivolte antipitagoriche in Italia meridionale della metà (?) del quinto secolo, nonché di personaggi tebani già della cerchia socratica, ma certo rafforzata dai rapporti di Platone con l’Occidente, che matureranno, negli anni ’60, nella stretta amicizia con Archita di Taranto.
E’ stato giustamente osservato che il pitagorismo ha su Platone una presa ben più forte che su Socrate (Isnardi Parente); d’altra parte, in lui il pitagorismo conosce una rivitalizzazione di prim’ordine, che si verifica mediante un contemperamento con esperienze politiche e culturali differenti,  atto a rendere il pitagorismo accettabile anche in ambienti diversi da quelli intimamente congeniali dell’Italia meridionale.
La giusta chiave per l’interpretazione del pensiero di Platone è dunque quella, profondamente storica, che ne analizza le componenti; le dominanti sono di chiara impronta aristocratica, passate tuttavia anch’esse, necessariamente, attraverso esperienze culturali e politiche proprie dell’ambiente democratico ateniese.
Solo l’adozione di un modello interpretativo duttilmente storico, attento alle innegabili ascendenze, e insieme all’apporto personale che – in prima istanza – è quello dell’armonizzazione di esperienze molteplici, risparmia all’interprete di Platone il rischio di teorie volte a evidenziare contraddizioni, pentimenti, deviazioni, a fare cioè uso di categorie negative.
Visione storica significa visione positiva delle componenti e dei nuovi equilibri che fra esse si determinano, certo nell’elaborazione creativa del filosofo.
Realismo e idealismo sono forme di pensiero coesistenti, in grado diverso nelle diverse fasi, nella teoresi platonica: il mondo dell’esperienza quotidiana si presenta perciò in essa come mimesi del mondo delle idee, ma ora come mera ombra dell’essere reale (il mito della caverna nel decimo libro della Repubblica) ora come dispiegamento di modelli primi; la teoria del corpo come tomba (soma/sema) non produce ancora una rinuncia alla cura della fisicità.
La condanna, che nella Repubblica riguarda in blocco le arti figurative, si definisce poi più precisamente /nel Sofista) come condanna del pathos che investe l’arte post-fidiaca.
Da un punto di vista sociologico, del resto, l’esperienza delle attività artigianali, in qualche misura familiare,  almeno teoricamente, ad ogni buon ateniese,  e che era stata così strutturalmente importante nella riflessione socratica e non aveva mancato di influenzare persino un oligarca estremo come Crizia, si rivela presente in tutto l’arco della riflessione platonica, sia come accortissima eco dell’atteggiamento di Socrate, nei primi dialoghi, sia nell’ideazione della struttura della città nella Repubblica, sia infine (anche se ormai piuttosto sul terreno delle grandi metafore di impiego teoretico) nel Timeo, con la concezione del dio-creatore come dio-artigiano (demiurgo).
E’ vano negare il filolaconismo di Platone, anche se, ovviamente, da un costruttore di teorie non ci si attenderà che egli si limiti a fare richiamo a un modello storico definito, da riprodurre sic et simpliciter.
Il nuovo tipo di ‘intellettuale’ dell’epoca, che si pone in rapporto critico con la società che lo esprime, ma è anche desideroso di influenzarla, non è comunque quello di un intellettuale neutrale nelle scelte politiche di fondo, che sono appunto scelte aristocratico-laconiche o (che è molto simile) aristocratico-pitagoriche: ne deriva il ruolo dei filosofi governanti e dei guerrieri, nella città ideale della Repubblica, così come il ruolo del “consiglio notturno” e segreto dei supervisori nelle Leggi.
Questa sono scelte esplicite ed inequivocabili; solo che l’ambientazione culturali di questi orientamenti è profondamente e sapientemente attica.
E’ ben chiaro che l’ideale platonico in tema di governo politico è il gruppo, selezionato e chiuso, di grandi saggi, che siano essi stessi il governo o che lo affianchino come consesso di eminenze grigie, ma l’esperienza attica non è certo passata invano, nel sangue e nella mente di Platone.
Ed è essa che spiega la sua attenzione alla scrittura, alla quale viene affidata la diffusione delle idee; l’apprezzamento codificato nelle Leggi, delle legislazioni scritte, a cui si accompagna una rivalutazione del ruolo della proprietà privata, dopo le proposte di tipo collettivistico (di matrice laconico-pitagorica, cioè aristocratica) della Repubblica; la connessione della sua scuola con un ginnasio pubblico.
Tutto ciò, oltre alla diversificazione ormai crescente, e divenuta consapevolezza della separabilità, tra ruolo intellettuale e funzione politica, spiega perché Platone corresse, in patria, assai meno rischi di Socrate.

Senofonte

Figlio di Grillo, nacque ad Atene, secondo l’opinione prevalente tra il 430 e il 425 (secondo una tradizione, recuperabile in Diogene Laerzio, 2. 22, 48 sg., 55, 58 e in Strabone, 9. C. 403, circa il 440) e morì verso o poco dopo il 354 a. C.
Nel 404 pare militasse per i Trenta Tiranni contro Trasibulo.
Fu discepolo di Socrate.
Partecipò alla spedizione dei Diecimila al seguito di Ciro il Giovane contro Artaserse 2. di Persia; prese parte alla battaglia di Cunassa, nel 401, e assunse fra i superstiti della sfortunata spedizione funzioni di comando, che tenne fino alla primavera del 399.
Forse rimase in Asia tra il 399 e il 396, anno in cui lo troviamo al seguito del re spartano Agesilao.
Quest’amicizia si spinse al punto che nel 394, nella battaglia di Coronea, egli si trovò dalla parte dei nemici di Atene e forse combatté contro la sua città.
Ne seguirono la condanna all’esilio da parte ateniese e invece onori da quella di Sparta, che concesse a Senofonte un possedimento a  Scillunte, a Trifilia.
Il riavvicinamento progressivo tra le due città, in vista del pericolo tebano, tra il 375 r il 369, condusse a un miglioramento dei rapporti di Senofonte con la madrepatria: Senofonte ottenne il richiamo in patria, ma non sappiamo se vi rientrasse davvero.
Nel 371 egli aveva dovuto lasciare Scillunte, avendo gli spartani perduto la Trifilia: dopo tappe intermedie, si era trasferito a Corinto, dove morì )secondo un’altra tradizione sarebbe invece tornato e morto a Scillunte).
Le vicende personali e i rapporti con l’ambiente spartano influenzano le idee politiche di Senofonte, in cui alle riserve verso la democrazia, quella ateniese in particolare, si associa l’ammirazione per l’oligarchia spartana e una fonte di disponibilità per l’ideale monarchico, che prepotentemente s’introduce nel pensiero politico greco del quarto secolo.
Il Corpus senofonteo è vastissimo e comprende opere storiche e pedagogiche, e di memorie socratiche; alcune sono considerate spurie (come il trattatello di spiriti oligarchici sulla Costituzione degli ateniesi).
Le opere di carattere storico si presentano in parte come la narrazione di vicende personali (l’Anabasi, parzialmente l’Agesilao), in parte come la continuazione dell’opera tucididea (i 7 libri delle Elleniche, che coprono il periodo 411-362, fino alla battaglia di Mantinea).
Diversa per profondità critica e per aspetti della struttura narrativa da quella tucididea, l’opera di Senofonte è comunque nella linea del tipo di storia politico-militare e contemporanea proposto da Tucidide.
Esiste una questione di composizione delle Elleniche: secondo alcuni studiosi i libri più antichi sono 3.-5. (De Sanctis) o 3. -4. (Sordi); seguirebbero i libri che completano il programma tucidideo (1. -2.), quindi gli ultimi; altri si considerano a considerare più tardi degli altri i primi due libri (Treu); altri accettano infine la successione della tradizione manoscritta.
Esiste anche un problema di formazione generale di Senofonte: iniziò come memorialista per maturare come storico (De Sanctis)?
O le due cose sono, ancora nel quarto secolo, piuttosto inscindibili (Mazzarino)?
Anche nei libri più filolaconici (3.-5.) si colgono in realtà, accanto all’innegabile favore per Agesilao, giudizi obiettivi su Sparta (vedi sopra nel testo); e la tesi che accetta la successione tradizionale dei libri non manca di buoni argomenti.
Pag. 521-24

Bibliografia

Le eterie nella vita politica ateniese del sesto e quinto secolo a. C. / F. Sartori. – 1957
Maledetta democrazia / U. Bultrighini. – 1999
La parola e l’azione: studi su Crizia / A. Iannucci. – Il Mulino, 2002
Studi sulla patrios politeia / S. Cecchin. – 1969
Socrate: un problema storico /M. Montuori. – 1984
Un progetto di riforma su Sparta: la Politeia di Senofonte / E. Luppino Manes. – 1988
Egemonia di terra ed egemonia di mare: tracce del dibattito nella storiografia tra quinto e quarto secolo a. C. / E. Luppino Manes. – 2000
La strada dei Diecimila / V. Manfredi. – 1986
Ricerche intorno alla guerra corinzia / S. Accame. – 1951
Studio sulle Elleniche di Ossirinco / G. Bonamente. – 1973
Conone / G. Barbieri. – 1955

 

 

 

 

 

Cap. 8. Dall’egemonia spartana al nuovo policentrismo greco

La pace di Antalcida non risolveva di colpo tutti i problemi né dissipava tutti i conflitti.
Ciò vale per i greci come per lo stesso impero persiano, provato da ribellioni e spinte centrifughe nelle sue regioni di frontiera.
Lo dimostrano la resistenza del re egiziano Akoris agli attacchi del gran re (385-383) e quella di Evagora di Cipro, che si giovò anche del  sostegno egiziano, e finì per cedere al persiano Tiribazo, benché non come un servo di fronte al re ma come un re di fronte al gran re (380).
L’Impero persiano era del resto turbato da ribellioni al suo interno (come quella dell’ammiraglio Glos e, successivamente, di suo figlio Tachos).
Pag. 530

Ad Atene la situazione politica presenta nuove articolazioni rispetto al passato: gli oltranzisti della guerra su due fronti, contro Sparta e la Persia, come Agirrio e gli uomini del suo gruppo, sono condannati a morte.
Fra gli altri politici, duttili e realisti anche se non rinunciatari, emergono Callistrato di Afidna, nipote di Agirrio, e, come generali, Cabria e Ificrate, e il figlio di Conone, Timoteo, che era un vivo contatto con la classe colta ateniese, amico e allievo di Isocrate e in rapporto con lo stesso Platone.
Pag. 531-32

Il periodo che segue, fino alla battaglia di Leuttra (luglio 371), si presenta, dal punto di vista della storia politica e militare, come un’epoca di grande movimento, non nel senso puro e semplice dell’intensità dei fatti d’ordine politico, militare, diplomatico (che non è certo caratteristica esclusiva di questo periodo), ma nel senso di un mutamento complessivo di posizioni, di comportamenti fondamentali delle città più importanti e, di riflesso e in generale,  del mondo greco nel suo insieme.
E’ il periodo (378-371) in cui Sparta cerca in vario modo di contrastare i fatti nuovi emersi dopo la pace di Antalcida, cioè la ribellione e l’ascesa di Tebe da un lato, la ricostituzione dell’impero navale ateniese e la sua rapida espansione in acque di recente venute sotto il controllo di Sparta, o addirittura adiacenti al Peloponneso, dall’altro; ma alla fine del periodo Sparta si troverà ad aver perduto le posizioni di forza che aveva al suo inizio.
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Il rimescolamento di carte all’interno del mondo greco continua vertiginoso.
Atene si allea con l’Arcadia (per l’iniziativa di Licomede, assassinato sulla via del ritorno da Atene in Arcadia), Corinto con Tebe: Eufrone di Sicione, isolato,  cerca il sostegno di Tebe; è assassinato in questa città durante le trattative, ma al potere gli succede il figlio Adeas.
Sparta, che ha perduto il sostegno del re persiano, punta ora su una carta diversa, quella del satrapo ribelle della Frigia ellespontica Ariobarzane, che il vecchio re Agesilao, nel 365, viene ad aiutare contro altri due satrapi, Autofredate di Lidia e Maussollo di Caria, assumendo il comando dei mercenari di Ariobarzane.
Atene tenta di trarre vantaggi dai conflitti interni all’impero persiano, con l’invio di Timoteo, che conquista Samo, impiantandovi una cleruchia di 2000 cittadini (365), per poi passare sul continente in aiuto d’Ariobarzane, che cede agli ateniesi, per ricompensa, Sesto e Critote nel Chersoneso tracico.
Il re si riconcilia ora con Atene, riconoscendole i diritti su Anfipoli, e Timoteo si sposta, nel 364, in area macedone, dove si impadronisce di Pidna (dal 410 tornata alla Macedonia) e di Metone, nonché di Torone e di Potidea in Calcidica; fallisce invece l’occupazione di Anfipoli (364).
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La conclusione delle Storie di Senofonte contiene un giudizio, divenuto poi canonico, sulla durata dell’egemonia tebana: dopo la battaglia di Mantinea in Grecia vi fu più confusione e disordine di prima.
In termini meramente negativi Senofonte trasmette un’intuizione storica di primaria importanza, che cioè in Grecia non v’era più spazio per l’egemonia di una polis.
L’egemonia tebana aveva prodotto quel che poteva produrre l’ultimo tentativo di questo genere: lo smantellamento, appunto, dell’idea stessa di egemonia.
Una pace generale, da cui si tenne però fuori Sparta, sanciva lo status quo, l’indipendenza della Messenia e l’esistenza di due leghe arcadiche, l’una intorno a Tegea e Megalopoli, l’altra intorno a Mantinea; fondamentale era comunque il fatto che l’Arcadia confinante con la Laconia fosse anche quella antispartana.
L’intuizione dello storico Senofonte, e la periodizzazione da lui operata all’interno della storia greca di quegli anni, che doveva diventare canonica, erano certamente favorite dalla vicinanza dello scrittore a quelle vicende e dal fatto che egli non vi sopravvisse di molto.
Ciò non significa che le prospettive egemoniche fra le poleis cessassero di colpo: a suo modo, ciascuna delle tre maggiori città di Grecia continuava a perseguirle, ma con più incertezza, minore slancio e minore coesione interna, quindi con un’efficacia storica sempre più limitata.
Sparta non intendeva rinunciare alla Messenia e al suo ruolo nel Peloponneso; Atene manteneva, e forse momentaneamente, accentuava, la sua posizione egemone all’interno della Lega navale; Tebe continuava a tener viva la propria ostilità verso Sparta e anche, benché in minor misura, verso Atene, ma soprattutto cercava di conservare un ruolo fondamentale nella Grecia centrale e nella stessa Tessaglia.
Lo scontro tra queste ormai sempre più inefficaci ambizioni creò, nei fatti, le condizioni per il conflitto accesosi nella Grecia centrale intorno al santuario di Delfi, non a caso nelle vicinanze e per l’iniziativa stessa dei tebani: una nuova guerra sacra (la terza della storia del santuario delfico), che si apriva come conflitto regionale, rigorosamente contenuto all’interno del mondo delle poleis, e però doveva svilupparsi e chiudersi (segno, questo, di un’epoca veramente nuova) come conflitto coinvolgente anche i macedoni, e con una pace, quella di Filocrate (346), in cui Filippo 2. era parte determinante, anzi già dominante.
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Durante la grande spedizione ateniese in Sicilia degli anni 415-413, Cartagine era stata a guardare, certamente decisa a impedire che i sogni di conquista che si attribuiscono ad Alcibiade diventassero realtà, ma non del tutto sfavorevole alla spedizione ateniese, che da un lato colpiva una sua nemica, Siracusa, dall’altro era diretta a sostenere quegli elimi di Segesta che dai cartaginesi in Sicilia erano i tradizionali alleati.
E proprio da uno strascico della recente spedizione ateniese e dall’annoso conflitto tra Selinunte e Segesta, che ne era stata la causa occasionale, deriva l’intervento cartaginese del 409, che provocò la distruzione di Selinunte e di Imera e il conseguente massacro delle popolazioni, particolarmente nella prima città, e a cui seguì, tra il 406 e il 405, la distruzione e annessione di Agrigento, Gela e Camarina da parte cartaginese.
Pag. 550

Nell’estate del 405 i cartaginesi attaccavano Gela.
Dionisio non riuscì ad espugnare l’accampamento del nemico, che assediava la città: fallì, proprio come i suoi predecessori ad Agrigento.
Gela e Camarina furono perciò evacuate.
L’esito deludente diede spazio a un ultimo tentativo dei cavalieri di Siracusa, la élite aristocratica della città, di abbattere la nuova tirannide: la casa del tiranno in città fu devastata, la moglie percossa a morte.
Ma Dionisio sopravvenne da Camarina con la sua soldataglia, uccise alcuni dei cavalieri, che già celebravano incautamente il successo, altri ne cacciò dalla città.
Anche da parte cartaginese il pericolo veniva meno, non da ultimo per l’effetto deterrente dell’epidemia che ne aveva decimato le truppe.
Verso la fine del 405 si stipulava la prima pace tra Dionisio e i cartaginesi.
Se a Gela e Camarina Dionisio aveva fallito, non si può negare però che la riorganizzazione militare e politica da lui realizzata valesse a circoscrivere e consolidare la frana delel posizioni greche in Sicilia.
Selinunte, Imera, Agrigento appartenevano a Cartagine; i cittadini di Gela e di Camarina diventavano tributari di questa, che esercitava la sua autorità su Elimi e Sicani, e insieme assumeva di fatto la tutela dell’autonomia dei siculi; stessa condizione di autonomia era garantita a Messina e Leontini; a Dionisio però veniva riconosciuto il dominio su Siracusa.
Camarina, Gela, Agrigento furono così parzialmente ricostituite (le prime due dovevano restare però prive di fortificazioni); non a caso, diverso fu il destino delle due città greche più vicine al territorio punico di Sicilia, i due avamposti distrutti nel 409; Selinunte non risorse più; nei pressi di Imera già nel 407 i cartaginesi avevano, in una zona di acque termali, fondato Terme, in cui furono accolti gli imeresi superstiti.
Pag. 552

Oltre la linea dell’istmo, e al di là di questi confini, Dionisio cerca solo posizioni di egemonia, di prestigio, di controllo: ma il dominio ‘continuo’ non risulta essersi esteso, e forse neanche doversi estendere, oltre quell’istmo.
Come tutti gli stati territoriali dell’antichità,  anche questo esperimento di creazione di uno di essi, ad opera di una città, dà luogo a una realtà composita ed eterogenea, che costituisce un complesso ‘sistema’ di rapporti.
Affidato al limitato respiro di un uomo e della sua discendenza, questo impero si sgretolerà già sotto Dionisio 2.: ma esso è, se non un modello, certo un sicuro antecedente degli stati territoriali creati da una città nel mondo mediterraneo.
Lo stesso dominio di Roma è, per eterogeneità, un sistema non meno complesso e in definitiva analogo; la differenza fondamentale è che Roma concepisce l’impero come un compito che va al di là del respiro di uno o di pochi individui, di una o due generazioni, come il compito storico di una intera classe dirigente, che se lo trasmette di generazione in generazione, in una continuità di secoli: sicché, il vero segreto per la comprensione della formazione del dominio romano è lo studio della sua classe dirigente e del suo atteggiamento di fronte ai problemi della conquista e del dominio.
Ma, in embrione, l’impero di Dionisio 1. fonda il tipo di complessa continuità territoriale, che è l’unica forma di dominio territoriale che una polis del mondo classico può aspirare, o riuscire, a costituirsi.
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Reggio rappresentava, nel conflitto che si profilava col tiranno siracusano, il principio cittadino e autonomistico, contro il principio dello Stato territoriale costituito intorno a Siracusa, che Dionisio da parte sua perseguiva e rappresentava.
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Dal canto suo il mondo italiota esprimeva forme di organizzazione federale anche nel periodo del declino.
Dolo la seconda rivolta antipitagorica a Crotone e in altre città magnogreche, rivolta databile poco prima del 453 o dopo il 448 (nella prima data, se la rifondazione di Sibari ad opera di Tessalo riflette una crisi di Crotone; nella seconda, se la vittoria di Crotone sulla nuova Sibari sta a testimoniare una forza non ancora profondamente incrinata), nelle città italiote più lacerate dai conflitti civili intervenivano come mediatori gli achei di Grecia.
La lega raccolta intorno al santuario di Zeus Homarios, tipico culto acheo (di Egio), comprende del città dell’area achea meridionale, capace ancora di uno sforzo unitario: Dionisio e i barbari (lucani, evidentemente) le renderanno difficile la vita.
Intorno a questo nucleo caratteristicamente acheo si va coagulando però un’alleanza più vasta, che non è detto sopprima sic et simpliciter la lega di Zeus Homarios, ma che forse non ne rappresenta neanche un puro e semplice ampliamento (così caratteristicamente achee sono le istituzioni di quella lega): Turii, se non è già inclusa  nella lega di Zeus, Elea, Reggio, si aggiungono dunque dall’esterno a quel nucleo.
Non ci sono invece serie ragioni per ammettere che ne facciano parte Metaponto o Taranto.
La fondazione della Lega italiota, che aveva come obiettivo di resistere ai lucani e di opporsi a Dionisio, è ricordata da Diodoro (14., 91) sotto l’anno 393 a. C., ma la data dell’evento non è ricavabile con sicurezza dal testo.
Pag. 558

Reggio, isolata, dapprima trattò col tiranno e gli versò 300 talenti e consegnò ostaggi.
Poi Dionisio chiese ‘mercato’ ai reggini, con l’intento di fare incetta di viveri e ridurli senza riserve; come i reggini, capito il suo piano, si rifiutarono di rifornirlo ulteriormente, egli pose un assedio che durò undici mesi e costò sofferenze enormi alla città, ridotta all’isolamento e alla fame.
Probabilmente nella primavera del 386 avveniva la resa.
Ai superstiti, ridotti ormai a cadaveri ambulanti, fu consentito di riscattare la vita con il pagamento di una mina; quelli che non potevano pagare, furono venduti schiavi a Siracusa.
Sulle rovine della città Dionisio eresse un palazzo, con i suoi famosi platani; solo Dionisio 2. ricostituirà il nucleo di una nuova Reggio, chiamata, dal nome della divinità più cara alla città, Febia.
Pag. 560

La vicinanza ideale a Sparta e la notorietà del personaggio ad Atene, sommate insieme, spiegano in misura non trascurabile i primi due dei tre viaggi di Platone in Sicilia (ca. 388 e, poco dopo la morte di Dionisio 1., 367/366): a questi due dati ne va aggiunto un terzo, la consapevolezza, che ha il mondo greco, della relativa facilità con cui in Sicilia si poteva procedere a operazioni di ingegneria politica, disfacendo vecchie città e costruendone di nuove.
A un riformatore e sognatore di un nuovo Stato, come Platone, doveva sembrare la terra promessa.
Pag. 563

Nota integrativa

Le ragioni dell’impoverimento e della crisi sociale nel mondo greco del quarto secolo non vanno dunque cercate solo, o principalmente, nell’ambito della produzione agraria.
Bisogna cercare in altre direzioni.
Atene, ad esempio, non riesce nel quarto secolo a ricostituire un impero del tipo di cui aveva goduto nel secolo precedente: sotto l’aspetto finanziario ed economico in genere, come del resto sotto l’aspetto politico, la Lega attica del quarto secolo non è comparabile con quella del quinto.
Ciò comporta necessariamente una crisi dell’artigianato interno, in primo luogo di quello legato al grande sviluppo edilizio dell’epoca periclea.
Ma anche l’artigianato che produce per l’esportazione conosce, nel corso del secolo, un declino, per il quale finora non si è ancora trovata uan spiegazione migliore di quella , ormai classica,  legata al nome di Michael Rostovtzeff, secondo cui esso sarebbe dovuto al fiorire di artigianati locali, che precedentemente erano stati infrenati dalla presenza delle superiori esportazioni attiche; ma queste ultime ora vengono imitate in loco, e non c’è più posto per la produzione originale.
A ben riflettere, questo è però solo un campione di un fenomeno più generale, che si potrebbe definire come la ‘crisi degli imperialismi greci’ nel quarto secolo a. C.
La rappresentazione classica della storia delle più brevi egemonie succedentisi nei primi decenni del secolo, da quella spartana (404-394 o -371), a quella tebana, che non dura un decennio (371-362 a. C.), altro non è se non il riscontro, sul piano politico-militare, di un fenomeno più ampio che consiste nell’esaurirsi delle forme imperialistiche (politiche ed economiche insieme) nell’ambito delle città greche.
Pag. 571

I greci non conoscevano, di norma, imposte ordinarie dirette sul reddito e perciò sul patrimonio dei cittadini: una imposta diretta e ordinaria veniva tradizionalmente sentita come imposizione tirannica.
Pag. 572

Bibliografia

I sinecismi interstatali greci / M. Moggi. – 1976
Isocrate: retorica e politica / A. Masaracchia. – 1995
L’Atene di Iseo: l’organizzazione del privato nella prima metà del quarto secolo a. C. / S. Ferrucci. – 1998
Contro Alcibiade / P. Cobetto Ghiggia. – 1995
Contro Leocare / P. Cobetto Ghiggia. –2002
La Sicilia dal 368/7 al 337/6 a. C. /M. Sordi. – 1983
Dionisio 2.: storia e tradizione letteraria / F. Muccioli. – 1999
Storia economica del mondo antico / F. Heichelheim. – Laterza, 1972
Platone e le tecniche / G. Cambiano. – Einaudi, 1971
Imercenari nel mondo greco / M. Bettalli. – 1995
L’imposizione progressiva nell’antica Atene / G. Gera. – 1975
Strabone e la Magna Grecia: città e popoli dell’Italia antica / D. Musti. – 1988

Cap. 9. La Macedonia dalle origini al regno di Filippo 2.

Nel quinto secolo a. C. il territorio macedone sottoposto alla dinastia degli argeadi appare organizzato intorno ai grandi fiumi Haliakmon e Axios; su di esso incombono, da nord-ovest, occidente e sud-ovest, le regioni dell’alta Macedonia: la Lincestide (intorno al lago Begorritis e fino all’altezza di Eraclea Lincestide), l’Orestide (gravitante sul lago Kastoria), l’Elimiotide (lungo il corso superiore e medio dell’Haliakmon).
Già questa prima descrizione del territorio macedone segnala l’esistenza di varchi diversi, che in epoche diverse devono aver consentito l’afflusso di popoli dalla regioni illiriche e da quelle epirotiche (coem anche dalla Tracia o dalla Frigia).
Non è neanche escluso che un varco verso la Macedonia si aprisse più direttamente dal sud, se non altro attraverso la valle di Tempe, percorsa dal fiume Peneo, e che si allunga tra i massicci dell’Ossa, a destra, e il basso Olimpo a sinistra.
Che queste condizioni territoriali favorissero uan qualche mistione etnica, non v’è dubbio; e non v’è dubbio che nella lingua, nella toponomastica, oltre che naturalmente nella controversia stessa che divide i greci circa la realtà (o almeno il grado) della grecità di quel popolo, traspaia qualcosa di questa mistione etnica e culturale.
Pag. 583

Nel nome makedones è del resto da riconoscere, con ogni verosimiglianza, un riferimento all’altezza, non tanto delle persone, ma dei luoghi che esse abitavano.
Abitanti dunque dei luoghi alti, “montanari”; e già l’accezione così indeterminata di quel nome incoraggia alla conclusione che i macedoni si presentino come una realtà etnica mista: anzi macedoni, in principio, non è neanche un etnico.
Chiarissimo il parallelismo con epiroti: come gli ‘epiroti’ sono in primo luogo gli ‘abitanti del continente’ in rapporto, con ogni probabilità, con le isole prospicienti e i loro abitanti (l’ambiente di Corcira, di matrice corinzia, sembra il più adatto a produrre ex antithesi una simile nozione), così i ‘macedoni’ saranno stati gli abitanti ‘dei luoghi alti’, per gli abitanti greci della costa della bassa Macedonia, o della Calcidica, di origine euboica, o anche di origine corinzia (quelli dell’eretriese Metone o quelli della corinzia Potidea).
I ‘macedoni’, cioè i ‘montanari’, identificavano dunque agli occhi dei greci un popolo dell’interno, con tutto il relativo carico di connotazioni di ordine culturale ed economico, un popolo tenuto distinto dai dori della Grecia centrale, ma anche sentito in una suggestiva contiguità con essi, come risulta da Erodoto, 1. 56: al punto che, degli stessi dori, questi dice che, prima di assumere il nome più noto, quando ancora erano nella regione 8montagnosa) del Pindo, erano chiamati Makednoi (che è nome diverso da Makedones, ma appena di poco).
Inoltre, nei movimenti che lo storico attribuisce loro per l’epoca anteriore alla presunta discesa nel Peloponneso, i dori si avvicinerebbero alla zona dell’Olimpo e dell’Ossa, prima di ripiegare verso il Pindo, e poi trasferirsi nel Peloponneso.
Pag. 584-85

Sul piano politico, a parte le incertezze nei confronti della Persia e dalla causa nazionale greca – che fecero correre ad Alessandro 1. nel 480 il rischio di essere tacciato di tradimento -, il comportamento posteriore a Platea, segnarono l’inizio dell’ascesa della Macedonia.
Questa si concretò in una spinta espansionistica, che si fece parzialmente sentire nella zona tra l’Axios e lo Strimone; lo sfruttamento delle miniere d’argento del Dysoron comportò l’introito di un talento al giorno per la Macedonia, che diede allora inizio alla coniazione di una propria moneta d’argento.
Ma, dirigendo l’attenzione verso l’area dello Strimone e del Pangeo, che sorge ad est di questo fiume, Alessandro veniva a interferire nell’area degli interessi di Taso, prima, e poi della stessa Atene: e se con Taso egli poteva assolvere la funzione di protettore degli interessi greci contro i traci, con Atene rischiava uno scontro diretto, per cui comunque la  Macedonia non era ancora matura.
Forse ad Alessandro 1. va anche attribuita una riorganizzazione dell’esercito, attraverso la creazione di un’armata di pezeteri (o eteri appiedati), una fanteria cioè che veniva ad affiancarsi alla cavalleria degli eteri, probabilmente preesistente, e che, nel nome che ne è alla base (hetairoi = compagni), rappresentava un esplicito affermarsi, anche sul piano formale, di quei tratti omerici, che erano nella realtà assai congeniali al grado di sviluppo delle istituzioni politiche e militari della Macedonia.
Pag. 587-88

Liberazione progressiva dal vassallaggio verso la Persia e prima collocazione culturale e politica nel mondo greco possono considerarsi come gli apporti principali del regno di Alessandro 1.
Il regno del figlio e successore Perdicca 2., che dovette dividere il potere per alcuni anni col fratello Filippo, e che regnò da solo almeno dal 437 circa fino al 414/413, si segnala per un più attivo inserimento della Macedonia nello scontro di potere che si determina all’interno del mondo greco, e che ha i suoi poli in Atene e Sparta.
La Macedonia non può non subire in questi difficili decenni l’iniziativa politica altrui; e i comportamenti di Perdicca 2. hanno molto dell’abile altalena e del furbesco barcamenarsi.
Tuttavia non si tratta in alcun modo di un indifferente barcamenarsi tra Atene e Sparta; e non si può neanche parlare di una politica del tutto passiva e rinunciataria.
La Macedonia non sfugge a una condizione e a una sorte che riguardano l’intero mondo greco: il grande duello politico e ideologico, che si svolge fra le due città e fra gli stessi schieramenti che si costituiscono intorno a ciascuna di esse, è un fatto storico che va molto al di là della possibilità di replica dei singoli Stati del mondo greco.
Comunque, nell’incertezza della Macedonia di Perdicca 2. tra Sparta ed Atene, si capisce che il vero problema politico e storico della Macedonia è Atene: nel bene e nel male, questo è il suo referente; l’altalena di Perdicca 2. è tra l’accettazione dell’egemonia di una città, il cui ruolo culturale è vitale per la Macedonia, e il rifiuto di forme di dominio che contrastino troppo direttamente con gli  interessi della Macedonia e dei suoi vicini.
Pag. 588-89

Dal punto di vista della crescita culturale della Macedonia, che non può che significare una sua crescente ellenizzazione, il regno di Archelao è di fondamentale importanza.
Alla sua corte giungono poeti ateniesi, coem i tragici Agatone, Cherilo e soprattutto Euripide, che alla corte del re (che sembra aver trasferito la capitale da Ege a Pella) compose le Baccanti (406: importante riflesso della forte diffusione dei riti bacchici nell’area tracica e specificamente in quella macedone, che conosce tra l’altro nomi tipici per le donne partecipanti a quei riti, come Klodones e Mimallones), l’Archelao e i Temenidi: segno dell’importanza del dramma, e al suo interno particolarmente della tragedia, coem veicolo di cultura.
In Macedonia certo Euripide avrebbe, nel racconto tradizionale, trovato la morte, perché sbranato dai cani molossi di Archelao.
Pag. 591

La storia dei rapporti tra Filippo 2., la Macedonia e la Grecia ha subìto negli ultimi decenni una radicale revisione rispetto alle impostazioni ottocentesche del problema.
E’ stata soprattutto (ma non soltanto) la cultura tedesca dell’Ottocento e del primo Novecento a proporre una interpretazione nazionalistica dello scontro tra Macedonia e Grecia al tempo di Filippo 2. e di Demostene, e ad interpretarlo alla luce delle vicende della Germania del 19. secolo, quando la Prussia, con al quale Beloch paragonava la Macedonia, svolse davvero la funzione di Stato promotore dell’unità tedesca.
Ma l’applicazione di una chiave di lettura nazionalistica allo scontro Macedonia-Grecia sarebbe inadeguata sia sul versante macedone sua sul versante greco.
La Macedonia di Filippo 2. non si pose il problema di una unificazione politica, indifferenziata e centralizzata, del restante mondo greco intorno alla Macedonia; così come neanche il mondo delle città greche riuscì realmente a produrre, nonostante qualche parere contrario sull’argomento, un’idea di unità nazionale (quella di cui ancora parlava Jaeger), ma al massimo, e anzi con particolare fervore, produsse un programma panellenico, che di fatto non andava oltre uno schema politico associativo e confederativo di Stati autonomi, stretti intorno all’egemonia di uno di essi.
Ancor meno sarebbe lecito oggi applicare la chiave di lettura nazionalistica al problema etnico, che attraversa tutta la tematica del confronto Macedonia-Grecia in questi anni.
La Macedonia infatti, benché le ricerche linguistiche e archeologiche recenti mirino, e con successo, a mettere in evidenza il forte fondo greco vuoi della lingua vuoi della cultura di quella regione, difficilmente tuttavia può rappresentarsi nei termini di una compattezza etnica, che non lasci spazio ad aspetti di eterogeneità, mistione, fusione culturale.
Sull’altro versante occorre ribadire che un ideale nazionale, che cancellasse le differenze regionali e cittadine ed etniche, non fu mai della Grecia classica.
Un’altra chiave di lettura discutibile, anche se ha avuto una durata più lunga della tesi nazionalistica, è quella che contrappone a una Macedonia promotrice dell’asservimento del mondo delle libere città greche una Grecia delle poleis, portatrice esclusiva dell’ide adi libertà e di democrazia.
Anche per questo aspetto, più difficile da giudicare (perché è impossibile che non interferisca nel problema più propriamente la consapevolezza degli esiti di epoca ellenistica, che, se non furono di asservimento delle città, furono però di forte loro condizionamento), occorrerà tener conto del fatto che la politica egemonica perseguita da Filippo 2. presenta moduli diversi di politica estera e di forme di predominio, a seconda delle diverse aree e delle diverse regioni a cui quella politica espansionistica è destinata.
Se è vero che nell’area macedone e trace, e in generale nell’Egeo settentrionale, Filippo 2. perseguì una politica di espansione e annessione territoriale, di unificazione territoriale secondi principi di continuità e compattezza di dominio, nelle restanti regioni del mondo greco egli perseguì moduli diversi, i quali ricalcano fedelmente le tradizioni delle diverse regioni e in qualche modo recuperano possibilità intrinseche alla storia stessa del potere e del dominio in quelle regioni.
Infatti in Tessaglia Filippo assunse la carica di tago, cioè il ruolo di ‘generalissimo’, investito di ampi poteri non solo militari ma anche finanziari nell’ambito delle città tessaliche; benché io non creda che si debba parlare di ‘unione personale’, tra Macedonia e Tessaglia, perché una tale formula la riserverei alla situazione in cui sulla stessa testa si concentrano due corone, tuttavia in Tessaglia Filippo ereditava per sé possibilità egemoniche che la storia tessalica aveva contenuto e prodotto.
A sud delle Termopile infine, là dove incomincia il vero vivaio delle città greche, fra cui spiccano Tebe, Atene, Sparta, Argo e così via di seguito, la politica di Filippo non poteva che essere di egemonia, cioè di controllo dall’esterno, dapprima attraverso l’utilizzazione di organismi panellenici preesistenti (come l’Anfizionia delfica) e poi, quando questi organismi ellenici preesistenti non bastavano più allo scopo, perché ad essi non si lasciava raccordare la politica di Atene o di altre città, attraverso la creazione di nuove forme associative e federative, improntate al principio dell’autonomia (certo coronata, per così dire, dall’egemonia, cioè dal preminente ruolo militare di Filippo 2.
Pag. 595-97

Tuttavia è storicamente giusto considerare almeno due aspetti della questione.
Il primo è che in realtà l’impero sulle regioni asiatiche, conquistato da Alessandro, fu quel che la propaganda panellenica greca, di impronta antipersiana, aveva vagheggiato da almeno mezzo secolo.
Quando da quella conquista furono nati i regni ellenistici, il sogno greco aveva avuto in qualche modo una sua realizzazione: si trattava infatti di Stati a dirigenza greco-macedone, in larga parte indigena.
Il sogno dei greci si ritorceva però in qualche modo contro di essi; e a questo proposito vale la seconda considerazione.
Anche a non tener conto delle azioni ostili, volta per volta dirette da singoli sovrani e regni ellenistici contro città greche, il solo fatto che accanto ad esse nel mondo greco ormai esistessero realtà territoriali, militari, economiche, politiche di tanto più forti e imponenti delle vecchie libere città, era di per sé un fattore di condizionamento e di sgomento per i greci.
Tuttavia, anche se può ricevere soluzioni diverse – quella ottimistica di Alfred Heuss, l’altra più realistica e pessimistica di Elias Bikerman -, il problema storico resta quello del reale grado di autonomia che le città greche, vecchie e nuove, riuscirono a garantirsi nei confronti degli Stati territoriali.
Ed è innegabile che sul piano formale il rapporto fu di autonomia, ma, sul piano sostanziale, esso cambiò a seconda degli uomini, dei tempi, delle condizioni.
E’ però merito dell’impostazione storicamente duttile, sensibile, differenziata di Filippo 2., se la storia politica ellenistica fu, nonostante tutto, caratterizzata da una forte tensione tra il principio dell’autonomia, che la battaglia di Cheronea come tale non aveva né sconfitto né il fine di sconfiggere, e il principio dell’egemonia (di fatto trasformatasi in vari casi di dominio) dei regni ellenistici.
I primi anni del regno di Filippo 2. sono contrassegnati da azioni dapprima diplomatiche, poi militari, e sempre più decisamente militari, rivolte a contenere e successivamente a respingere la pressione degli illiri, dei peoni, dei traci sui confini della Macedonia.
E certamente decisiva fu l’azione condotta da Filippo 2. contro il re illirico Baedylis, al quale fu strappato il controllo della Lincestide fino al lago Licnitide (odierno lago di Ochrida).
La fase successiva (357 e anni sgg.) del regno di Filippo 2. rappresenta  il periodo in cui si pongono le premesse dello scontro con Atene.
In un trattato stipulato segretamente con Atene, il re macedone si era dimostrato disponibile a conquistare per Atene medesima Anfipoli e a consegnargliela, in cambio della città macedone di Pidna.
Ma nel 357 Filippo 2. procedeva alla annessione di Anfipoli.
Il gesto di Filippo, che inizia una serie di conquiste nell’ambito dei possedimenti o delle località di influenza ateniese nell’area traco-macedone (Pidna e Potidea nel 356; Metone nel 354), e che inaugura la politica dell’unificazione territoriale della Macedonia e delle contigue aree, si inserisce in un momento di grave crisi per Atene.
Pag. 597-98

Quando nella conquista di Anfipoli si indica l’inizio della politica di provocazione di Filippo 2., non bisogna dimenticare che c’è una forte e significativa coincidenza storica tra l’espansionismo di Filippo e il declino dell’imperialismo di Atene, che è, come abbiamo già detto altrove, un declino non soltanto di fatto ma anche di volontà e di orientamento politico generale.
In ogni caso, la presa di Anfipoli si colloca nel periodo in cui la Lega navale ateniese subisce una prima grave crisi a seguito della ribellione delle città alleate con Chio, Rodi, Cos, cui presto si aggiunge Bisanzio, per sollecitazione del satrapo di Caria Mausollo (guerra sociale).
Da parte ateniese si reagisce con l’invio di una flotta al comando di Carete e di un’altra al comando di Cabria.
Ma nell’attacco intrapreso contro il porto di Chio (357) il generale ateniese Cabria trovò la morte.
Pag. 598-99

Si era intanto aperto, qualche tempo dopo l’inizio della guerra sociale, di cui abbiamo ora rammentato gli avvenimenti, un altro e decisivo capitolo della storia non solo della Grecia centrale, ma della Grecia in generale.
E’ quello della terza guerra sacra, che già nel suo nome dichiara che essa si svolge intorno al santuario di Delfi e alle sue ricchezze.
Tuttavia, da un punto di vista meramente politico, la guerra sacra nasce come espressione del tentativo di Tebe di assicurare la continuità della sua egemonia, una egemonia che lo storico Senofonte aveva intuito essere stata di fatto compromessa dalla battaglia di Mantinea del 362 a. C. (e a cui, sulla sua scorta, i moderni libri di storia attribuiscono una durata appena novennale).
Pag. 600

Scoppia dunque la guerra, che è sacra in quanto proclamata dagli Anfizioni contro i Focesi; ne segue una spaccatura all’interno del mondo greco: per il santuario, e contro i focesi, si schierano i beoti, i locresi, i tessali con i loro perieci; ai focesi prestano il loro aiuto gli ateniesi, gli spartani e alcuni peloponnesiaci.
Pag. 601

In due successivi scontri Filippo 2., seguito dai tessali, che forse lo riconoscono già in questo momento come tago (o arconte), viene sconfitto da Onomarco.
E’ l’anno più critico (353) nella storia dell’ascesa politica di Filippo 2. e dell’espansione della Macedonia.
Come egli stesso ammise con vigorosa immagine, ne seguì una ritirata strategica: “Non sono scappato, mi sono solo ritirato, per tornare a cozzare come un montone infuriato”.
Dai fatto, nel 352 Filippo 2. rientra  per attaccare Licofrone di Fere.
Questi però ricorre all’aiuto dei focesi; all’appressarsi di un esercito focese di 20.000 fanti e 500 cavalieri, Filippo induce i tessali ad associarsi a lui, con un esercito che supera i 20.000 fanti e 3000 cavalieri.
In uno scontro a Campi di Croco (Pagase), sul Golfo di Volo, Filippo consegue una straordinaria vittoria su Onomarco: dei focesi e dei loro mercenari periscono più di 6000, fra cui lo stesso generale; non meno di 3000 i prigionieri.
Filippo impicca Onomarco già morto e fa annegare gli altri come profanatori del tempio delfico.
Nel 352 Filippo ha dunque ormai una posizione preminente, e di tutta legittimità, nel conflitto greco.
Pur non essendo ancora intervenuto a sud della Termopile, egli aveva battuto e punito il profanatore del santuario; gli si poté certo rimproverare un’eccessiva crudeltà nella punizione.
Pag. 602-3

Ma la resa focese si ebbe soltanto dopo che in Grecia si fu raggiunto un accordo tra i macedoni, gli ateniesi e gli altri greci, con la cosiddetta pace di Filocrate.
Gli ateniesi inviarono due ambascerie, l’una a trattarem l’altra a scambiare giuramenti con Filippo 2., e ricevettero, nell’intervallo fra le due, la controambasceria macedone, incaricata di ottenere il giuramento degli ateniesi, a convalida di un testo di pace il quale escludeva espressamente sia i focesi sia la ftiotica Alo.
Dalla seconda ambasceria ateniese, quella incaricata di ricevere il giuramento di Filippo 2., fu invece portata e fatta valere l’esigenza di rinunciare almeno alla formale esclusione dei focesi: questa formale concessione Filippo la diede, senza però impegnarsi a una rinuncia all’intervento in Focide.
Tale intervento seguì più tardi e fu del tipo che abbiamo detto: un intervento poco cruento, ma politicamente assai duro.
D’altra parte, conseguenza dell’intervento di Filippo 2. fu la piena legittimazione del re nel quadro di quello che era, all’epoca, lo strumento panellenico per eccellenza, il sinedrio anfizionico, nel quale i due voti dei focesi passavano ormai a Filippo 2. (mentre forse dalla Anfizionia era esclusa Sparta).
Così Filippo aveva realizzato il disegno di intervenire nel mondo delle città greche nella posizione e forma più legittima possibile, e addirittura prefigurava, rispetto all’Anfizionia delfica, quella posizione di capo militare (hegemon), che egli perfezionerà, dopo la battaglia di Cheronea, con la creazione della Lega di Corinto.
A Filippo fu anche attribuita la molto onorifica presidenza (agonothesia) dei giochi pitici.
Il rapporto tra Filippo 2. e Atene si conferma di notevole complessità: c’è una vocazione reciproca all’intesa tra Filippo 2., da un lato, e alcuni circoli ateniesi, dall’altro.
E non si tratta soltanto dell’ambiente dell’oratore Eschine; tra la pace di Filocrate e la resa dei focesi si colloca, nel corso del 346, il Filippo, l’importante pamphlet di Isocrate, che vagheggia per Filippo il triplice ruolo di benefattore dei greci, re dei macedoni e signore dei barbari.
D’altra parte, Filippo 2., ancora dopo l’insediamento nel consiglio anfizionico e il rifiuto da parte ateniese di partecipare ai giochi pitici (una protesta contro la concessione della agonothesia al re macedone), rifiuta di accogliere uan richiesta dell’isola di Delo per una completa autonomia di Atene, e impone dunque all’isola delle Cicladi di continuare ad appartenere al dominio di Atene (condizione da cui Delo sarà libera tra il 314 e il 166).
Pag. 605-6

A sud delle Termopile il vero problema, per un Filippo che voleva tutta la Grecia dietro di sé (a parte Sparta, un caso di ostilità insanabile), era quello di una scelta tra Tebe e Atene, proprio in considerazione dei conflitti che da sempre dividevano le due città.
Si può affermare con buone ragioni che Filippo perseguisse di preferenza un disegno panellenico, volto a non scegliere tra gli interessi opposti di queste città: ma, realista com’era, naturalmente conosceva l’ostilità ateniese verso Tebe e, quando avesse dovuto rischiare una contrapposizione e fare una scelta, certamente egli l’avrebbe fatta in favore di Atene stessa.
Per chi volesse attraversare i disegni politici di Filippo 2., le regole del gioco e i termini della questione erano dati in maniera chiara.
Per Demostene perciò contrastare Filippo significava da un lato operare in modo che Filippo non scegliesse in favore di Tebe, dall’altro avere Tebe al fianco di Atene nell’opposizione comune a Filippo.
Pag. 608

L’accusai di Eschine dovrebbe servire al disegno di Filippo: quello di avere Atene dalla sua in una guerra sacra contro i locresi di Anfissa.
Quale sarebbe stato però l’atteggiamento di Tebe?
Certo i rapporti tra i beoti e locresi erano molto stretti, e quindi l’azione anfizionica contro i locresi non doveva trovare il consenso di Tebe: ma era quello che invece Filippo sperava, e che dovrebbe nei suoi intenti determinato appunto l’auspicata costellazione politica, quella cioè di un’Atene alleata di un Filippo riconosciuto egemone, che si trascinasse però dietro anche nella guerra sacra, obtorto collo, la riluttante Tebe.
In ipotesi subordinata, Filippo sperava di avere con sé almeno Atene, e Tebe contro.
Il gioco era difficile e complesso, e il rischio di non riuscirvi era notevole.
Pag. 609

L’associazione di Tebe alla politica e all’azione ateniese contro la Macedonia nell’autunno del 339 fu però il coronamento del lungo e intensissimo sforzo prodotto da Demostene nell’organizzare un coerente campo di resistenza greca all’azione, spesso blanda e diplomatica, ma talora più aggressiva e d’intervento, dispiegata da Filippo 2.
L’alleanza con Tebe fu il capolavoro politico di Demostene (cui però non seguì il successo militare); e ad esso l’oratore arrivò per gradi, che si possono perseguire sin dai primi anni che seguono alla pace di Filocrate.
Pag. 610

Negli ultimi anni prima di Cheronea lo scontro fra Atene e la Macedonia assume quindi sempre più i contorni di un conflitto personale di dimensioni titaniche.
In realtà, al di là della passione per il potere (più che per il puro e semplice, brutale, dominio), che muove Filippo, non si può fare a meno di notare che sono all’opera due intelligenze politiche di prima grandezza, che raccolgono, riassumono, interpretano eredità storiche, condizioni, istanze che vanno assai oltre le loro personali passioni, e che soprattutto appaiono impegnate nella costruzione di sistemi di alleanze contrapposte, intese a raccogliere dall’una o dall’altra parte il massimo di ‘grecità’ possibile, con il massimo di coerenza territoriale.
Pag. 612

Per Filippo, nel 340, dopo i fallimenti delle campagne di Perinto e di Bisanzio, si era ormai creata una sorta di stallo: difficile avanzare nella zona degli Stretti; difficile consolidare alleanze e possedimenti nel Peloponneso, nell’area del golfo di Corinzio, in Eubea; lo strumento che ora egli poteva attivare era l’Anfizionia e il ruolo da lui detenuto in quel sinedrio; e così fece, con quel gioco politico sottile e penetrante che egli spinse fino alla dichiarazione della guerra sacra contro i locresi di Anfissa (339/338), di cui abbiamo sopra descritto l’intera dinamica.
Pag. 613.

Nel momento della vittoria si confermano così luminosamente coem più non si potrebbe, tutti i caratteri fondamentali della politica estera di Filippo 2. e in particolare della stessa politica seguita verso Atene, quali fin qui da noi enunciati: intransigente costruzione di un coerente dominio territoriale nel nord (in Macedonia e Tracia); buona disposizione verso Atene (che equivale a una vigorosa valutazione del suo insostituibile ruolo politico e culturale), anche, e in particolare, nel confronto con Tebe (a cui invece si assestano più volentieri colpi duri, anche se non ancora mortali); tenace volontà di non distruggere Atene,  ma di aggregarla al proprio disegno panellenico: di inserirla nel gioco politico macedone, non di farne la vittima designata.
Al re fu eretta una statua nell’agorà di Atene, al figlio Alessandro, che riportava in città i resti dei caduti ateniesi di Cheronea, fu concessa la cittadinanza; ad altri generali furono tributati onori minori.
Pag. 616

Seguì il congresso di tutti ‘i greci a sud delle Termopile’ (la grande cesura, geografica e storica, del mondo greco), cui rimase estranea Sparta.
Fu dapprima proclamata una pace generale ((koinè eiréne), e l’autonomia di tutti gli Stati greci: non vi dovevano essere mutamenti violenti né nei regimi né nei rapporti di proprietà.
Si creò un consiglio comune di tutti i greci (koinon synhédrion), con sede a Corinto, con voto ‘ponderato’ attribuito ai partecipanti; in caso di guerra, il comando generale (heghemonia, una funzione militare, in questo caso) per terra e per mare sarebbe spettato a Filippo; il greco che prestasse servizio militare presso una potenza straniera (si intendeva evidentemente la Persia) era considerato traditore (337).
Tutto era ormai pronto sul versante greco (politicamente, socialmente, militarmente) per la grande impresa contro la Persia.
Poco dopo Filippo 1. sposava Cleopatra (Euridice), una giovane della più alta nobiltà macedone (nipote di Attalo9, che presto gli avrebbe dato un figlio, o forse due.
Fu la grande passione della vita di Filippo 2.; Olimpiade si sentì ripudiata e abbandonò la capitale macedone per l’Epiro; Alessandro si chiuse in un sordo rancore.
“La più grande dynasteia (potentato, potenza) d’Europa” è definizione che Diodoro (16. 1 e 5) riserva sia al dominio lasciato da Dionisio 1. (morendo nel 367 a. C.) a Dionisio 2., sia al dominio di Filippo 2.
Anche lasciando al superlativo meghiste dynamis il senso di superlativo relativo, non c’è contraddizione insanabile fra i due passi di Diodoro, perché la tirannide di Dionisio 1. va dal 404 al 367 a. C. e ha quindi la sua aritmetica akmé circa il 383, mentre il regno di Filippo va dal 382 al 336 a. C., e quindi ha la sua akmé circa il 359 a. C.: potrebbero appartenere addirittura a due generazioni successive.
A Filippo fu dato di inviare soltanto un’avanguardia sul territorio asiatico come premessa della guerra contro la Persia; l’assassinio del re, per mano del suo ex-favorito, Pausania, nel teatro di Ege, avvenuto durante le cerimonie per le nozze di Alessandro il Molosso che alla fine era riuscito a legare la Grecia al suo carro, pur lasciando in vita tanta parte delle condizioni preesistenti, e quella del figlio, il conquistatore di un immenso impero.
Pur senza immaginare diversità assolute, che non hanno posto nella storia, e comunque non l’hanno nel confronto fra i due grandi sovrani macedoni,  possiamo tentare di dare dell’uno e dell’atro una caratteristica di massima.
Del primo era stata l’azione instancabile, che alternava e fondeva l’iniziativa militare con l’abile tessitura politica, così opportunamente e duttilmente calibrata sulla diversità delle singole situazioni storiche proprie del mondo greco; dall’altro fu la conquista fulminea di spazi immensi, l’impresa straordinaria che sembrava forzare le strettoie della storia, per sconfinare nella favole, ma che in realtà creava soltanto una nuova storia, e condizioni profondamente diverse che per il passato, al mondo greco e tutt’intorno ad esso.
Pag. 617-18

Note integrative

Sull’esperienza politica di Aristotele

Ad Atene Aristotele (n. a Stagira nella Calcidica nel 384, m. 3229 è uno straniero, che proviene da una regione la cui storia è collegata con quella della Macedonia (il padre Nicomaco era stato medico personale del re Aminta 3.).
Tra il 343 e il 341 Aristotele fu a Mieza maestro di Alessandro, figlio di Filippo 2.
Prima di questi anni si colloca l’esperienza ateniese di Aristotele, coem scolaro di Platone.
L’estraneità alla polis ateniese e l’appartenenza a un mondo come quello macedone, in rapida e straordinaria ascesa, gli dà una completa disinibizione nel giudizio storico, la capacità di apprezzare le grandi realizzazioni storiche della polis democratica, pur se si tiene lontano da posizioni radicali ed auspica, nella Politica (ca. 335 a. C.), una politeia basata sul ceto medio, formato essenzialmente da gente dedita all’agricoltura.
Il rapporto con la polis è dunque meno complesso, meno ambiguo, forse proprio perché sin dall’origine meno sofferto, di quello di Platone: in definitiva, è un rapporto solidamente storico.
E historia in senso lato, cioè ricerca scientifica nelle più diverse branche del sapere (perciò sapere specializzato), è quello che si praticherà nella scuola di Aristotele, nel Peripatos, la “passeggiata”, sita nella sede della scuola, che si appoggia al ginnasio Liceo (come quella platonica al ginnasio di Academo),  forse nella zona di Licabetto: fu Teofrasto ad acquistare un terreno confinante col parco del ginnasio.
Anche qui ci si trova di fronte a un’iniziativa privata (come è normale per una utenza dell’età dei suoi frequentatori, sui vent’anni o ancor più), che è però in un rapporto di coabitazione con un’istituzione cittadina, come il ginnasio.
Lo spirito di fervida e obiettiva ricerca induce in Aristotele e nella sua scuola un atteggiamento di interesse e rispetto per le forme tradizionali della polis, un tradizionalismo che in un certo senso appare espressione di una stagione politica e culturale più arcaica, rispetto all’aristocraticismo progettatore di Platone, il quale si pone, nel fondo, in una posizione di rifiuto della polis tradizionale.
L’impressione di più forte individualismo e di minore creatività si disperde naturalmente, appena si distolga lo sguardo dalla storia del pensiero e lo si rivolga a quella delle comunità cittadine che – pur nel difficile confronto con gli Stati territoriali dell’ellenismo e poi con Roma – avranno ancora molto da dire nella storia della cultura e delle istituzioni greche.
Aristotele e la sua scuola dedicano perciò le loro cure alla descrizione delle Politeiai (costituzioni) greche, ben 158 (di cui è conservata quasi per intero la preziosa Costituzione degli ateniesi): in questa dimensione panoramica si riflette quel che abbiamo chiamato il nuovo policentrismo greco del quarto secolo, da un alto, lo spirito di erudizione del Peripato dall’altro.
Aristotele ebbe in sorte di vivere di persona, per la prima volta nella storia greca, il difficile rapporto tra la nuova monarchia greca del quarto secolo, quella della Macedonia, e le vecchie poleis.
Storicamente egli si faceva carico, proprio in virtù dell’attitudine scientifica che lo caratterizzava, di tutto il bagaglio culturale e politico della tradizione greca.
Ad Alessandro egli trasmise il patrimonio di tradizioni omeriche, la convinzione della indiscussa superiorità dei greci sui barbari, l’importanza dei valori istituzionali delle libere poleis e un quadro della esperienza costituzionale greca, in cui la basileia era solo una delle forme costituzionali possibili,  e non al costituzione migliore fra quelle possibili.
La distanza crescente di Alessandro da molte di queste posizioni conobbe anche la forma del conflitto aperto, nell’opposizione e nella condanna del nipote di Aristotele, lo storico Callistene di Olinto, nel 327 a. C. Aristotele continuava comunque ad avere, sul piano della politica quotidiana, uno stretto rapporto con i governanti di Macedonia, nella fattispecie con Antipatro: proprio le collusioni che gli si imputavano con il reggente di Macedonia, nel clima di rancore e di rivolta che caratterizza il periodo della guerra lamiaca, lo indussero a lasciare prudentemente Atene per l’Eubea, dove morì però nel 322 ad Eretria.
La scuola fu poi protetta dal peripatetico Demetrio del Falero, tra il 317 e il 307, ma fu in seguito esposta agli attacchi di personaggi dell’ala democratica antimacedone, quali un certo Sofocle, promotore di un decreto che vietava esercitazioni filosofiche non autorizzate, e Democare, nipote di Demostene.
La collusione del Peripato con la Macedonia, sul piano della politica contingente e di una crescente propensione della scuola verso un moderatismo di stampo oligarchico, poco toglie al fatto che, delle grandi novità culturali e politiche connesse con la conquista di Alessandro, i celebratori e i riecheggiatori non furono i Peripatetici, bensì i rappresentanti di indirizzi di pensiero molto più sensibili alle istanze cosmopolitiche, cui la conquista macedone diede l’indispensabile supporto della creazione di nuovi Stati e nuove città
Pag. 621-22

E’ da riconoscere comunque che – pur se individuato come peculiare – il nucleo lessicale macedone resta per vari aspetti collegati al greco comune, e che il risultato generale dell’analisi linguistica conferma il quadro fornito nel testo per il rapporto tra i greci e i macedoni.
Questi ultimi (già in virtù della loro designazione generica ed ambientale) non sembrano costituire fin dall’inizio un unico popolo; ma vi è innegabile la presenza di un nucleo molto forte di greci, che, essendo periferici rispetto al grosso dei greci, presentano peculiarità linguistiche e costituiscono tuttavia l’elemento storicamente unificante, in un progressivo diffondersi e consolidarsi della cultura ellenica: un processo, questo, che conosce due o perfino tre fasi distinguibili fra loro.
Le diverse fasi sono: 1) quella connessa con l’avvento della dinastia argeade, alla fine dell’ottavo secolo a. C.; quella di Alessandro Filelleno e dei suoi successori, dall’inizio del quinto all’inizio del quarto secolo; 3) infine, l’epoca di Filippo 2. e di Alessandro Magno, che perfeziona il processo di assimilazione, ma anche suscita, sul terreno dello scontro tra poleis classiche e Stato territoriale emergente a potenza mondiale, nuove ed esagitate polemiche riguardo al problema della nazionalità macedone.
Pag. 624

Bibliografia

Il protagonismo nella storiografia classica. – Genova, 1887
La grecità politica da Tucidide a Aristotele /M. Pavan. – 1958

Cap. 10. Alessandro il Grande e le origini dell’Ellenismo.

Tra l’estate del 336, data dell’assassinio di Filippo 2.,  e l’autunno del 335, quando Alessandro Magno distrugge Tebe, che si era ribellata alla Macedonia, privando la Grecia della sua ‘luna’, mentre lo stesso suo ‘sole’, Atene, era minacciato dagli eventi.
La storia della Macedonia sembra ripercorrere itinerari consueti; il regno sembra stentare a riprovare il livello di potenza e di efficienza a cui Filippo lo aveva portato: ma si trattava solo di fatti transitori, in definitiva di mere apparenze.
Gli inizi di Alessandro furono faticosi e per tanti aspetti foschi: ma le speranze dei greci ostili, come dei persiani impegnati in un’ultima azione difensiva, dovevano rivelarsi vane.
Pag. 632

Ma subito doveva risultare chiaro come Alessandro avesse ben presente il significato di ognuna delle tappe dell’itinerario politico di Filippo 2. verso  l’egemonia in Grecia e intendesse ribadirne la definitiva acquisizione, come suo erede a tutti gli effetti: in Tessaglia gli è confermata, quasi posizione ereditaria, la tagia; alle Termopile egli ottiene il rinnovato riconoscimento di protettore del santuario delfico; Tebe e Atene sono indotte a formali tributi d’ossequio; a Corinto si rinnova il trattato stipulato fra greci e Filippo, e Alessandro ne eredita la posizione di strategos autokrator (generale con pieni poteri).
Tutti i punti del complesso disegno egemonico di Filippo sono fermamente ribaditi.
Pag. 634

La spedizione di Alessandro si caratterizza nel suo insieme come l’impresa di un grande Stato continentale; la flotta (di 160 navi), al comando del macedone Nicanore, era costituita soprattutto da navi greche ed era certamente inferiore a quella persiana.
Fra i primi atti di Alessandro, in terra asiatica vi furono la visita di Troia e gli onori resi alla tomba di Achille.
Il sogno di Isocrate, di una impresa che unificasse il mondo greco in una spedizione punitiva contro l’Asia, al rivale di sempre dalla guerra di Troia ai conflitti con i persiani, sembrava dunque avere una prima realizzazione.
Da parte di Alessandro tutto ciò equivaleva a conferire un tratto personale in più a quel riaffiorare di livelli culturali ‘omerici’ nella storia del mondo greco, che aveva connotato l’ascesa di uno Stato come la Macedonia.
Era il risultato dell’intreccio tra obiettive caratteristiche arcaiche della società macedone, decifrabili al di sotto degli innegabili elementi di sviluppo storico, e le scelte soggettive, culturali, di Alessandro (l’Alessandro ‘giovane’), a cui non era estranea l’influenza di Aristotele, di Callistene e della stessa tradizione di pensiero isocrateo.
Pag. 638

Una scelta politica obbligata, per quanto riguarda i regimi interni, fu quella di restaurare la democrazia a Efeso e altrove, visto che le oligarchie locali erano quelle tradizionalmente più legate al persiano, che del resto, ancora dopo il Granico, era presente e capace di resistenza nella parte occidentale dell’Anatolia.
Alessandro prendeva quindi, nell’autunno del 334, la decisione di rinviare a casa la più gran parte della già modesta flotta, decisione nient’affatto sorprendente per chi capisce il senso della conquista macedone dell’Asia (vittoria di uno Stato continentale su uno Stato continentale).
Egli doveva affrontare, nell’avanzata verso sud, un altro punto di resistenza in Alicarnasso, che cinse d’assedio e di cui riuscì a conquistare la città bassa, dopo qualche tentativo andato a vuoti e il ritiro nottetempo del rodio Memnone, che trasferì le sue forze nell’antistante isola di Cos.
La satrapia di Caria, dove continuava la resistenza di Mindo e di Cauno (oltre che la stessa cittadella di Alicarnasso), fu affidata ad Ada, una sorella di Maussollo e di Pixodaro, in sostituzione di Orontobate, un persiano che praticava una politica filopersiana.
Il re avanzò in Licia e Panfilia e poi ancora nel cuore della Frigia fino a Gordio, dove con la spada tagliò di netto il nodo che legava un giogo a un carro, e il cui scioglimento, realizzato dal macedone con drastica decisione, doveva, in virtù di un’antica profezia, assicurargli il dominio dell’Asia.
Dunque già ora, circa l’inizio del 333, Alessandro comincia a mandare segnali e cercare conferme del suo disegno di conquista dell’Asia, sia nel senso di una conquista in assoluto, sia nel senso dell’acquisizione di un’eredità storica (ed è già ora qualcosa di diverso dell’idea iniziale, quella del ‘vendicatore della grecità’ sull’Asia).
E’ probabile che la stessa presenza e resistenza di numerosi mercenari greci nelle file persiane, oltre alla freddezza mostrata da alcuni degli alleati greci (a cominciare da Atene) nella partecipazione all’impresa comune, abbia determinato un mutamento di prospettiva assai precocemente, cioè poco dopo la vittoria del Granico.
Pag. 639

Sulla via dell’Egitto Alessandro non ebbe altri ostacoli oltre Gaza, che, occupata da una guarnigione persiana, resisté per due mesi.
La campagna di Alessandro in Egitto 8inverno 332/333) era favorita dal fatto che l’elemento indigeno aveva fresco il ricordo del periodo dell’indipendenza dai persiani, conservata dal 404 al 343 a. C., cioè fino ad appena dodici anni prima.
E’ naturale che qui il macedone fosse accolto come un liberatore, e trovasse anche il modo di visitare l’oasi di Siwah, ove sorgeva il santuario oracolare di Zeus Ammone; i sacerdoti proclamarono Alessandro figlio di Ammone, in quanto signore dell’Egitto; ma dal canto suo egli poteva trovarvi la conferma di quel che la stessa madre Olimpiade aveva detto di lui: che fosse figlio di Zeus, e non di Filippo 2.
E qui, entrato ormai per la prima volta a tutti gli effetti nel ruolo di signore riconosciuto di un paese straniero, Alessandro poteva dare vita a una fondazione cittadina, sorta col suo nome, presso il ramo canopico del delta del Nilo, sul sito del villaggio indigeno Rhakoris.
Intanto, manovre di disturbo dei persiani nelle retrovie anatoliche (in Frigia) fallivano per il valore di Antigono (il futuro diadoco).
Pag. 643-44

Nell’inverno 331/330 Alessandro sostò in Perside, dove aveva dato alle fiamme il palazzo di Persepoli; in primavera (330) mosse ancora verso l’interno.
Dopo Gaugamela la sua avanzata ha ormai le motivazioni, ma anche la velocità e il tratto romanzesco di un lungo inseguimento, in cui il fuggiasco stesso sembra fatalmente segnare ed aprire la strada all’avanzata e alla conquista dell’inseguitore.
Dario fugge in Media e poi nelle estreme regioni orientali, in Battriana (Afghanistan); Alessandro lo incalza in Media, raggiungendo Ecbatana, dove lascia Parmenione, e continua nella sua avventurosa marcia attraverso regioni impervie, dietro un nemico che sembra solo confessare la propria debolezza e la strepitosa grandezza di Alessandro, fuggendo su un territorio così vasto, come un uomo braccato e senza scampo.
La storia, in questi vasti spazi, riempiti dalla fuga dello sconfitto e dall’implacabile caccia che gli dà il vincitore, sembra ridursi a un tragico duello, a un dramma e a un’epopea individuali.
Pag. 647

Ormai i ruoli tra il macedone e il satrapo di Battriana sono completamente rovesciati, nel rapporto con il potere monarchico persiano.
Alessandro s’impadronisce della salma di Dario e la trasferisce in Perside, per una solenne sepoltura nelle necropoli regale di Persepoli.
Tutto, negli atti di Alessandro, è inteso a presentarlo coem il legittimo successore di Dario 3., e questo ha una serie di conseguenze: 1) l’obbligo morale di continuare nell’inseguimento di Besso, che di fronte ad Alessandro, come già di fronte a Dario, è ormai scaduto al ruolo di usurpatore; 2) la spinta a completare la conquista delle regioni orientali dell’Impero persiano, fino ai suoi confini, storici e naturali; 3) la forte ideologizzazione dell’ulteriore conquista di Alessandro, le cui iniziative e i cui gesti si caricano ormai tutti di sensi valori simbolici; 4) il progressivo entrare del re macedone nel ruolo e nei panni del re persiano, di cui egli è il legittimo successore; 5) il formarsi di una opposizione macedone (e poi greco-macedone) ad Alessandro, nel suo stesso entourage, il prodursi cioè di congiure, o quanto meno il costituirsi di un humus ad esse propizia e perciò di un clima di sospetto nella cerchia di Alessandro, a cui risponde la vendicativa ira del re.
Pag. 647-48

Raggiunti ormai i confini (o meglio uan parte del confine complessivo) del caduto regno di Persia, Alessandro poteva in teoria pensare alla conquista dell’India.
Devo dire che si apre, a questo proposito, un problema riguardo alle autentiche finalità e intenzioni di Alessandro al momento della campagna indiana (estate 327 estate 325), sulla quale gravano a mio avviso molti equivoci.
Ci si è spesso lasciati suggestionare da quelle tradizioni antiche che parlano dell’impulso di Alessandro verso uan marcia senza sosta e senza confini, volta alla conquista di sempre nuovi mondi, di un Alessandro, dunque, di irrazionalità e di sogno.
Chi consideri però attentamente sia l’esito e la consistenza storica della campagna indiana di Alessandro, sia le parti dello stesso racconto degli storici antichi riguardanti di atti concreti di Alessandro e la loro effettiva concatenazione e motivazione converrà che, sul terreno dei fatti, la spedizione indiana di Alessandro abbia molto meno di romanzesco e di irrazionale di quanto si immagina sulla base di scarse indicazioni degli scrittori antichi.
Alessandro sembra aver mirato, in realtà, a ricostituire l’intera struttura del confine naturale e storico dell’impero persiano, cioè del fiume Indo (compresi ovviamente tutti gli immissari, il cui completo controllo era la condizione perché si potesse esercitare un controllo effettivo del fiume stesso).
Pag. 650

Anche l’operazione di rientro, terrestre e navale, presenta due piani diversi di lettura, entrambi realmente esistenti, e dei quali nessuno va sacrificato all’altro.
Qui non è in gioco la scelta interpretativa tra una spinta emotiva alla conquista dell’ignoto e una razionale delimitazione dei compiti: c’è infatti, da un lato, il dichiarato intento di verificare la sicurezza dell’Indo dalla parte della foce, dall’altro certamente anche il desiderio di conoscere le nuove realtà geografiche o di definire vecchi problemi (come quello del rapporto, che ormai si rivela insussistente, dell’Indo col Nilo, la cui valle costituiva comunque un altro grande confine fluviale dell’Impero): ma questo desiderio naturalmente non esclude affatto l’intento della sicurezza militare e quindi politica.
E’ per questo che al cretese Nearco viene affidato il comando della flotta che dalla foce dell’Indo deve prendere il mare, attraverso l’Oceano Indiano, lo stretto di Hormuz e il golfo Persico, sino alla foce del Tigri; l’esercito venne così diviso tra Cratero ( (per un itinerario Aracosia-Carmania) e Alessandro stesso (per un itinerario Gedrosia-Carmania) (estate del 325); le fatiche e le perdite umane delle traversate terrestri furono notevolissime.
In Carmania ci fu il ricongiungimento delle tre forze, che anche per queste vie avevano esplorato e consolidato le regioni di confine dell’impero.
Pag. 654

L’anno 324 segna dunque per Alessandro, dopo il lungo periodo di movimento e di conquista, quello dell’esplosione dei vati problemi organizzativi, l’anno in cui si mette in luce il nodo che tutti in lega, cioè il problema  dei rapporti fra le diverse nazionalità.
Una risposta programmatica e simbolica è quella data dal re con le nozze in massa, celebrate a Susa, l’antica capitale degli Achemenidi, nella primavera di quell’anno.
Già sposato alla battriana Rossane, Alessandro ora prendeva come mogli Statira, una figlia di Dario, e Parisatide, figlia di Artaserse Oco (il suo comportamento può forse aiutare a chiarire, per analogia, il vero rapporto che sussiste tra i diversi matrimoni del padre Filippo).
Efestione sposò Drypetis, un’altra figlia di Dario; 80 ufficiali si unirono ad altrettante nobili persiane; fu anche l’occasione per una premiazione ufficiale dei numerosi soldati macedoni che avevano sposato donne bianche.
Pag. 657

Ma la concezione della monarchia universale in Oriente non era mai andata, storicamente, oltre la continuazione reale di un grande dominio e la proclamazione, di principio e solo potenziale, del dominio sugli altri popoli (il primo vero dominio universale nella storia mediterranea resta quello di Roma, come ben comprese Polibio).
E soprattutto, gli atti compiuti nel 323 da Alessandro (allestimento di una spedizione terrestre e navale di conquista dell’Arabia, tra Indo e golfo Persico, da un lato, ed Egitto, dall’altro) non vanno al di là di quel razionale progetto di consolidamento e perfezionamento del confine (in questo caso, un confine interno, data la posizione dell’Arabia), che abbiamo visto all’opera nella campagna dell’Indo, qualunque fosse la portata dei sogni o delle remote intenzioni.
Da buon greco, Alessandro non rinunciò mai, per quanti ideali e idealità gli si possano attribuire, a tener ben fermi i piedi sul terreno della realtà.
Quando già tutto era pronto per la spedizione arabica, il re cadde malato: una febbre, probabilmente dovuta a un male recidivante che Alessandro si portava da anni, lo consumò in appena dodici giorni.
La conservazione di tracce delle efemeridi reali (il “diario”, la cronaca ufficiale delle giornate del re), nella storiografia su Alessandro, consente di aver nozione dell’avvicinarsi giorno per giorno della morte, che giunse il 24 giugno del 323.
Pag. 661.

A questi interrogativi presto se ne aggiungerà un altro, che si rivelerà assai meno formale e più concreto e drammatico: le posizioni centrali erano da intendere come realmente sovraordinate ai poteri regionali dei generali a cui furono attribuite le diverse satrapie dell’impero, o dovevano valere invece solo come centri di coordinamento fra questi poteri, che per sé si profilavano non solo come distinti ma anche come assai più fondanti di quelli centrali, proprio in quanto legati alle realtà regionali?
Si apriva insomma il conflitto fra il principio unitario, che si presentava sotto diverse forme e in differenti versioni, e il principio particolaristico, destinato a prevalere storicamente in meno di venti anni.
Pag. 662

Alessandro affronterà uno dopo l’altro i popoli barbari dell’Italia meridionale (messapii, peucezi, lucani); libererà Siponto ed Eraclea, e da Paestum (forse non ancora sotto il dominio politico lucano) farà una sortita per affrontare e sconfiggere in battaglia sanniti e lucani.
Egli stringe anche un patto con i romani.
Presto però si incrinano i rapporti con Taranto, e questo ha motivazioni sia contingenti sia di più vasta portata: da un lato l’istinto di autodifesa della città dall’autorità del sovrano, dall’altro però l’ampliarsi troppo rapido dell’orizzonte delle ambizioni del Molosso, che investono l’intera Italia meridionale, in una prospettiva che scavalca lo stesso orizzonte politico di Taranto; infine, a Taranto prende sempre più piede una linea politica che è di competitività, certo, ma anche di possibile intesa, sul lungo periodo, con le popolazioni italiche, in virtù di un riassestamento delle alleanze della città greca verso gli stessi vicini lucano, dopo la prima guerra romano-sannitica.
Taranto sembra interpretare sempre di più il suo ruolo come quello di una città egemone dell’intera Italia, greca e indigena, decisa semmai a contrastare l’avanzata di un altro, più distante e più temibile popolo ‘barbaro’, il romano.
Il Molosso, e con lui le città greche che non a caso gli sono e restano devote (come Turii e Metaponto, in tradizionale posizione di antagonismo o almeno di guardinga difesa nei confronti di Taranto), sono invece più legati alla tradizionale politica di opposizione all’elemento barbarico lucano-brettio, che è al momento il più attivo e geograficamente il più vicino (i lucani premono sullo Ionio centrale, i bretii occupano Sibari sul Traente, Terina, Ipponio, Turii [?]).
Alessandro cerca anche di sfruttare a suo vantaggio i conflitti interni al mondo lucano, che in quest’epoca è in fase al tempo stesso di espansione e di fermento; ma sarà ucciso a tradimento a Pandosia proprio da un esule lucano.
Poco dopo la morte del Molosso, intorno al 330 a. C., sembra doversi fissare la data della presa di posidonia (poi Paestum) da parte dei lucani, piuttosto che intorno al 400 a. C., come i più ritengono.
La condizione dei greci in Italia nel settantennio fra le due date in esame (400 e 330 circa a. C.) può descriversi come uno “stato di sofferenza”, esattamente come la rappresenta per Siracusa e la Sicilia greca, negli anni 353-351 a. C., l’autore della Settima e dell’Ottava lettera platonica (che sia Platone o altro autore, comunque di tutto rispetto): condizione di trypé, di opulenza e benessere economico, ma anche di crisi morale, avvertita nel rischio di perdita dell’identità ‘nazionale’, linguistica e politica, pur in un periodo in cui si conserva ancora l’indipendenza politico-militare, tuttavia minacciata, in senso lato, dal punto di vista culturale.
Pag. 666-68

L’ellenizzazione è rilevante, ma resta pur sempre (come del resto è implicito nel termine stesso) un fenomeno di acculturazione, un capitolo suggestivo della storia della grecità di frontiera, con tutta la sua complessità storica.
L’area ha scambi significativi col mondo greco-egeo e più in particolare con Atene, che ne riporta grano, pesce, salato, schiavi ecc. e vi esporta olio, e prodotti artigianali vari; nel regno bosporano però fiorisce anche un artigianato notevole (ceramica, toreutica, ecc.).
A una certa distanza, restano indipendenti e latamente collegate alla vicenda storica, le città greche di Chersoneso (presso Sebastopoli), di origine megarese, in Crimea e Olbia (di fondazione milesia), alla foce del fiume Ipani (Bug).
Pag. 669

Bibliografia

Ellenismo / L. Canfora. – Laterza, 1987
La fortuna di Alessandro Magno dall’antichità al medioevo / C. Frugoni. – 1978
Alessandro Magno tra storia e mito / a c. di M. Sordi…et al. – 1984
Magna Grecia: il quadro storico / D. Musti. – Laterza, 2005

Società antica / D. Musti. – Laterza, 1973

 

 

Cap. 11. L’Alto Ellenismo

L’ampia portata delle conquiste di Alessandro, la preesistente organizzazione di quei vastissimi territori, l’assenza di un erede che fosse all’altezza del sovrano scomparso o nell’età giusta per succedergli, condizionarono fortemente gli eventi successivi alla sua morte, che vanno sotto il nome di guerre dei Diadochi (successori) e degli Epigoni (la seconda generazione di successori), ed occupano complessivamente un quarantennio (dal 323 fino alla battaglia di Curupedio, 281 a. C.).
Il primo ‘ventennio’ (323-301) è il periodo di maggiore tensione, quando tutto è rimesso in discussione, il potere centrale nelle regioni conquistate, come la stessa egemonia macedone in Grecia.
Con la battaglia di Ipso (301), cioè con la sconfitta e morte di Antigono Monoftalmo, l’assetto complessivo, che comporta una netta distinzione tra Egitto, Asia ed Europa macedone, può dirsi ormai consolidato.
Pag. 682

Senza l’esistenza formale ed effettiva della regalità macedone, era del resto poco giustificato l’esercizio di un dominio unitario di tutti i territori conquistati.
Il dramma della successione ad Alessandro è tutto qui.
Già quando il conquistatore era in vita, si era posto per lui il problema di affidare l’amministrazione dei singoli territori a governatori, forse già allora indicati come satrapi.
Per lo più si era trattato di macedoni o di greci; ma non erano mancati casi di utilizzazione di persiani (o d’altri orientali) collaborazionisti.
Con la morte di Alessandro il principio della ripartizione territoriale si estende, ma si applica anche in maniera complicata, che va molto al di là delle stesse ripartizioni tradizionali, rese plausibili dalla geografia come dalla storia: salvo per l’Egitto, di cui Tolomeo ebbe l’acume politico di garantirsi il controllo, che mai più (caso unico fra tutti i Diadochi) perderà.
Pag. 683

Il secondo periodo delle lotte dei Diadochi (321-316) è dunque caratterizzato da una progressiva assunzione del ruolo di erede di Alessandro in Europa da parte di Cassandro, e di erede in Asia da parte di Antigono; restano sullo sfondo residui progetti legittimistici, di cui sono protagonisti Eumene, Poliperconte, Olimpiade.
Il realismo della politica di spartizione è già presente nell’azione politica di diversi personaggi, ma non riesce a conseguire subito tutti i suoi risultati.
Contro le ambizioni imperiali di Antigono si determina, coem già un tempo contro le posizioni legittimistiche di Poliperconte, una coalizione di quei sostenitori del principio particolaristico che ormai, dopo i drammatici eventi del 316, escono pienamente allo scoperto: Tolomeo, Lisimaco e lo stesso Cassandro.
Padrone dell’Asia di là del Tauro, Antigono rivolge ora il suo sforzo di conquista, nella stessa esaltata logica territoriale e politica di Perdeca, verso i domini di Tolomeo.
La sua marcia contro l’Egitto comporta l’invasione di Siria, Fenicia e Palestina: egli conquista Ioppe e Gaza, pone l’assedio a Tiro (315), cerca di sottrarre a Tolomeo il possesso dell’isola di Cipro e a tutta prima vi riesce per la maggior parte delle città dell’isola (fa eccezione Salamina, soggetta a Nicocroente); subito però Tolomeo riprende il controllo della situazione.
Pag. 690

L’accordo comportava la rinuncia al confine dell’Indo, un confine in teoria ‘naturale’, ma di fatto assai ‘innaturale’, in quanto strategicamente poco difendibile, scelto per il suo impero da Alessandro Magno, con scarsa considerazione dell’impossibilità di rafforzarlo sul versante occidentale, col supporto di territori iranici orientali strategicamente utili: si trattava infatti di regioni impervie o desertiche, difficili da raggiungere, come anche di difendere partendo dalle altre regioni iraniche.
Nella primavera del 301 l’offensiva contro Antigono si scatena su tutti i fronti: in Grecia, Cassandro avanza fino a Elatea; in Fenicia Tolomeo si porta sino all’altezza di Sidone, che stringe con un assedio destinato a concludersi al  sopraggiungere d’una falsa notizia, che dava Antigono vincitore in Anatoli su Lisimaco e Seleuco.
Era accaduto il contrario: a Ipso (presso Sinnada, in Frigia) avevano vinto i collegati contro Antigono, soprattutto per l’impatto degli elefanti di Seleuco soverchianti per numero (480 contro 75), ma anche per l’imprudenza di Demetrio, abbandonandosi a un sconsiderato inseguimento della cavalleria avversaria: Antigono, che invano aveva sperato nel ritorno del figlio, trovava una gloriosa morte sul campo (estate del 301).
Pag. 703-4

Il personaggio Pirro è caratterizzato da un attivismo inquieto, che si dispiega su tutti i fronti.
Già parecchio tempo prima dell’intervento a favore di Taranto nel 280, egli è, fra i diadochi ed epigoni di Alessandro, quello più attento alle possibilità d’intervento in Occidente: ve lo indirizzano la posizione geografica dell’Epiro e la tradizione dei re di quella regione, in particolare l’esperienza di Alessandro il Molosso.
All’impegno dispiegato su larga scala non corrisponderà mai un reale e stabile successo.
La prima parte della sua vita è quindi condizionata da altri fattori, quelle lotte dei diadochi che sembrano più grandi di lui: le vicende dei successivi 25 anni sono tanto brillanti, quanto improduttive.
In esse egli portava però la genialità e il valore del grande generale, rafforzato poi dal mitistorico richiamo ad Achille e al figlio Pirro Neottolemo, come propri antenati.
Questa coscienza Pirro porterà durante la spedizione in Italia, dove egli combatterà come un re panellenico, quasi un nuovo Achille contro i romani discendenti dei troiani, e come un nuovo Alessandro Magno contro i barbari.
Questa interna attitudine non trasforma naturalmente il disegno occidentale di Pirro in un piano eminentemente distruttivo verso Roma né Roma nel suo principale bersaglio: ché il suo scopo è di vendetta e di difesa, ma anche di lata unificazione della grecità occidentale, per la quale si erano culturalmente create, tra quinto e soprattutto quarto secolo, ampie premesse.
Pag. 707

La caduta del regno euroasiatico di Lisimaco, determinata dalla vittoria di Seleuco a Curupedio, pone fine ad una realtà composita, che poco era durata, e la cui scomparsa non poté certo di per sé produrre quelle conseguenze negative che taluno le attribuisce.
Non è la struttura composita che ne costituisce la funzione, ma, semmai, l’arte di governo di Lisimaco, la sua qualità di costruttore di città.
Il comportamento di Seleuco dopo la vittoria e le vicende di cui fu protagonista Tolomeo Cerauno sono al contrario nel segno di una rinnovata separazione dell’area europea già sul versante europeo, tra Macedonia e Tracia.
Pag. 715

Lo stesso sviluppo culturale, che assumeva connotati particolari dall’educazione filosofica del sovrano, un seguace del fondatore della Stoa, Zenone di Cizio, era il naturale seguito della rilevante apertura culturale che aveva caratterizzato, con sempre maggiore incisività, la Macedonia del quinto e quarto secolo: solo che ora interlocutore, invece della sola Atene, era il mondo ellenistico nelle sue più ampie dimensioni, e con le caratteristiche cosmopolitiche che a queste nuove dimensioni e strutture corrispondevano.
Con Pirro si protrasse lo scontro, soprattutto nel Peloponneso, fino al 272, anno della morte di quell’irrequieto sovrano: ma alla fine degli anni Settanta Antigone aveva sotto il suo controllo anche la Tessaglia, e ampie zone della restante Grecia; aveva del resto suoi uomini di fiducia (tiranni) nel Peloponneso e guarnigioni opportunamente dislocate nei tre punti strategici dell’Ellade (Demetriade sul golfo di Volo, Calcide euboica sull’Euripo, Corinto sull’istmo): i tre ‘ceppi dell’Ellade’, nella rappresentazione polibiana del dominio del Gonata.
Pag. 718

Un pieno consolidamento del dominio seleucido in Asia minore fu ostacolato da alcuni fattori e condizioni, che in determinati periodi operarono congiuntamente, procurando i più gravi momenti di crisi al regno di Siria.
In primo luogo, va tenuto conto del fatto che la  conquista seleucida dell’Anatolia ad Ovest del Tauro era stata fin dall’inizio limitata al controllo della grande arteria di collegamento con la costa egea dell’Asia minore, e della costa medesima, cioè dell’area delle vecchie e nuove città greche, sì che permanevano, e rientravano spesso attivamente nel gioco politico, Stati che mai i Seleucidi avevano assoggettato o assoggetteranno, come il Ponto, la maggior parte della Cappadocia, la Bitinia.
Per conseguenza anche regioni un tempo soggette, come quella di Pergamo, si rendono autonome, sollecitando l’ulteriore sfaldamento del dominio seleucidico, che fu contrastato solo temporaneamente da governatori seleucidici resisi indipendenti dal potere centrale impiantato ad Antiochia, e dallo stesso re, Antioco terzo, in un tentativo – rivelatosi alla fine di breve respiro – di ricomporre la vecchia unità del regno.
Il terzo fattore, che costituirà la causa di maggior durata delle condizioni di relativa insicurezza, in cui cronicamente versa il regno di Siria, è la vicinanza di un Egitto, assillante nella sua pretesa di controllo dell’area siriaca, quanto meno di quella meridionale: un controllo inteso a ricostituire a proprio vantaggio, dopo la scomparsa dell’impero achemenide, una coerenza territoriale delle regioni del Mediterraneo orientale, da Cipro e Cilicia, alle coste e regioni siro-fenicio-palestinesi, fino all’Egitto medesimo.
le diverse guerre di Siria (o di Celesiria), che si succedono tra Siria ed Egitto tra il 280 e il 168, seguono quasi sempre lo stesso copione: raramente gli esiti sono tali da stravolgere il rapporto e i tormentati e labili confini fra i due regni;  per lo più i risultati, a vantaggio ora dell’uno ora dell’altro contendente, quindi di volta in volta di segno diverso, non sono tali da coinvolgere la sicurezza delle parti centrali dei due regni in conflitto.
Pag. 718-19

Sono comunque, questi decenni centrali del terzo secolo a. C., anche quelli della medesima fioritura politica e culturale dell’ellenismo, gli anni più propriamente definibili di ‘alto ellenismo’, dando all’espressione un senso valutativo (in senso meramente cronologico la definizione abbraccia anche i decenni da Alessandro magno in poi).
Benché sia difficile trovare dopo il 260 anni di pace, e di uguale solidità dei tre regni, tuttavia, nei decenni centrali del secolo, alla sostanziale stabilità interna dell’Egitto e della Macedonia corrisponde una tenuta del regno seleucidico.
L’ellenismo, in senso politico e culturale, conosce insomma la sua acme tra il 280 e il 220 circa.
Pag. 723

Dei nuovi Stati a dirigenza macedone e greca, sorti in seguito alle conquiste di Alessandro Magno e al successivo smembramento del suo impero, l’aspetto più caratteristico è l’estensione territoriale: un dato fondamentale, cui conseguono direttamente vari altri, di ordine demografico, amministrativo, socio-economico, politico.
Alla grande estensione territoriale sono collegati, coem conseguenze immediate, il numero cospicuo degli abitanti, e in molti casi il carattere composito della popolazione dal punto di vista etnico, nonché l’eterogeneità dei caratteri geografici ed economici del territorio.
Manca un centro urbano unico, intorno a cui la chora si disponga e si distenda, quasi in fasce circolari, come è nel caso della polis, né vi si riscontra una pluralità di centri equivalenti in diritto, o politicamente collegati con un centro egemone, come è in una lega o in uno Stato federale.
Lo Stato monarchico territoriale comporta l’esistenza di una capitale,  cui si affianca una chora, in cui sorgono altre poleis (questo, tutto sommato, è il caso di Alessandria, nel suo rapporto con l’Egitto), o di una capitale primaria, accanto a cui sussistono alcune secondarie (come è il caso di Antiochia sull’Oronte, Seleucia sul Tigre, Sardi nel periodo di maggiore fulgore del regno seleucidico) e di un territorio che presenta una notevole complessità di strutture geografiche, etniche, economiche, politiche.
La vastità della chora disponibile in generale è la causa immediata dell’estensione del territorio appartenente allo Stato, o al re in quanto incarna lo Stato, della chora basiliké, accanto alla quale sussistono (anche se di volta in volta occorre chiarire l’autentico rapporto giuridico) proprietà private e templari, che possono assumere dimensioni, o collocarsi in un rapporto col centro del potere, diversi che nell’ambito di una polis.
Il territorio dei regni ellenistici per la sua estensione si presta inoltre ad una suddivisione che risponde ad esigenze di carattere amministrativo, fiscale, giudiziario, mentre la prima conseguenza sul piano dell’organizzazione militare è la dislocazione delle forze in più punti, cui si accompagna la creazione di più centri di comando, ovvia occasione di conflitti.
Dal punto di vista delle forme politiche espresse, il territorio di un regno ellenistico presenta una varietà, determinata dalla presenza, nel tessuto compatto della chora del regno, di entità politiche autonome, come le poleis, organizzate di norma secondo gli istituti della demokratia e fornite di un più o meno alto grado di autonomia e di eleutheria.
Pag. 728-29

Le strutture fondamentali dei regni ellenistici non rappresentano una novità sostanziale nella storia di quegli spazi geografici e politici.
Il regno seleucidico eredita la maggior parte dei territori e delle relative strutture dell’Impero persiano; l’Egitto recupera strutture di epoca faraonica, al di là dei periodi (527-404; 343-331), in cui (con lunghi intervalli di indipendenza) aveva costituito una provincia dell’Impero achemenide.
La novità consiste nel sopravvenire di un elemento etnico estraneo alla regione, nettamente minoritario, e differente da qualsivoglia fra gli elementi etnici prevalenti in epoca precedente.
Se nell’Impero persiano l’elemento iranico (nelle regioni propriamente iraniche a quelle anatoliche) non sarà stato di molto inferiore alla metà degli abitanti del territorio (escluso l’Egitto), nell’Impero seleucidico i macedoni non dovettero mai superare il 10% e in Egitto rappresentavano una percentuale ancora più bassa.
La presenza greca era assicurata da un lato da una forte immigrazione, che avveniva così al livello dei soldati, di uomini di cultura o persone professionalmente qualificate, come anche di piccoli e grandi commercianti, dall’altro dalla sopravvivenza di vecchie città greche, numerose soprattutto sulle coste dell’Egeo.
Per tutti questi elementi rappresentava una novità la creazione di Stati a dirigenza greco-macedone, rispetto agli Stati che li avevano preceduti e in cui gli elementi greci avevano costituito un corpo estraneo e in qualche modo sottomesso.
Ma tutto sembra mostrare che i greci non arrivassero mai ad elaborare una teoria politica dello Stato ellenistico, inteso come fusione di elementi etnici diversi e distribuzione di responsabilità politiche fra queste stesse componenti.
Pag. 730

Predominante è infatti, nel periodo anteriore alla pace di Apamea (del 188), la città stessa di Pergamo, i cui rapporti con le poleis dell’angolo nord-occidentale dell’Asia minore sarà difficile concepire (come pure talora si è fatto) nei termini di una pura e semplice symmachia egemonica.
Dopo la pace di Apamea, che segna l’assorbimento di territori già appartenenti allo Stato seleucidico (Frigia e Lidia, Lcaonia, Pisidia, Panfilia, Cibiratide, Chersoneso tracico, che s’aggiungono alla Misia, che già nel regno faceva parte: domini che si estendono per più di 170.000 km, con una popolazione di circa 5.500.000 abitanti), il regno di Pergamo risulta costituito dal vecchio nucleo, fortemente accentrato intorno alla città, e da un’ampia area annessa, che presenta quella mistione di strutture cittadine e di villaggio (spesso in colonie militari) e quei problemi dunque di carattere politico e sociale, che erano stati propri del regno dei Seleucidi.
La peculiarità storica dei due più grandi Stati ellenistici di nuova creazione (Egitto e Siria), e di vari altri Stati minori d’Asia minore, è proprio la coesistenza delle strutture di villaggio con le strutture cittadine, e l’importanza generale delle prime, che si rivelano come fattori di ordine sociale ed economico di grande resistenza; a costituirle sono i cosiddetti laoi.
Definire lo status del laoi in generale e specialmente dei laoi basilikoi degli Stati ellenistici, è compito tanto spesso affrontato, quanto difficile da assolvere fino a soluzioni definitive e convincenti.
Laoi, in generale, definisce l’elemento indigeno rispetto a quello greco: è la popolazione, la cui speciale connessione con la terra viene definita volta per volta nel contesto, ma non è contenuta a priori nel termine stesso.
Più chiaro il rapporto di dipendenza, quando si aggiunge l’aggettivo basilikoi, come troviamo in iscrizioni seleucidiche e pergamene.
E’ più facile dire che cosa non sono i laoi, che dire che cosa sono.
Vi erano chora basiliké pergamena, come risulta da OGIS 338, il decreto cittadino emanato nel 133 a. C., dopo la morte dell’ultimo re, Attalo 3.; ma i laoi basilikoi non sono schiavi.
Ostinarsi su questo punto è sfondare una porta aperta, perché nel termine laoi, anche se accompagnato dall’aggettivo basilikoi, e in quel po’ che si ricava sulla loro condizione dai testi, nulla significa una condizione schiavile.
Non sono schiavi, e gli studiosi li considerano di volta in volta liberi, quasi-schiavi, servi, servi ereditari,  o suggeriscono l’affinità della loro condizione con quella dei pelatai del Bosforo o dei coloni romani ecc.
In un passo dell’iscrizione relativa alla vendita di un terreno da parte di Antioco 3. a Laodice, si legge che alla regina, che qui appare come acquirente di una porzione di chora basiliké, è stato venduto un villaggio, col suo ‘castello’, con la terra che gli appartiene, con il topoi ivi compresi, i laoi con le loro cose e tutti i loro beni e le entrate del 59° anno.
Pag. 733-34

Per l’Egitto tolemaico si ammette generalmente uan situazione più semplice, per un processo di adeguamento a condizioni preesistenti, proprie dell’epoca faraonica e del periodo di dominio persiano.
Arrivati come capi di soldati macedoni, i Tolomei assunsero anche il ruolo di eredi dei faraoni; come tale, il re ellenistico è figlio di Ammon-Ra, e perciò proprietario del suolo e dei sudditi.
E’ questa convinzione di fondo che presiede alla ripartizione che il Rostovtzeff propone della terra dell’Egitto tolemaico in due grandi categorie: ghe basiliké “terra regia”, e ghe en aphései “in concessione”, cui si potrebbe affiancare una terza categoria, quella della chora cittadina (ma si sa quanto poche siano le poleis dell’Egitto tolemaico).
Della “terra in concessione” farebbero parte: 1) la terra dei santuari; 2) terreni destinati alla remunerazione dei servitori dello Stato; 3) la terra dei cleruchi; 4) le vaste tenute donate a grandi personaggi dell’entourage civile e militare del re; 5) la terra dei privati.
Si tratta di una concezione alquanto rigida, che considera tutta la terra come proprietà del re o, in linea di diritto, solo provvisoriamente dei domini regi.
Pag. 739

Il territorio del regno pergameno, che considereremo nel momento del suo massimo sviluppo, con la pace di Apamea (188 a. C.) si presenta articolato in: 1) città; 2) colonie militari; 3) proprietà temporali; 4) domini reali; 5) tribù semi-indipendenti.
Nell’insieme la situazione è quella tipica di ogni regno ellenistico, con una vicinanza maggiore, nella struttura di base, al regno seleucidico, soprattutto per la presenza di numerose città, di elemento etnici abbastanza eterogenei, di proprietà templari (OGIS 335 attesta ad esempio affinità di comportamento di Seleucidi e di Attalidi verso la città di Pitane, alla quale Antioco 1. aveva venduto delle terre, e a cui Filetero prima e poi Eumene 1. di Pergamo confermano la panktetikè kyreia, cioè la piena e assoluta proprietà, della chora).
Ma per alcuni aspetti la politica degli Attalidi poté essere diversa da quella dei Seleucidi.
In generale, verso il territorio gli Attalidi sembrano aver perseguito una politica di espansione delle proprietà demaniali.
Pag. 741

Che Alessandro Magno abbia praticato una politica di fusione tra macedoni e orientali è cosa che viene molto naturale ammettere sia sulla base della politica matrimoniale da lui perseguita (si pensi ai suoi matrimoni, prima con Rossane, figlia del sogdiano Oxyartes, e poi, nel 324, con Statira e con Parisatide e alle nozze in massa dei suoi ufficiali e soldati con donne iraniche, nel medesimo anno), sia in considerazione di aspetti dell’organizzazione militare da lui voluta (la costituzione di un corpo di 30.000 epigonoi persiani, addestrati nel suo esercito; l’inserimento di cavalieri battriani, sogdiani, aracosi, zaranghi, arei, parti, euaci, nella cavalleria eterica; la formazione di una quinta ipparchia, non per intero costituita da barbari, al comando di un Battriano; l’ammissione di singoli nobili iraniani nel ruolo di Aghema) e del suo comportamento personale e di governo.
Certo, non mancarono drammatici ritorni indietro, nella politica perseguita da Alessandro verso gli orientali (basti pensare all’eliminazione violenta, nella primavera del 324, dei satrapi persiani della Perside, della Susiana, della Carmania e alla rimozione di altri); ma nell’insieme una politica di fusione, almeno sul piano delle strutture amministrative militari e civili, doveva essere nei piani di Alessandro, e sembra esagerare chi nega che ci siano tracce di politica di fusione al di fuori delle nozze di Susa, perché Alessandro avrebbe fatto divieto ai veterani di portare in Macedonia le mogli iraniche: anche se tale politica di fusione non assume quella dimensione universalistica e quasi evangelica che le attribuiva W. W. Tarn, il quale vi riconosceva l’idea dell’unità fra gli uomini e (nel prosieguo dell’indagine) quella di un dio che fosse padre comune di tutta l’umanità, e inoltre il senso di una missione divina, da svolgere nel senso della fondazione della homonoia (concordia) universale, e l’aspirazione a che tutti gli uomini fossero partecipi (e non sudditi) del regno di Alessandro.
Pag. 742

Un famoso brano di Polibio (21. 43, 2) dà una nozione immediata delle forme in cui si esprimeva verso le “città libere” la dominazione di un regno.
Riferendosi alla mutata condizione delle città dell’Asia minore occidentale dopo la pace di Apamea, egli ricorda coem questa le liberasse “quale dal tributo, quale dalla guarnigione, tutte dai prostagmata regi”.
Polibio si riferisce al metodi di governo seleucidici.
Eppure fu proprio il regno seleucidico a doversi confrontare, soprattutto nelle regioni occidentali dell’Asia minore, con le aspirazioni tradizionali delle poleis greche, sul piano internazionale e interno, aspirazioni che si riassumono sotto i tre concetti di eleutheria, autonomia, demokratia.
Nell’insieme si potrà ben ammettere (come sosteneva A. Heuss in un vecchio libro sui rapporti tra città e sovrano in età ellenistica) che le istituzioni fondamentali della polis non venissero toccate o alterate dal potere monarchico; ma è anche innegabile l’astrattezza di questo punto di vista, quando si consideri che cosa significhi sul piano della politica reale la presenza di guarnigioni imposte alle città dai sovrani, o l’invio di prostagmata da parte del monarca, o l’esazione di un tributo o l’imposizione di un epistates (ho epi tes poleos).
Pag. 744

  1. Bikerman ha formulato in maniera precisa i fondamenti su cui poggia la monarchia ellenistica: 1) il diritto di vittoria; 2) la trasmissione ereditaria del diritto uan volta acquisito.
    Il locus classicus della storiografia antica che fonda il principio del diritto di conquista connesso alla vittoria è Senofonte, Ciropedia 7. 5, 73.
    In particolare, il concetto di chora doriktetos (terra conquistata con la lancia) è richiamato più volte in Diodoro 17.-21., per fatti relativi al periodo 334-301 a. C., mentre le pretese di Antioco 3. sulla costa egea della Tracia sono fondate proprio su questo concetto, secondo Polibio, 18. 51, 3-8 (cfr. 28. 1, 4, per Antioco 4.).
    L’importanza dell’idea è diversa comunque da regno a regno e nelle diverse epoche.
    La monarchia si fondava sulla capacità di guidare un esercito e di amministrare saggiamente la cosa pubblica: una concezione che si contrapponeva all’idea che la posizione monarchica fosse fondata o sulla nascita o su un diritto.
    A sua volta il sovrano diventa legge animata e vivente, nomos empsychos, un’idea che risale certo in larga misura a Platone (Politico 293 sgg.; Leggi 9. 875 c), e ad Aristotele (Etica nicomachea 5. 1132 a).
    Le definizioni teoriche della figura e delle funzioni del re dell’età ellenistica (o di derivazione ellenistica), indicano tre funzioni essenziali: 1) quella del comandante militare; 2) quella del giudice; 3) quella del sacerdote.
    Pag. 747

Le strutture e gli aspetti tecnici fondamentali dell’esercito macedone dell’epoca di Filippo 2. e di Alessandro Magno erano rappresentati da: 1) compresenza di fanteria, cavalleria, peltasti-mercenari; 2) organizzazione falangitica della fanteria; 3) presenza di una guardia di opliti e cavalieri indicata talora col vecchio nome di Aghema; 4) carattere territoriale e regionale del reclutamento.
Buona parte di queste caratteristiche permangono negli eserciti dei regni ellenistici.
La possibilità di un collegamento del soldato alla terra, attraverso l’assegnazione di un kleros individuale, o la fondazione di colonie militari, è nota all’antico regno macedone, ma diventa una connotazione anche più caratteristica delle armate ellenistiche.
Nella sua struttura composita l’esercito tolemaico riproduce in larga misura il tipo di organizzazione militare macedone.
Concorrono a costituirlo: 1) i Makedones, come forza regolare: un nome che non ha più un preciso valore etnico a cominciare dal 3. secolo (ma è difficile dire se il suo valore si limiti a quello di un equipaggiamento “di tipo” macedone; 2) i mercenari; 3)gli indigeni.
E’ la grande e progressiva incidenza di questi due ultimi elementi che caratterizza etnicamente e sociologicamente le armate di età ellenistica.
Come ausiliari compaiono, già sotto il primo Tolomeo, i machimoi, indigeni che servono in corpi speciali e rappresentano un residuo di epoca faraonica.
Ma dopo Rafia gli indigeni entrano in massa nelle forze regolari.
Seguono poi: 4) la guardia del re, che non ha nome speciali; e 5) le forze di polizia.

Più che gli aspetti organizzativi e tecnici, per il quali basterà una sommaria esemplificazione di titoli, gerarchie, funzioni, ci interessano gli aspetti sociali della storia dell’esercito, come il fenomeno di massa: aspetti verificabili, per presenza di documentazione, soprattutto per il regno tolemaico.
Questo tipo di indagine assume un significato particolarissimo per l’epoca ellenistica, che è giustamente definita “un’epoca militare”.
Quello dell’esercito è un terreno sul quale si può valutare il rapporto dell’elemento militare col potere centrale e la classe dirigente, da un lato, e l’integrazione tra stranieri e indigeni, dall’altro: e ciò in Egitto, come s’è detto, molto meglio che in altri regni ellenistici.
L’esercito è un terreno di confronto tra gli stranieri, affluiti dalla Grecia, Asia minore, Palestina, fin verso la fine del 3. secolo a. C., gli indigeni e il popolo dominatore.
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Agatocle si rivela personaggio capace di concepire piani di ampio respiro, che comportano la centralità di Siracusa, l’unificazione tendenziale della Sicilia, un orizzonte strategico così vasto da includere un attacco diretto ai territori africani di Cartagine, un orizzonte politico e diplomatico che coinvolge, sempre in prospettiva anti Cartagine, lo stesso Egitto tolemaico.
Non sorprende che egli, finita l’avventura africana, riprenda i piani di Dionisio 1. Per la costituzione di un dominio in Italia e la creazione di stabili punti di appoggio siracusani nell’Adriatico, recuperando anche quell’orizzonte di interessi corinzi, che, mai infondo venuto meno, era stato reso però nuovamente attuale proprio dall’intervento di Timoleonte e dai suoi seguiti storici.
L’eredità di Dionisio 1., in tema di politica territoriale ed egemonica, viene dunque per intero assorbita da Agatocle e persino trasferita a un livello di maggiore completezza ed organicità.
Tutto questo sembra innalzarlo, anche tenuto conto dei termini di confronto possibili nella sua epoca, a un significato storico che va ben oltre il riconoscimento di Scipione l’Africano, il quale associava Agatocle a Dionisio per fattività e audacia (Polibio, 15. 35, 6): è l’intero giudizio di Polibio (35, 3-6)che va tenuto presente: in esso si riconosce ad entrambi non solo la capacità di fare carriera, partendo da umili origini (Agatocle avrebbe cominciato lavorando al tornio e alla fornace, come ceramista), ma anche di diventare, oltre che tiranni di Siracusa, “basileis di tutta la Sicilia e signori di alcuen parti d’Italia”.
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Agatocle è lì a tessere la sua tela grandiosa, alla prova dei fatti troppo ambiziosa per le forze e la durata della vita di un individuo.
Allestisce una grande flotta, destinata sempre al sogno della guerra anti cartaginese; rompe con Pirro; fa divorziare da lui la figlia Lanassa, che resta in possesso di Corcira; stringe intese con Demetrio Poliorcete, nel frattempo divenuto re di Macedonia.
Ma una grave malattia accellera la fine del sovrano siracusano, ormai settantaduenne.
Non fu senza colpa di Agatocle se, poco prima della morte, si complicò oltre ogni dire la questione della successione al trono siracusano, cui era stato destinato in un primo tempo il nipote Arcagato, figlio dell’Arcagato  morto nella spedizione africana; avendo avuto però Agatocle un figlio da un secondo matrimonio (Agatocle il giovane), egli preferì all’ultimo momento la successione del figlio, segnandone così il destino, perché Arcagato fece assassinare il giovane, per liberarsi di un rivale.
Il nonno, morente, ne vanificò l’ambizione, che non arretrava di fronte al crimine; concesse infatti ai siracusani la libertà, cioè restaurò la Repubblica (289).
Con la fine del re siracusano, tutti i tradizionali problemi della storia politica della Sicilia (conflitti fra greci e cartaginesi: conflitti all’interno del mondo greco; problema dei mercenari di origine extra-siceliota) si ripropongono puntualmente, senza che ci sia più un uomo capace di venirne a capo in una linea politica d’indipendenza.
Sicché ormai i problemi del governo della Sicilia si incaricheranno di risolverli potenze estranee all’isola.
Si va costituendo il terreno per quella prima guerra tra Cartagine e Roma, in cui una larga parte dei sicelioti sentirà la propria sorte e cultura meglio rappresentata da Cartagine che non da Roma.
Ancora una volta Siracusa (allora sotto il governo di Ierone 2.) rappresenterà l’intera parabola dei sentimenti e degli atteggiamenti greci e farà presto la scelta militarmente e storicamente vincente.
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Abbiamo già detto del trattato che stabiliva limiti alla navigazione romana nel golfo di Taranto, e della lungimirante intenzione della città greca di tener Roma lontana anche dai greci della costa.
Nei confronti dei lucani, Taranto voleva esercitare in prima persona la funzione di tutrice delle popolazioni greche (anche se, nell’esercizio di questa funzione, non mancava di ambiguità).
Quando perciò, nel 282, Turii chiese aiuto ai romani contro i lucani e Roma inviò G. Fabrizio Luscino con un esercito che sgominò gli italici, Taranto reagì come di fronte a un’interferenza grave: sequestrò una squadra navale romana, che era comparsa nel golfo di Taranto, e impose alle truppe che presidiavano Turii di lasciare la città.
Comunque si debba valutare l’aspetto giuridico della questione, Taranto certamente mostrava di capire che l’intervento romano a tutela di una città greca del golfo tarantino comportava un salto di qualità nella politica della città la tina verso la Magna Grecia, svolta che aveva certo precedenti significativi nel foedus con Napoli del 326, ma che significava ormai l’arrivo delle armi di Roma fino all’ultima spiaggia della grecità italiota, quella che era stata storicamente il nucleo stesso della Magna Grecia.
Come già mezzo secolo prima ad Alessandro il Molosso, Taranto si rivolgeva ancora una volta a un re epirota, perché esercitasse una funzione di tutela, che la grecità d’Italia chiedeva contro il ben più temibile barbaro che si affacciava ormai sulla costa greca.
Pirro, sfortunato pretendente al trono di Macedonia, aveva le mani libere per un’impresa del genere, e Tolomeo Cerauno, salito al trono macedone nel 281, gliene fornì i mezzi, in uomini (5000 fanti e 4000 cavalieri) ed elefanti (50).
Con la spedizione di Pirro, l’Oriente ellenistico s’immette di forza nella storia dell’Occidente greco, ma solo per registrare la fine dell’indipendenza di quest’ultimo.
L’incertezza dei piani di Pirro in Occidente è reale: non è solo un’apparenza, prodotta dalla insufficienza della tradizione letteraria.
Sembra in effetti che i suoi progetti abbiano avuto comunque come perno la Grecia e la Macedonia.
La spedizione in Italia e quella in Sicilia sono un grandioso hors-oeuvre, uno straordinario fuori programma, anche se preparato dai processi storici in cui erano state coinvolte nell’ultimo secolo e mezzo l’Italia e l’isola.
La progressiva assimilazione fra i destini storici delle due aree faceva sì che Pirro potesse considerare l’azione in Italia quale preludio alla conquista della Sicilia; il disegno di assoggettarsi l’isola era stato preparato anche dalle intese con Agatocle, ed era confortato dall’esistenza di un figlio dato a Pirro da Lanassa (Alessandro), al quale era probabilmente destinato il regno sull’isola, come appendice di un regno paterno saldamente impiantato nella penisola greca.
Con Pirro, dopo più di mezzo secolo, sembra rovesciarsi il rapporto tra grecità occidentale e grecità peninsulare (ché i predecessori, da Archidamo a Cleonimo, dovevano essere, per gli italioti, solo degli splendidi ausiliari; mentre con Pirro – anche per l ‘incombere di minacce storiche ormai sempre più pesanti sulla grecità occidentale – i greci sembrano più disposti a considerare l’eventualità di un salvatore che sia anche il sovrano dell’Occidente ellenico).
La storica traversata (diabasis) dell’Adriatico da parte di Pirro avvenne nel maggio del 280.
Egli portava con sé un cospicuo esercito (circa 25000 tra fanti e cavalieri e 20 elefanti da guerra).
P. Valerio Levino tentò di impedire il contatto tra Pirro e i suoi alleati lucani; ad Eraclea ebbe luogo il primo scontro con i romani, che fu vittorioso per l’epirota, ma costò 4000 uomini, contro i 7000 caduti di parte romana.
Nel clima della vittoria si crea quell’unione greco-italica contro Roma, che era stata già da tempo il programma politico di Taranto.
Sanniti, lucani e Brettii, fra i greci, Crotone e Locri passano subito dalla parte del re epirota, mentre a Reggio la guarnigione campana installata da Roma approfitta della posizione di forza per brutalizzare la popolazione e saccheggiare gli averi, conservando però in compenso e di fatto la città all’alleanza romana.
Pirro si spinse fino ad Anagni, nella sua avanzata verso Roma, che però veniva subito validamente presidiata con truppe fatte rientrare dall’Etruria e con nuove leve.
Già allora cominciano tra i romani e Pirro (o meglio il suo celebre ambasciatore Cinea) trattative di pace (la cui esistenza chiarisce di per sé i limiti della spedizione dell’epirota; ma esse si rivelano infruttuose, anche per l’opposizione di Appio Claudio Cieco.
Nel secondo anno (279), Pirro cerca di venire a capo dei romani anche in Apulia (dai suoi movimenti è chiaro quanto fosse determinante il disegno strategico di liberare Taranto sui due fronti, quello lucano e quello apulo); presso Ascoli Satriano (in Puglia), a nord dell’Aufidus (Ofanto), i romani furono nuovamente battuti; ma ancora una volta le perdite di Pirro si avvicinavano a quelle subite dagli sconfitti (4000 caduti contro 6000 del nemico).
La ripresa delle trattative (che nell’intenzione di Pirro dovevano produrre la rinuncia di Roma al dominio sull’Italia meridionale, nelle componente greca, come in quella italica dai sanniti ai Brettii) fu resa vana dall’intervento di Cartagine, che consolidò e ampliò i vecchi trattati con Roma, e che mirava soprattutto a bloccare il prevedibile intervento di Pirro contro i cartaginesi, i quali cingevano d’assedio Siracusa, allora sotto il governo di Thoinon e in conflitto con Sosistrato di Agrigento.
Chiamato dai greci in Sicilia, Pirro passò nell’isola nell’autunno  del 278, confermando così il carattere della sua missione, che era di liberazione dell’intera grecità occidentale dalle minacce incombenti, sia quella di Roma in Italia, sia quella di Cartagine in Sicilia.
Chi pensi alla storia dei decenni successivi (fino al 201 e oltre) – che nel Mediterraneo occidentale saranno occupati dal confronto tra Roma e Cartagine – misurerà a pieno la portata storica del tentativo di Pirro di bloccare due forze crescenti, minacciose per la libertà d’azione dei greci e destinate a scontrarsi fra di loro.
Pirro fu eletto egemone e basileus, ma sul trono di Sicilia era previsto probabilmente come suo successore Alessandro, come si è già detto.
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Ad attirare i romani in Sicilia furono i mamertini.
Dapprima, contro la pressione dei siracusani, essi avevano chiesto e ottenuto un presidio cartaginese, ma successivamente prevalse un orientamento ‘nazionalistico’ e perciò filoromano, che faceva leva sulla coscienza (evidentemente allora, al cospetto di realtà esterne come greci e cartaginesi, alquanto diffusa) dell’affinità di stirpe tra osci e romani.
Con la tentata traversata di Appio Claudio nel 264 e la riuscita diabasis dello stretto ad opera di M. Valerio nel 263, cominciava la Prima guerra punica (264-241), che doveva rendere i romani padroni della Sicilia, ponendo fine – dopo circa tre secoli – all’esistenza di un dominio cartaginese dell’isola.
Ma anche l’elemento greco divette adattarsi a una situazione radicalmente nuova in Sicilia.
Ierone aveva stretto alleanza in un primo momento con i cartaginesi, dopo lo sbarco e le prime vittorie romane, egli decise di voltar pagina: nessuna resistenza trovò perciò l’esercito romani che nel 263 avanzava da Messina nella valle del Simeto, prendeva successivamente Adrano, Alesa, Catania e poi conquistava Enna e perfino località della costa occidentale, come Camarina e Gela Finziade.
Quando M. Valerio si avvicinò a Siracusa, trovò Ierone disposto a cedere assai più che a combattere: il re accettò infatti di rinunciare alle città conquistate da Roma, e a confinare il suo dominio a Siracusa, Leontini, Acre, Noto e Tauromenio; si impegnò al versamento di 100 talenti e naturalmente si alleò con Roma contro Cartagine, venendo così a trovarsi di fatto dalla parte di quei mamertini che per circa un decennio erano stati i suoi nemici e il bersaglio della sua azione politica.
Come già in Italia, nonostante le cospicue resistenze e i progetti diversi che erano di volta in volta affiorati (e che nella duplice spedizione di Pirro avevano trovato la loro più sistematica espressione), anche in Sicilia si determinava quel blocco storico tra romani, greci e italici, che doveva produrre, coem esito ultimo, la costituzione di una nuova, composita ma fondamentalmente salda unità culturale, a detrimento di altri elementi, destinati a rimanere estranei alla compagine della nuova Italia.
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Nota integrativa

Sulle correnti di pensiero in età ellenistica

L’influenza del Peripato sulla cultura ellenistica sul terreno in cui esso è più innovatore: quello della nuova, sistematica e articolata ricerca scientifica, rivolta ai saperi specifici.
Anello di passaggio essenziale è l’opera di Demetrio del Falero, dopo la sua fuga da Atene e il suo arrivo alla corte di Tolomeo 1.
Al nuovo signore dell’Egitto, Demetrio consigliò (e da lui ebbe l’incarico) di realizzare il Museo, come centro di ricerche, estese alle più diverse branche del sapere (matematica, geometria, meccanica, musica, medicina, zoologia, botanica, retorica, politica, astronomia, economia).
Nella storia della cultura si fonda un’organizzata  disciplinarità, esito storico della spinta alla sistemazione del sapere, storico e non, che aveva percorso tanta parte dell’esperienza greca del quarto secolo.
La Biblioteca “grande” avrebbe raggiunto, all’apice della sua storia, addirittura i 700.000 volumi; altre decine di migliaia erano ospitate nella Biblioteca di Serapeo.
Mezzi finanziari, spazi adeguati, strutture organizzative per imprese simili potevano essere forniti solo da entità come le grandi monarchie; le nuove istituzioni non potevano essere ambientate che nelle nuove metropoli, le sole in grado di garantire loro frequentazione, circolazione di uomini e di idee, funzionalità, vitalità.
In questo è il collegamento più genuino col cosmopolitismo dei nuovi tempi di una scuola di pensiero così legata per origine all’esperienza tradizionale delle vecchie poleis.
Che l’individualismo, da un lato, e il cosmopolitismo, dall’altro, siano le due forme mentali (e comportamentali) che esprimono e promuovono la cosiddetta crisi della polis, è un luogo comune, non privo di una certa dose di verità, ma pur bisognoso di integrazioni e correzioni.
In realtà, già l’esperienza democratica attica aveva dato spazio per la sua stessa natura (e non, come spesso si afferma – con effetti disastrosi sui più disparati terreni interpretativi – per una sorta di deviazione dai valori della polis!) a una vastissima riflessione critica (però, istituzionalmente accolta ed ammessa dalla polis) fin dalla metà e seconda metà del quinto secolo.
Essa dava libero corso, con tutti i rischi del caso (rischi congeniti, però, e non inaspettate deviazioni), alle esigenze del ‘privato’, quindi a forme crescenti d’individualismo; aveva creato in sé – con il richiamo fortissimo esercitato su pensatori, artisti, commercianti stranieri – spazi cosmopolitici, che la sua stessa forma mentale comportava.
E’ evidente però che le due grandi spinte innovatrici, quella individualistica e quella cosmopolitica, la prima era destinata ad avere nella polis uno spazio amplissimo se non illimitato, nella misura in cui la strutturale coabitazione di pubblico e privato volgeva verso un equilibrio sempre più favorevole al privato; ma le possibilità cosmopolitiche di una sola città, e di una città di vecchia fondazione – con disponibilità finanziarie, ambientali e politiche limitate, rispetto alle nuove metropoli e megalopoli dei grandi regni ellenistici – non potevano soddisfare le esigenze di scambio delle nuove esperienze culturali fra greci dei più diversi ambienti; una città come Atene non poteva racchiudere in sé più diversi ambienti; una città come Atene non poteva racchiudere in sé l’intero mondo delle esperienze scientifiche, tecniche, culturali, religiose.
Atene poteva rimanere, e rimase, la capitale della teoresi filosofica.
Alle vecchie scuole se ne aggiungevano, sul finire del quarto secolo, due nuove, destinate ad esercitare uan grande influenza, e rispondenti, in misura diversa e con diversa enfasi, alle istanze profonde dei nuovi tempi.
Il filosofo Epicuro (n. a Samo nel 341, m. ad Atene nel 270) fonda ad Atene, dopo la caduta del governo di Demetrio del Falero, la scuola del “Giardino” (képos).
La concezione epicurea della realtà sviluppa le premesse già poste dall’atomismo democriteo (a riprova del fatto ch ei nuovi modi di pensare d’età ellenistica nascono dal cuore stesso dell’esperienza culturale di Atene nel quinto secolo: Democrito era di Abdera, una città che ebbe parte nella Lega delio-attica); gli dèi esistono, ma non si occupano degli uomini; questi possono conoscere, delle cose come degli dèi, solo le parvenze.
Il mondo dei principi diventa sempre più remoto; l’individuo cerca la sua salvezza e sicurezza nell’imperturbabilità (ataraxia); il “giardino”, chiuso alle sollecitazioni e ai turbamenti che provengono dall’esterno (in primo luogo dalla vita politica), diventa simbolo di un’etica individualistica, che porta al massimo quell’esigenza di ‘privato’ che ha lunghe radici nella storia ateniese: e non è un caso che abbia origini così squisitamente attiche (e possibilità di espansione in tutte quelle società e situazioni che a quell’istanza danno più spazio).
Da Cizio, nell’isola di Cipro, proviene Zenone (335-263), figlio di un commerciante, e all’inizio commerciante egli stesso.
Ad attirarlo ad Atene sono dunque in primo luogo le tradizioni mercantili e cosmopolitiche della città, e poi le possibilità di frequentare le lezioni di filosofi come Cratete e Stilpone.
Egli fonda quindi una sua scuola, che prende il nome dal “portico” (stoa), sede delle lezioni.
Per vari aspetti la riflessione stoica equivale a uno sviluppo di nuove idee e istanze (in cui non sono secondarie quelle religiose degli ambienti semitici da cui proviene il fondatore).
I tratti cosmopolitici della città platonica, ma soprattutto quella politeia cosmica che è il Timeo, diventano il fondamento per l’elaborazione di una teoria dell’unità profonda dell’umanità.
Questa si appoggia a sua volta a una concezione del mondo come una realtà pervasa da un’anima, un soffio vitale, verso cui l’individuo può concepire solo un rapporto che sia di forte familiarità e progressiva appropriazione (oikeiosis), resa possibile dalla profonda solidarietà (sympatheia) che sussiste fra le diverse parti del cosmo.
Lo stoicismo appare, fra le diverse correnti di pensiero espresse dall’ellenismo, la più atta a giustificare la monarchia e i nuovi Stati territoriali (e naturalmente Roma sarà la più naturale beneficiaria dei risvolti concreti delle teorie politiche della Stoa, attraverso la riflessione di Panezio e di Posidonio), e al tempo stesso ad esprimere nuove istanze religiose, soprattutto in quanto volgenti a un panteismo di impronta monoteistica, quale si esprime nell’Inno a Zeus di Cleante di Soli o neo Phainomena (Fenomeni) di Arato di Soli.
Zenone ebbe il tempo di influenzare un sovrano come Antigono Gonata, che allo stoicismo deve la sua concezione del regno come endoxos douleia (“gloriosa servitù”, “glorioso lavoro”); rifiutò tuttavia di raggiungerlo a Pella e si limitò a inviargli gli scolari Perseo, Filonide, Arato.
Egli restò ad Atene, la città della discussione e dell’elaborazione teorica, dove d’altra parte la scuola accademica e quella peripatetica si rivelavano sempre meno idonee (e forse sempre meno interessate) a dare risposte sul terreno politico; la teoria peripatetica si andava sempre più dissolvendo nell’esperienza delle nuove scienze, il pensiero accademico sviluppava fino alle estreme conseguenze dello scetticismo il metodo dialettico (a cui doveva in definitiva la sua stessa origine), con Arcesilao di Pitane (315-240) e Carneade di Cirene (circa 215- metà del secondo secolo), fondatori, rispettivamente, dell’Accademia di mezzo e della nuova Accademia.
Accanto, è un pullulare di tendenze, che ripetono la loro origine del socratismo e ne interpretano esigenze diverse, sul terreno delle scelte di vita, come su quello della ricerca teorica (cinici, megarici, ecc.).

Aspetti religiosi

Se l’ellenismo è per i greci epoca di fusione tra le forme della cultura greca e alcune espressioni delle culture orientali, ciò si verifica in sommo grado sul terreno religioso.
Questo è del resto il processo mediante il quale il cristianesimo trova tanta diffusione nell’intero mondo antico.
L’Oriente è da sempre di casa in Grecia; e culti stranieri, originari delle regioni orientali, sono praticati – in prima istanza certo da stranieri residenti – già in epoca classica: si pensi solo alla precoce presenza di Afrodite; o a quella di Cibele, , la Gran Madre, conosciuta e venerata nella grecità d’Occidente già nel settimo secolo e ad Atene in pieno quinto secoli; qui compaiono nello stesso secolo divinità traciche, come Bendis, assimilata ad Artemide, e Sabazio, assimilato a Dionisio.
Questi fenomeni non fanno che moltiplicarsi in età ellenistica: l’accentuato cosmopolitismo, da un lato, e l’influenza della cultura religiosa dei regni ellenistici, dall’altro, ne favoriscono l’intensificazione, la diffusione, la sincretistica osmosi.
In effetti, si può parlare di una ‘cultura’ religiosa più che di una ‘politica’ religiosa dei regni ellenistici: ed è la cultura religiosa propria di Stati polietnici.
Non vanno tuttavia sottovalutate spinte che, almeno in parte, muovono dal potere centrale.
Nel regno seleucidico coglie l’importanza delle vecchie divinità olimpiche: Zeus e Apollo alternano il loro predominio nelle figurazioni sulle monete: il primo, sotto Sleeuco 1. e, di nuovo, sotto Antioco 4. Epifane, il secondo da Antioco 2. a Seleuco 4.; al tempo stesso si verifica però la vitalità di espressioni cultuali specificamente macedoni.
Naturalmente, non solo continuano a fiorire i culti locali, ma si determinano forme di assimilazione e di incalzante sincretismo, che raccordano fra loro divinità greche, divinità orientali precocemente acquisite al culto greco, e divinità orientali nella forma più pura (come accade tra Cibele, Artemide, Agdisti, Anahita, Afrodite, Atargati).
Il regno tolemaico è certamente il più produttivo, sul terreno della creazione e diffusione di divinità che, egiziane nella sostanza, abbiano un volto e un nome più accessibile per il greci: Sarapide (o Serapide), una sintesi di Osiris e Apis, che unisce insieme o tratti di adolescenza del primo e le caratteristiche di divinità animale del dio toro Apis, perciò, tutto sommato, ampiamente assimilabile a Dioniso; e Iside, di cui precocemente e soteriologicamente rappresenta la loro miscela, quale espressa nei misteri ufficiali di Eleusi e nei più esoterici riti orfici: in età ellenistica, i greci continuano insomma la reductio ad unum, e l’assimilazione a idee e rappresentazioni familiari, delle esperienze apparentemente più esotiche.
Del resto, figure eroiche squisitamente greche assurgono via via a rango divino, e si incaricano di rispondere all’esigenza individuale di salvezza o di guarigione: è la storia della straordinaria ascesa di Asclepio, associato ad Apollo Maleata ad Epidauro, e divenuto poi qui figura dominante di dio guaritore, le cui installazioni e le forme cultuali si espandono rapidamente in età ellenistica (in Cirenaica, a Creta, in Asia minore [Pergamo, Smirne], ma soprattutto a Cos), per non parlare della diffusione del suo culto a Roma (293-291 a. C.) e in Italia.
Asclepio e Serapide hanno ciascuno la propria sfera regionale di particolare influenza, ma altre divinità concorrono con loro, come risposta al bisogno di tutela e salvezza divina: i cabiri di Samotracia, che sono presto assimilati ai Dioscuri, e le cui installazioni cultuali, presenti anche sul continente (oltre che a Lemno), includono teatri di probabile funzione cultuale.
Dioniso vive una grande stagione, per la sua ricorrente presenza nelle più diverse combinazioni cultuali: è assimilabile a Osiride, ma è anche sentito come uno dei cabiri; è collegato a Demetra e Core ad Eleusi e nelle pratiche orfiche, ed è presente nelle più diverse forme orgiastiche, praticate prima in ambiti sociali  più elevati, poi, dal 4.-3. secolo in poi, anche negli strati più umili, nei quali ampiamente si diffonde il culto del bacchismo.
Al pari di Eracle, egli è uno dei modelli mitici di Alessandro Magno nella sua avanzata in Oriente; è quindi divinità che porta molte delle sue caratteristiche essenziali (Dioniso è un dio forte e vincente) ai sovrani ellenistici, in particolare a quelli di Pergamo, ma ha precocemente diffusione anche in altre dinastie; si presta a rappresentazioni e processioni atte a suscitare gli entusiasmi e le speranze delle moltitudini.
Celebre la descrizione di una processione dionisiaca (pompé) in Egitto, sotto Tolomeo Filadelfo, fatta da Calisseno (2. sec. a. C.?) e riportata da Ateneo (5. 196 sgg.).
Suscitatore di un associazionismo che spesso in età ellenistica ha ancora carattere pubblico, il dio è in grado di soddisfare le esigenze di comunione mistica, di esaltazione, di rapporto col divino in strati sociali diversi.
Se talora gli esiti di quell’associazionismo sono socialmente o moralmente dirompenti, come accade per la diffusione dei Baccanali nell’Italia dell’età postannannibalica (che provoca i ben noti interventi repressivi di Roma nel 186 a. C.), il culto dionisiaco, finché tenuto sotto controllo degli Stati ellenistici, monarchici o cittadini, è in grado di produrre forme associative e rituali, che sono passate attraverso la ‘normalizzatrice’ coabitazione del dio con divinità ‘della norma’, ad Eleusi come a Delfi; e intorno al culto del dio si formano associazioni di technitai, cioè di ‘artisti’, diffuse dall’Asia minore all’Occidente greco (Sicilia e dintorni).
Sarebbe difficile descrivere la miriade di culti locali e regionali, fioriti in età ellenistica, e che tra 2. e 1. secolo beneficiano tutti di un incremento di popolarità: la regionalità di un culto non è più avvertita come un ostacolo alla sua diffusione.
Certo, una religione più esigente, e più fortemente collegata con tradizioni nazionali, come il monoteismo giudaico, manifesta la sua diffusione come diaspora dei giudei stessi (particolarmente significativa quella che approda in Egitto e specificamente ad Alessandria o a Leontopoli, benché il fenomeno sia rilevante per tutto l’Oriente ellenistico), ma riesce anche a conquistare  un buon numero di adepti, e diventa sempre più nota al mondo greco attraverso le opere di scrittori greci sui giudei (come Ecateo di Abdera circa il 300 a. C., o Alessandro Poliistore, nel 2. Sec. a. C.), la versione greca della Bibbia ad opera dei Settanta (secondo la tradizione, altrettanti dotti incaricati dell’opera di Tolomeo 2. Filadelfo; ma da ricondurre probabilmente al 2. o 1. Sec. a. C.), o anche attraverso gli scritti di ebrei ellenisti (quali Filone d’Alessandria, in età giulio-claudia, o Flavio Giuseppe, in età flavia); naturalmente anche gli scritti ostili ne diffondono, seppure in forma negativa, la notorietà.
Altre divinità venerate sono il nabateo Dusares, o i vari Zeus (o Juppiter) che rendono alla greca (o alla latina), i tanti Baal dei culti locali siriaci, o l’iranico Mitra, destinato, soprattutto dal 3. sec. a. C., a dar risposta a larga parte delle aspirazioni religiose del mondo greco-romano, come divinità della forza e dell’austerità, della vittoria e della luce, precocemente assimilata a Helios in ambio ellenistico-orientale.
Un punto di forza della cultura religiosa delle nuove entità statali ellenistiche, nei rapporti interni o con le poleis greche, fu certo il culto del sovrano, di cui abbiamo parlato nel testo.

Scienza e tecnica

Il cosmopolitismo investe la letteratura e la scienza dell’età ellenistica: nei grandi centri del sapere dei nuovi tempi, alla corte dei nuovi sovrani, si raccolgono greci di ogni regione del mondo ellenico e d’ogni ramo della scienza.
Lo si verifica in misura particolarissima ad Alessandria.
Poeti come FIlita di Cos, Callimaco di Cirene, Apollonio Rodio, Teocrito di Siracusa; scienziati come il fisico (e caposcuola peripatetico) Stratone di Lampsaco, studioso di meccanica, o come il grande teorico di geometria, Euclide (forse nativo della stessa Alessandria); il filosofo Teodoro di Cirene e successivamente il matematico Archimede di Siracusa, ed Eratostene di Cirene, filologo e cronografo, matematico e geografo; per riferirsi solo ad alcuen personalità dell’alto ellenismo.
Per Alessandria siamo in grado di tracciare una storia quasi completa del grande sviluppo intellettuale, letterario e scientifico, nel periodo ellenistico, compresi i momenti critici della cacciata degli scienziati ad opera di Tolomeo 8. Evergete nel 145 a. C., e la distruzione della Biblioteca del Museo, nella guerra alessandrina, in cui fu implicato G. Giulio Cesare 2., cento anni dopo.
Per le altre grandi capitali conosciamo almeno alcune collaborazioni illustri, di grandi pensatori o letterati, con famosi sovrani: Arato di Soli a Pella, ospite presso Antigono Gonata; il poeta ed erudito Euforione di Calcide, a capo della biblioteca di Antiochia dell’Oronte, sotto Antioco 3.
Alessandria si rivela, in misura particolare, centro di richiamo e di raccolta per intellettuali e scienziati dell’Asia minore e delle isole vicine, e della Sicilia greca.
Mezzi messi a disposizione, curiosità o interesse dei sovrani alle nuove scoperte della scienza (particolarmente forti, quando si tratta di macchine belliche), sollecitazioni e forme di coordinamento della ricerca, attirano nei grandi centri ellenistici persone, competenze, tecniche nuove.
La scienza ellenistica subisce qui le sue novità e i suoi progressi, che toccano i campi della matematica e dell’astronomia e geografia, come quelli della meccanica o della medicina.
Nel Museo di Alessandria si eseguono osservazioni astronomiche, indagini anatomiche e ricerche zoologiche.
Una serie di scoperte tecniche – organi ad acqua, pompe ed altre macchine a pressione – di uso anche bellico, sono dovute a Ctesibio, attivo al tempo d Tolomeo 2.
Nell’astronomia eccelle, nel 3. secolo, Aristarco di Samo, un vero precursore dei tempi moderni, come teorico dell’eliocentrismo; la sua opera fu portata avanti, nel 2. secolo a. C., da Ipparco di Nicomedia di Bitinia, in cui la ricerca astronomica si unì con l’interesse astrologico (una connessione destinata a rafforzarsi, non senza ambigui effetti, nel corso del tempo).
Meno siamo informati sulla consistenza e l’attività della biblioteca di Pergamo, inaugurata nel 2. secolo a. C. da Eumene 2., e presso cui fu attivo Cratete di Mallo, benché la presenza di intellettuali di formazione o di impronta stoica sia un dato acquisito.
Novità tecniche, sollecitate spesso dalle esigenze della guerra, sono note dai primi tempi dell’Ellenismo.
Esse sono preparate da scritti di tattica militare, di prevalente, anche se non esclusivo, orientamento teorico,  come quelli di Senofonte (Ipparchico) o di enea Tattico (scritti di poliorcetica) nel 4. secolo, e promosse dall’interesse attivo di alcuni fra i tanti ‘signori della guerra’ dell’epoca, da Demetrio Poliorcete a Ierone 2., per limitarci al periodo che va dalla fine del 4. alla fine del 3. secolo.
Fu un’epoca anche di gigantismo nelle realizzazioni tecniche.
Perché il progresso qualitativo, nel campo delle macchine semoventi e dell’automatismo in genere, non sia stato così rilevante come farebbero attendere le premesse teoriche, è uno dei problemi fondamentali della storia della cultura greca e del rapporto tra l’uomo greco e la società (si rimase sul terreno di una elementare e quasi ludica sperimentazione, con scarsissima applicazione).
Le risposte date al problema sono le più varie: dallo scarso interesse alla realizzazione di strumenti automatici per il lavoro, data la disponibilità di manodopera schiavile, all’assenza di coraggio e volontà imprenditoriali da parte di privati desiderosi e capaci di rischiare, fino alle remore di ordine psicologico e religioso.
Nessuno di questi fattori negativo va escluso; ma c’è anche un semplice dato intrinseco alla storia della riflessione e sperimentazione tecnica: l’interesse ad una applicazione su larga scala di processi di automatismo (che avrebbe anticipato di secoli e forse di millenni aspetti dominanti della vita moderna) riesce nel momento in cui si riesce a produrre una grande quantità di movimento mediante il dispendio di una energia molto minore.
Ma quando il rapporto tra energia spesa e movimento prodotto tende alla pura e semplice uguaglianza, l’automatismo non interessa o di fatto non c’è; e, per questo effetto moltiplicatore, premessa indispensabile è la scoperta di sostanze e di composti chimici efficaci di cui il mondo classico non fu capace; il salto di qualità poteva essere garantito dai progressi della chimica e non, per esempio, dalla solita estensione del principio della pressione idraulica, del mulino ad acqua, della clessidra, e così via di seguito.
Ben altri progressi segnò la medicina; continuò a fiorire la scuola medica di Cos, che svolse una notevole influenza su quella, presto famosa, di Alessandria.
La medicina greca, diversamente da quella romana, fu esercitata prevalentemente da liberi.
L’assistenza medica all’uomo comune non doveva, comunque, né poteva avere carattere di continuità: frequente è la figura del medico itinerante; probabilmente, del personale che oggi chiameremmo paramedico avrà dovuto provvedere a gran parte delle esigenze quotidiane.
Anche nel campo della medicina si verifica d’altronde il consueto richiamo delle grandi corti (come avveniva già in epoca classica); i medici illustri sono accolti nelle grandi capitali (Erofilo di Calcedone, allievo di Prossagora di Cos, è attivo nel 3. secolo  ad Alessandria; ad Antiochia s’illustrò il celebre medico di Seleuco e Antioco 1, Erasistrato, che diagnosticò la passione di Antioco per la matrigna Stratonice, preludio alle nozze di quest’ultima col figliastro, consenziente Seleuco).
Si diffonde l’istituzione del medico personale del sovrano, reso necessario così da ragioni di prudenza e di sicurezza, come da esigenze di pronto intervento nelle campagne di guerra.
Un campo scientifico in cui i progressi sono direttamente e necessariamente collegati con la conquista di Alessandro con la creazione e definizione dei confini dei nuovi Stati territoriali è la geografia.
Dal 4. secolo in poi si assiste a una serie di progressi delle conoscenze geografiche, sia per i confini orientali del mondo antico, sia, benché in altra forma, in diversa misura e con diversa efficacia, per i confini occidentali e settentrionali dell’Europa.
Possono considerarsi apporto alla conquista di Alessandro, e dei regni ellenistici, le spedizioni ed esplorazioni di Nearco, su incarico di Alessandro, nel golfo Persico; di Patrocle nel mar Caspio (pur con errori di valutazione); di Demodamas al di là del fiume Iaxartes (Syr Darya), per conto dei seleucidi; e va ricordato anche il viaggio a fini diplomatici, ma anche con inevitabile ‘ricaduta’ di scoperte geo- ed etnografiche, di Megastene e Daimaco a Pataliputra, oltre l’Indo, sempre per conto dei Seleucidi.
L’esplorazione del mar rosso e dell’Oceano Indiano fa notevoli progressi sotto i Tolomei, per analoghe ragioni di ordine politico, militare (se non altro nel senso della sicurezza) ed economico: nel 2. secolo a. C. un Ippalo, al servizio di Tolomeo 8., scopre il regime dei monsoni.
Già nel 3. secolo a. C., la Geografia di Eratostene è in grado di descrivere, con molta più esperienza dei geografi del 4., le regioni iraniche orientali, che formano in senso lato il confine, verso est, del mondo classico.
In Occidente, meno efficace e comunque meno riconosciuta l’attività esplorativa di Pitea di Marsiglia, che compie un periplo delle coste occidentali e settentrionali dell’Europa.
L’iniziativa individuale e il contesto cittadino, che caratterizzarono l’impresa di Pitea (4. secolo), spiegano anche la sua scarsa risonanza (sulla lunga durata) o cattiva risonanza per un Polibio o per un Posidonio.
Progresso geografico, in questo caso, significa solo progresso dell’opinione e dell’informazione generale su una determinata regione.
Tradizionalmente, nel mondo antico, le più efficaci esplorazioni e scoperte geografiche sono dovute a iniziative provenienti da grandi Stati, mossi da forti interessi territoriali.
La conoscenza, nel mondo mediterraneo, dell’Occidente e del Settentrione europeo, compie quindi passi decisivi solo con la conquista romana, in particolare con le campagne di Cesare nelle Gallie e in Britannia nel 1. secolo a. C. e con le successive guerre di età imperiale.

Alcuni temi ricorrenti nella letteratura ellenistica.

E’ del tutto naturale che a questa nuova cultura, di cui erudizione e realismo, tecnicismo e gusto per la scrittura, individualismo e cosmopolitismo, sono le caratteristiche salienti, corrisponda una letteratura in cui si coniugano un contenuto dotto, una forma ricercata, una tecnica raffinata.
Tra le opere di Callimaco di Cirene (circa 320-240) spiccano, per questi caratteri, gli Inni (conservati) e gli Aitia (“Origini”, di cui sono pervenuti frammenti) sulle origini di feste, istituzioni, riti, nomi, luoghi (per es. anche le origini delle città di Sicilia); la celebre Chioma di Berenice (di cui possediamo la versione fatta da Catullo) si caratterizza per i seguenti aspetti: rapporto personale con la corte (tolemaica), celebrazione di Berenice, sposa di Tolomeo 3., interesse per l’astronomia e l’astrologia (la chioma consacrata di Berenice si riteneva aver dato luogo a una nuova costellazione, individuata dall’astronomo Conone di Samo).
Il gusto per gli aspetti formali della scrittura si trascina dietro anche la condanna del libro di grandi proporzioni, la predilezione per l’opera breve, raffinata, preziosa.
L’attività erudita di Callimaco risulta anche da dottissimi Pinakes (tavole, cataloghi) di celebri autori della biblioteca di Alessandria.
Il gusto per una rielaborazione di tradizioni del passato, che permetta di mettere a frutto una vasta erudizione mito- e geografica, e di darle una nuova sistemazione d’insieme, si esprime negli Argonautika di Apollonio Rodio, che fu maestro di Tolomeo 3. (sul mitico viaggio degli Argonauti, da Iolco, lungo le coste dell’Anatolia, verso il Ponto Eusino e fino alla Colchide, e poi, di ritorno, in Grecia: un ruolo centrale ha la passione di Medea per Giasone).
Rapporto con le diverse corti ellenistiche, quella di Alessandria o quella della Siracusa della nuova monarchia di Ierone 2.: realismo; interesse per la vita quotidiana, come si svolge anche nelle nuove metropoli ellenistiche, ma soprattutto attenzione di carattere squisitamente letterario al mondo pastorale, benché non priva di qualche aggancio con la realtà delle campagne, connotano gli Idilli di Teocrito.
L’evasione verso il mondo della campagna, in particolare verso l’ambiente dei pastori, non è naturalmente da vedere come stridente contraddizione con la diffusione dell’urbanesimo o il progressivo adattamento delle forme di vita e di cultura alle nuove funzioni e possibilità dei centri urbani che si moltiplicano: è solo il suo naturale complemento.
Il rapporto e la dialettica del pubblico e del privato, che ha tanta importanza nella comprensione della cultura della polis, qui perde una parte della sua virtù illuminatrice.
La conserva invece per intero nelle commedie di Menandro (342/2-293/292, o 291/290), dove le condizioni individuali – come determinate nella nuova società cittadina di fine 4. e inizio di 3. secolo – appaiono al centro dell’attenzione del poeta: che si tratti della borghesia cittadina e mercantile, o invece del solitario autourgos, che cerca un suo personale modo di sopravvivenza, in un mondo di stenti e difficoltà, dove le uniche certezze o le uniche consolazioni possono venire dai sentimenti o comportamenti individuali.
La vasta produzione programmatica ed elegiaca è all’insegna del realismo, attento agli aspetti della vita quotidiana, anche di quella delle classi più umili, nell’epigramma peloponnesiaco e greco-occidentale; dell’erudizione e sottigliezza intellettuale, nella tradizione ionico-alessandrina; di un marcato erotismo nella produzione di poeti che provengono da centri della Fenicia.
Pag. 772-81

Di grande interesse ka definizione dell’economia regia e quella dell’economia satrapica, che è opportuno vedere, quasi in controluce, l’una sullo sfondo dell’altra.
Anche se l’esperienza mentale dell’autore sembra essenzialmente quella dell’economia persiana, tuttavia la comprensione dello scritto è fondamentale sia per il rapporto storico che si instaura, soprattutto nel 4. secolo,  tra le economie greche cittadine e l’economia del gigantesco impero achemenide, sia per la continuità di certi fenomeni e di certi rapporti in epoca ellenistica,  e specificamente nel regno seleucidico.
L’economia regia è definita dallo Pseudo-Aristotele “grandissima e semplicissima”; a comporne le voci concorrono: la moneta, le importazioni, le esportazioni, le spese.
Non si può a mio avviso capire il senso di questa ‘grandiosa semplicità’, se non a raffronto con l’economia satrapica, le cui entrate sono di ben sei tipi: 1) quelle della terra (in generale); 2) quelle dei proventi ‘privati’ della terra; 3) quelle dei vari tributi; 4) quelle delle greggi; 5) quelle delle attività commerciali; 6) quelle provenienti dagli uomini (e sono specificamente indicate dalla tassa personale, il kephalaion, e la tassa sulle attività artigianali, il cheironaxion).
Ma l’oikonomia basiliké rappresenta, a mio giudizio, il livello della maggiore ‘semplicità’, rispetto all’economia satrapica, proprio perché si fa carico di unificare al massimo l’intera attività economica che investe le diverse regioni (satrapie) dell’impero.
All’economia regia competono fatti di monetazione, di controllo (e profitto) sull’insieme dei movimenti dei prodotti (e delle merci), e il capitolo della spesa.
E’ dunque il movimento economico generale, in quanto tale, l’elemento costitutivo dell’economia regia: la circolazione, cioè, nella sua forma più generale e al livello di maggiore astrazione.
La sfera della produzione e del profitto immediato compete invece all’economia satrapica.
Fondamentale voce di tale economia è la terra: ed è da intendersi in primo luogo, in questo caso, la terra regia; infatti, quando si confrontino le voci dell’economia cittadina (oikonomia politiké) con quelle dell’economia satrapica, si osserva come l’economia cittadina (benché abbia certo anch’essa una prevalente base agraria) non presenti però, fra le sue voci, quella dei ‘proventi’ della terra, in generale, ma soltanto dei ‘proventi privati’ della terra, cioè essenzialmente la gamma delle forme di proprietà fondiaria privata, attinenti alle libere città.
L’economia satrapica contiene d’altra parte, come caratteristiche e specifiche fra le sei voci sopra indicate, quella dei ‘tributi vari’, quella delle ‘greggi’, e soprattutto quella degli ‘uomini’; l’indicazione specifica del kephalaion e del cheironaxion ci riporta all’ambito, rispettivamente, dei laoi della campagna (e, in generale, del territorio soggetto all’autorità regia) e della popolazione dedita alle attività artigianali (solo in parte e solo funzionalmente distinguibile dai precedenti, e connotata da una condizione complessiva di dipendenza che, se non raggiunge il livello della servitù, molto si avvicina).
E’ dunque, quella satrapica, un’economia fortemente controllata, con forti aspetti di dipendenza: in sostanza, essa si identifica con la sfera della produzione e del tributo, e soggiace a sua volta all’economia regia, la quale s’incarica di unificarne, promuoverne, espanderne i prodotti e gli impulsi, trasferendoli su un piano ‘più alto’ e mettendoli in rapporto con le economie esterne.
Tra le due oikonomiai ora descritte (la basiliké e la satrapiké) esiste dunque una intima ma evidente complementarietà, pur con tutte le differenze quantitative e qualitative: l’economia satrapica è infatti regionale e settoriale, perciò asseconda solo in parte le spinte verso la circolazione e il relativo movimento di beni: l’economia regia risponde invece a queste ultime caratteristiche nella maniera più piena, essendo improntata al fine dell’unificazione e movimentazione delle singole aree economiche.
La politiké oikonomia presenta alcune voci in comune con le economie precedenti, ma sempre in un grado quantitativamente minore: i prodotti della proprietà (privata) della terra; i diritti sulle attività commerciali e di transito; le entrate correnti (che in ambito cittadino saranno tasse, liturgie, contributi vari).
Una differenza, rispetto all’economia satrapica, che non vorrei andasse perduta, è nell’assenza di entrate ‘dalla terra’ in generale (l’autorità della città sulla terra non è del resto assimilabile al dominio del basileus sulla basiliké chora) e di tasse sulle persone in quanto tali (non ci sono – o per lo meno non sono segnalate qui come rilevanti e normali – forme tributarie che esprimano una condizione di dipendenza della popolazione cittadina o almeno di una parte di essa).
Tutte e tre queste economie sono evidentemente concepite dal nostro autore come ‘miranti’ (ciascuna per sé) a un solo scopo: in definitiva ci è una netta caratterizzazione e specifica funzionalità economica di ciascuna di esse.
L’economia privata (cioè del singolo e del suo gruppo famigliare) si presenta invece con dimensioni quantitative evidentemente assai ridotte, e molto varia nelle sue espressioni: le entrate consistono in prodotti della terra, in oggetti di uso quotidiano ed altre entrate correnti (enkyklémata?) e in denaro; rispetto alle oikonomiai intese ciascuna ‘a un solo scopo’, l’economia privata si presenta dunque come il mondo della dispersione, della frammentazione, della diversità dei fini; componente essenziale ne è il denaro, nella sua forma più astratta.
E’ chiaro, già da questa messa a punto, che le dimensioni del movimento economico nell’insieme, nel ‘blocco’, direi (finché blocco resta), delle economie regia e satrapica, rispettivamente, sono enormemente più vaste e complesse di quelle dell’economia cittadina: in esse, evidentemente, l’economico ha un campo di dispiegamento e un’occasione di trasformazione qualitativa dei rapporti generali, che non competono al più ristretto ambito dell’economia politiké.
Pag. 782-84

Bibliografia

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Progetti di riforme costituzionali nelle epigrafi greche dei secoli 4.-2. a. C. / A. Bencivenni. – 2003
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La tecnica in Grecia e a Roma /G. Traina. – 1994
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Cap. 12. Il mondo greco e Roma

L’intervento di Roma nelle vicende politiche della Grecia è l’esito quasi naturale di una lunga storia di intensi scambi tra le due rive dell’Adriatico.
Il capitolo che precede immediatamente la prima ‘traversata’ (diabasis) con armi’ di Roma a est dell’Adriatico, come richiama solennemente Polibio, è quello delle ripetute aggressioni compiute dai pirati illirici ai danni dei commercianti italici, i quali riescono alfine a far valere la loro voce e la loro protesta presso il Senato romano, nel 230; per difendersi da quegli stessi nemici ricorreranno alla fides di Roma città greche come Corcira, Apollonia, Epidamno, Issa, e popoli dell’area illirica.
Nel 229 Roma aveva avuto dalla sua un dinasta di Faro, Demetrio: dieci anni dopo, nuovi danni arrecati alle città di area illirica sotto il protettorato romano, e a isole dell’Egeo, questa volta proprio da parte di Demetrio, provocano un secondo intervento, che si conclude con l’espulsione del principe illirico (219).
Pag. 803

Il tema dell’eleutheria greca sembra porsi, come principio ispiratore dell’azione romana a oriente dell’Adriatico, propriamente solo a partire dalla seconda guerra macedonica o addirittura solo dalle sue fasi più avanzate.
C’è molto di vero in una concezione evoluzionistica della politica romana, perché il tema della libertà dei greci non aveva esercitato un ruolo dominante né nell’avvio della prima guerra illirica (229/228), che era stata comunque l’occasione (se non anche la conseguenza) di più stretti rapporti tra Roma e varie città greche, né durante la prima guerra romano-macedonica.
Occorre in ogni caso riflettere sul fatto che una motivazione della guerra romana con la prospettiva dell’eleutheria greca diveniva matura e poteva essere solo nel momento in cui Roma fosse in grado di presentare il suo intervento come rivolto alla tutela della Grecia nella sua interezza o quasi.
La nozione stessa di libertà dei greci si configura infatti come una unità non frazionabile, almeno in linea di principio; sussiste perciò un chiaro rapporto causale tra l’assunzione di una rappresentanza, in senso lato, panellenica e l’adozione del tema propagandistico della libertà dei greci, che alla prima consegue.
A questa sorta di patronato panellenico, Roma era arrivata per gradi.
All’origine del primo intervento romano in armi ad est dell’Adriatico vi sono le ripetute pressioni esercitate dai mercanti italici, divenuti da tempo oggetto di attacchi dei pirati illirici; probabilmente solo più tardi, e comunque solo dopo aver provato altre strade per difendersi da quegli stessi nemici, sono raccolte sotto la protezione di Roma città greche come Corcira, Apollonia. Epidamno, Ossa, e popoli dell’area illirica (Polibio. 2. 1).
Ora, non è un caso che queste città greche si collochino, in gran parte, proprio lungo quella rotta, diretta verso le coste elleniche, che doveva essere alquanto battuta dai mercanti italici, perché potesse capitare loro di trovarsi esposti alle azioni di disturbo degli illiri.
La sufficiente prontezza con qui quelle città greche ricorrono alla protezione di Roma ha dunque verosimilmente la sua premessa nella frequenza e buona qualità dei rapporti commerciali greco-italici, in scambi cioè che possono aver operato come fattore o veicolo d’informazione e d’intesa politica, in un contesto e in un periodo della politica orientale di Roma, in cui il rapporto commerciale si presenta ancora con un alto grado di compatibilità, es esente (o scarsamente connotato) da aspetti propriamente conflittuali.
Pag. 805-6

A una più concreta assunzione del patronato panellenico Roma giungeva solo più tardi; gli inizi sono forse già da leggere nelle adscriptiones (includenti ad esempio Atene) alla pace di Fenice del 205 a. C., ma ancor di più nell’intensa attività diplomatica dispiegata verso il mondo greco (o ellenistico in generale) alla vigilia della seconda guerra macedonica; nel rinsaldarsi in quello stesso periodo dei rapporti con Atene; in un ultimatum allora rivolto ai macedoni “di non far guerra a nessuno dei greci”.
Ma il processo può dirsi maturo solo in una fase più avanzata del conflitto, cioè nell’autunno del 198 a. C., con l’acquisizione dell’alleanza della Lega achea, un fatto decisivo sotto il punto di vista della progressiva configurazione panellenica della politica romana in Grecia.
Se il panellenismo prima e durante la prima guerra macedonica era stato monito ispiratore dell’opinione pubblica greca contraria a Roma e più o meno cautamente filomacedone, Roma se ne appropriava ormai con un autentico scambio di ruoli, in seguito all’esperienza fortemente deludente della prima guerra macedonica.
Pag. 806

Fra gli Stati greci, migliorava nettamente la posizione di Atene (con l’acquisizione di Delo e di Aliarto); venivano duramente puniti gli epiroti (150.000 di essi furono venduti come schiavi) e i rodii che, per effetto della creazione di un porto franco a Delo (166), risultavano fortemente mortificati e multati nelle entrate portuali di cui avevano fino allora goduto (passando a 1 milione a 150.000 dracme annue, subendo cioè una perdita annua di più di 140 talenti!).
Anche ai grandi regni ellenistici era del resto dato di provare una sempre più decisa interferenza romana.
Quando, nel corso di una seconda spedizione nel cuore dell’Egitto, Antioco 4. Epifane fu giunto sotto le mura di Alessandria, deciso ad unire alla Siria quel regno, di cui aveva già precedentemente assunto la duplice corona, il console romano Q. Popi(l)lio Lenate, poco dopo la battaglia di Pidna, lo raggiunse ad Eleusi, un sobborgo di Alessandria, e gli ingiunse di lasciare il paese, imponendo tra l’altro una decisione immediata, dopo avergli tracciato intorno un cerchio, entro il quale Antioco doveva scegliere fra l’obbedienza ai romani e la guerra.
Il 168 e gli anni che immediatamente seguirono furono avvertiti nel mondo greco come quelli di una decisa sterzata nella politica estera romana, che adottava ormai, verso il mondo della città e dei regni ellenistici, moduli distruttivi sconosciuti al ‘sistema di equilibrio’ fino ad allora vigente fra le potenze ellenistiche del Mediterraneo orientale.
Ne è tormentato testimone Polibio, tanto ammirato dalla realizzazione storica del dominio romano su quasi l’intero mondo abitato, quanto toccato dagli aspetti di durezza e di cinismo della politica romana.
Ma delle qualità e dei principi della classe politica romana egli stesso poté essere lucido osservatore, per effetto della condizione di ostaggio che a lui, come ad un altro migliaio di uomini politici della Lega achea, fu imposta dai romani (dal 167 al 15 circa), per punizione e misura cautelare nei confronti di una Lega greca, che si era comportata in maniera alquanto comportata in maniera alquanto ambigua nel corso della guerra tra Roma e Perseo.
Nel quasi quarantennio che intercorre tra la battaglia di Pidna (168) e l’annessione del regno di Pergamo, con la conseguente creazione della provincia d’Asia (129), la politica orientale dei romani seguì due linee diverse, a seconda delle diverse aree in questione.
Nella penisola greca, e verso la Macedonia, la politica romana era di un’attenzione vigile, disposta all’intervento, e in particolare pronta all’interferenza nelle faccende interne degli Stati greci, che sembravano recalcitrare al nuovo rapporto di forze, e nelle vicende della Macedonia, divisa ormai in quattro repubbliche, ma ancora capace di fermenti indipendentistici e scossa da conflitti sociali.
E’ ben comprensibile che in Macedonia e in Grecia si compisse, prima che altrove, il processo di annessione diretta, con la creazione di una provincia (Macedonia, circa 147), e che l’espansionismo romano si manifestasse nelle sue forme più distruttive (distruzione di Corinto, 146 a. C., di qualche mese posteriore alla distruzione di Cartagine, avvenuta a compimento della terza guerra romano punica).
Più i processi, più graduali i modi della penetrazione nell’ambito dei regni ellenistici d’Oriente, peri quali tuttavia la complessità stessa della struttura poteva solo raccomandare ai romani di seguire e, ove possibile, assecondare. Accelerare e mettere a frutto processi disintegrativi interni, dovuti a mal calcolata intraprendenza, a errori politici, a conflitti dinastici o a incapacità di resistere alla pressione di popoli d’Oriente in fase di deciso risveglio ed espansione.
Pag. 816-17

Gli anni Sessanta e Cinquanta furono di intensa attività diplomatica dei romani sia verso gli Stati orientali sia in Grecia.
La potenza imperiale ebbe anche le sue vittime: in più d’un caso si verificarono aggressioni a legati romani.
Intanto, in Macedonia e in Grecia, si andavano accumulando risentimenti e motivi concreti per un ultimo disperato tentativo di ribellione.
Il primo segnale venne dalla Macedonia, dove, nel 15q e poi di nuovo nel 149 a. C., un uomo proveniente dalla città micrasiatica di Adramittio, un certo Andrisco, pretendendo d’essere Filippo, il figlio di Perseo (defunto, quest’ultimo, già da diversi anni), s’incoronò re a Pella, conseguendo poi un rilevante successo sul pretore romani P. Iuvenzio, che perì in battaglia.
Lo Pseudo-Filippo poteva contare sia sul rancore sempre vivissimo nei macedoni contro i romani per la spartizione del regno (nonostante la riapertura delle miniere, decisa dai romani nel 158 a. C.), sua su accordi con Cartagine, in guerra contro i romani dal 149 (terza guerra punica, 149-146 a. C.).
La campagna guidata da Q. Cecilio Metello pose fine all’avventura di Andrisco nel 148 a. C.
Lo Pseudo-Filippo veniva annientato presso Pidna; quindi la Macedonia fu ridotta a provincia (147/146?); le furono aggregati in un primo momento l’Illiria e l’Epiro, e più tardi, dopo la rivolta acaica (147-146), anche il resto della Grecia, fatta eccezione per le città liberae e immunes, a cui appartengono, nello spirito di una politica profilatasi con particolare evidenza dal 168 a. C., le poleis più rappresentative della Grecia classica.
I romani cominciano a mettere in mostra un atteggiamento quasi ‘archeologico’ verso tanta parte della Grecia classica: privata dell’indipendenza di fatto e, in molti casi, anche di diritto, la Grecia è ridotta, nell’ottica romana, in una condizione quasi museale, che ne mortifica la vitalità politica, pur se ne conserva o perfino consolida il ruolo culturale e l’immagine storica.
Pag. 818-19

Negli anni successivi Roma continuò nella pratica dello spremere contributi dalle città greche.
Qualche vantaggio derivò però, per le medesime, dalla lotta svolta finalmente con più decisione contro i pirati che si rifugiavano soprattutto nei porti di Cilicia e di Creta.
Nel 67, dopo le vittorie conseguite sui pirati, Pompeo riorganizzò la provincia di Cilicia (costituita già intorno all’anno 100 a. C.); nel 58 veniva annessa, e collegata con la provincia di Cilicia, l’isola di Cipro.
Ma, soprattutto, nel 63 a. C. veniva creata la provincia di Siria e circondata di stati clienti dei romani.
In Anatolia, oltre a principati minori (come il Ponto orientale o la Paflagonia), vanno ricordati la Cappadocia e la Commagene, due chiari esempi di ellenizzazione della dinastia e della forma del potere e dello Stato (pur con evidenti persistenze di un fondo non greco, nella popolazione, nell’organizzazione sociale, nei culti).
Intorno alla Siria si costituì dunque una fascia protettiva di Stati clienti.
Qui si poneva subito il problema del rapporto con lo Stato giudaico, che fu affrontato in maniera diversa da Pompeo, più inteso a espandere l’area dell’ellenizzazione, e da Cesare, che riconobbe invece vari privilegi ai giudei.
Pag. 829

Ancor più gravi le conseguenze della nuova guerra civile, scoppiata tra i cesaricidi, Bruto e Cassio, e i vendicatori di Cesare, anche perché i primi erano del tutto a corto di denaro, e dissanguarono le città o punirono per la loro resistenza Rodi e le città greche d’Asia.
L’Oriente greco divenne poi la base di Antonio, e tale rimase anche nel conflitto con Ottaviano, deciso virtualmente dalla battaglia di Azio (2 settembre 31 a. C.).
In questa Antonio ebbe dalla sua la flotta della regina egiziana Cleopatra, la figlia dell’Aulete, che aveva saputo già attirare a sé G. Giulio Cesare, con la sua intelligenza e una grazia non priva di difetti.
Cesare combatté, per conto della regina ed amante, una tipica guerra tolemaica di vecchio stampo, contro i ribelli di Alessandria (48/47 a. C.); Cleopatra gli diede un figlio, Cesarione.
Successivamente Cleopatra sostenne invece Bruto e Cassio; Antonio la convocò a Tarso, perché si discolpasse: dall’incontro nacque una nuova, fatale passione.
Cleopatra era pienamente compenetrata del suo ruolo di erede dei sovrani del passato; come il padre si era proclamato Nuovo Dioniso, essa fu la Nuova Iside.
Antonio intanto le andava ingrandendo il regno, con concessioni di territorio, dalla Celesiria a Cipro a parte della Cilicia; e nel 34 a. C. si arrivò a una solenne proclamazione dei ruoli di una intera ‘famiglia di re’, e alla relativa spartizione dei territori, fra Cleopatra e Cesarione, che divenivano ‘re dei re’ (ed esercitavano la sovranità sull’Egitto e su Cipro, considerati i nuclei del regno), e i figli di Cleopatra e Antonio (Alessandro Elio, che riceveva l’Iran; Tolomeo Filadelfo, che riceveva Siria e Cilicia; Cleopatra Selene, cui toccavano la Cirenaica e la Libia).
La centralità assegnata all’Egitto rappresentava un rovesciamento della politica pompeiana, che aveva fatto dirigere le vicende del regno del Nilo dal governatore romano di Siria: la svolta è certo connessa al ruolo e alla personalità di Cleopatra.
Fu facile ad Ottaviano presentarsi come il difensore della causa dell’Italia e dell’Occidente contro le pretese egemoniche dell’Egitto tolemaico, inopportunamente rese nuovamente attuali dalla politica del rivale Antonio.
Anche nella guerra di Azio i greci furono coinvolti e sottoposti a umilianti e faticose corvées in favore di Antonio.
La risposta di Ottaviano dopo la vittoria di Azio, e dopo la successiva campagna di Alessandria e i suicidi di Antonio e Cleopatra, fu misurata, ma risentì di quel cattivo inizio di rapporti.
Egli tenne distinta l’amministrazione di Siria e di Egitto: una soluzione diversa sia da quella di Pompeo sia, e ancora più chiaramente, da quella di Antonio.
Resta il dubbio se l’Egitto sia stato ridotto a provincia, o se sia prevalente il ruolo di dominio personale dell’imperatore; de facto il suo statuto è comunque di tipo provinciale.
Pag. 830-31

La tradizione antica delineò il carattere di Antonio come fondamentalmente bonario verso amici, collaboratori, sottoposti, soldati (salvo innegabili episodi di crudeltà nella sua vita, quale fu l’uccisione di Cicerone); ma lo dipinse anche come un carattere facilmente influenzabile dai personaggi femminili forti, a cui di volta in volta, nei vari matrimoni, egli si accompagnò, e addirittura dipendente da Cleopatra, della quale, dice Plutarco (Vita di Antonio 62), il triumviro era considerato una prosthéke (“appendice”).
La tradizione romana associa alla paura di una reviviscenza tolemaica, in quanto spalleggiata e sostenuta da una parte dei romani stessi, l’odio verso la regina, i suoi intrighi, le sue minacce, e però anche, a tratti (Orazio, Carmina 1,37), una cavalleresca ammirazione per il coraggio dimostrato da Cleopatra nel conflitto con Roma e, dopo, nella orgogliosa e irrevocabile scelta del suicidio, compiuta per sottrarsi all’umiliante esibizione sul catto trionfale di Ottaviano.
Con l’ammirazione per l’orgoglio della regina (e discendente di re) convivono dunque il timore e l’odio verso il fatale monstrum, come, con espressione ambivalente, vien definita  Cleopatra, e fa contrasto l’”assordante silenzio” (in Orazio) sul rinnegato Antonio.
Pag. 834

Le conquista di Traiano in Oriente (Dacia e Partia) e l’attenzione ricolta a quell’imperatore alle condizioni finanziarie delle province orientali (come la Bitinia affidata a Plinio), unitamente alla svolta in politica estera rappresentata dalla politica di contenimento dell’espansione, e di consolidamento della pace, realizzata da Adriano (117-138), furono le premesse per quella poderosa dell’ellenismo, che caratterizza il governo di questo imperatore e degli Antonini suoi successori (Antonino Pio, 138-161; Marco Aurelio, 161-180).
E’ intanto di grande interesse il fatto che con Adriano e gli Antonini rinascita dell’ellenismo significhi rinascita dei centri, tradizioni, istituzioni, valori della Grecia propria.
Adriano costruisce, accanto alla vecchia Atene, ma distinta da essa, uan seconda Atene.
Egli non vuole essere il fondatore di un’altra città, ma di una nuova città, accanto all’antica.
Nulla è così significativo di questo suo atteggiamento come la duplice iscrizione della porta di Adriano: da una parte è la città di Teseo, dall’altra la città di Adriano, fisicamente distinte e affiancate.
L’imperatore filelleno porta al massimo livello quell’atteggiamento ‘archeologico’ verso la Grecia che anche prima era affiorato nella politica romana, ma che ancora durante il primo impero aveva lasciato spazio a forti interferenze nel tessuto monumentale e urbano dei vecchi centri greci.
Pag. 838

In Egitto, come altrove nel mondo ellenico, diventa difficilissimo indicare il momento finale della storia greca antica, per l’impressionante divario prodotto dalla dominazione romana tra la valenza politica dei greci, immediatamente rimossa, e il loro prestigio culturale.
Si può certo ancorare la storia (e la periodizzazione della storia) della grecità al fenomeno organizzativo più perspicuo, cioè alla storia delle città.
Ma per questo aspetto i rischi dell’indeterminatezza della fase conclusiva della storia greca sono ancora maggiori: ché la città, come forma di comunità e di amministrazione, appare in definitiva indistruttibile (finché questa o quella determinata città non sia programmaticamente distrutta da un potere politico-militare) e perciò si trasmette da un’epoca, e da una forma di organizzazione sociale, all’altra.
Tra un limite troppo alto per definire il punto d’arrivo della storia greca (quale la fine della libertà e della funzione politica dei greci) e un limite troppo basso, o addirittura strutturalmente non individuabile (come quello della fine della città come forme di vita e amministrazione comunitaria), converrà dunque adottare altri criteri (pur nella consapevolezza di dover così rinunciare a definizioni cronologiche troppo rigorose), come quello dell’esaurirsi, o del netto attenuarsi della funzione e dell’irradiazione culturale della grecità, conseguenze anch’esse, pur se ritardate di secoli, dell’obliterazione della funzione politica delle città.
Ma poiché le città come entità amministrative sussistono, è proprio in esse che si incentra e trova il suo principale supporto la cultura greca.
Sotto Roma la storia greca continua dunque essenzialmente come storia della cultura greca, nel senso più lato della parola.
Pag. 844

Quanto l’ellenismo, per stimolo della stessa Roma, si afferma in queste regioni nei secoli avanzati dell’impero, tanto esse restituiscono in culti locali, che hanno come vettori i militari, i commercianti, gli schiavi, e trovano sempre maggiore accoglienza in Occidente.
Tutto questo mentre si consolida la diffusione del cristianesimo, che si accinge a cogliere, con l’editto di Costantino del 313 (editto di Milano), al sua definitiva vittoria, nel riconoscimento – che allora ottiene – di religione ufficiale dell’impero.
Con ciò esso si individua come altro decisivo fattore, non della scomparsa della cultura ellenica, ma certo della radicale trasformazione della sua funzione storica.
Pag. 846

Dunque, neanche l’epoca di Diocleziano o quella dell’imperatore cristiano Costantino, possono considerarsi come il momento della morte della polis.
Una certa autonomia, nonostante l’interferenza della burocrazia imperiale (che però aveva avuto precedenti già nell’epoca ellenistica, in analoghi comportamenti della burocrazia regia), la conservano Antiochia e la stessa Alessandria.
L’estinguersi della cultura ellenica di tradizione pagana è segnata dallo scomparire, un po’ alla volta, di quelle tradizioni e istituzioni culturali che, quando accompagnate a un minimo di entità e autonomia amministrativa di una città, ne facevano, tutto sommato, una polis viva.
Non sbaglia perciò chi considera come fase conclusiva della storia greca l’epoca di Giustiniano, che vietò la retribuzione e l’esercizio dell’insegnamento pubblico dei maestri pagani ad Atene ne l529, quasi all’inizio del suo lungo regno (527-565); così come il predecessore e zio Giustino 1. aveva , nel 520, posto fine alle celebrazioni delle Olimpie di Antiochia, che continuavano probabilmente in qualche modo la tradizione di quelle feste e gare, che ad Olimpia di Elide si erano celebrate per l’ultima volta nel 393.
Tra queste due date, così significative per la storia della cultura greca (393 e 529), si colloca dunque l’esito di quei processi, graduali ma ormai tutti di un solo senso e segno, che si possono ragionevolmente identificare con la fase conclusiva della stori della grecità antica.
Pag. 849-50

Bibliografia

La teoria della “costituzione mista” nell’età imperiale romana / C. Carsana. – 1990
Manipolazione della storia in età ellenistica: i seleucidi e Roma / A. Mastrocinque. – 1983
Tra Grecia e Roma: temi antichi e metodologie moderne. – 1980
Cleopatra, regina d’Egitto / a cura di S. Walker, P. Higgs. – 2000
Storia economica di Roma antica / F. De Martino. – 1980
L’Impero romano e le strutture economiche e sociali delle province / a cura di M. H. Crawford. – 1986. – (Biblioteca di Atheneum ; 4)
La schiavitù nell’Italia imperiale, 1.-3. secolo / E. M. Staerman, M. K. Trofimova. – 1975
Il tramonto della schiavitù nel mondo antico / E. Ciccotti. – Laterza, 1977

Cronologia

6.-4. millennio a. C. ca. Neolitico in Grecia
2800-1100 ca. età del Bronzo in Grecia
2000-1100 ca. passaggio dall’antico al medio elladico: arrivo dei primi indoeuropei in Grecia
1900 ca. inizio della civiltà palaziale a Creta: i cd. primi palazzi
1700 ca. inizio dei cd. secondi palazzi
1600/1580-1500 ca. Tardo elladico (Miceneo 1.)
1500-1425 ca. Tardo elladico (Miceneo 2.)
1450-1370 ca. regno miceneo di Cnosso
1425-1100 ca. Tardo elladico (Miceneo 3.)
1200 ca. tavolette di Pilo (Miceneo 3. B)
1194-1184 Guerra di Troia (nella tradizione cronografica ellenistica)
1104 ‘Ritorno degli Eraclidi’ o migrazione dorica (nella tradizione cronografica ellenistica)
12. sec. ca. inizio dell’età del ferro in Grecia
Fine 11.-seconda metà 8. Sec. alto arcaismo (secondo la definizione proposta in questo volume)
1044 cronologia tradizionale per la fondazione di Mileto
Fine 11.-10. sec. ca. Colonizzazione greca dell’Asia minore occidentale e isole contigue
9.-8. sec. raggiungimento del definitivo assetto costituzionale a Sparta
8. sec. ca. definitiva costituzione dell’Iliade
Fine 8. (o 7.) sec. definitiva costituzione dell’Odisseo
Seconda metà 8.-inizio 6. Sec. medio arcaismo (secondo la definizione qui proposta)
776 inizio degli agoni panellenici ad Olimpia
770 ca. colonizzazione di Pitecussa (Ischia)
754/753 inizio della lista spartana degli efori
753/683 cronologia tradizionale per gli arconti decennali ad Atene
Metà 8. Sec. ca. (?) Guerra levantina
757-738 (o 743-724) cronologie tradizionali della prima guerra messenica
747-657 fase della ‘rotazione’ pritanica per la dinastia dei Bacchiadi a Corinto
734 ca. Fondazione di Nasso, prima colonia greca di Sicilia
733 ca. Fondazione di Siracusa
688 ca. Fondazione di Gela
684-668 cronologia pausaniana della seconda guerra messenica
683/682 inizio dell’arcontato annuale ad Atene
669/668 vittoria degli argivi sugli spartano a Isie
657-583 tirannide dei Cipselidi a Corinto secondo la cronologia tradizionale
650-630 (?) ca. Fidone tiranno di Argo
636 (632 ca.) tentativo di Cilone di instaurare una tirannide ad Atene
630 ca. Fondazione terea di Cirene
624-620 cronologia tradizionale per la legislazione di Draconte
610/600-580/570 ca. tirannide di Clistene a Sicione
600 ca. Coleo di Samo a Tartesso; fondazione focea di Marsiglia
Primo decennio del 6. sec. Prima guerra sacra
594/593 (o 592/591) arcontato di Solone ad Atene
582 riorganizzazione degli agoni pitici
582-580 arcontato di Damasia ad Atene
580 ca. Fondazione di Agrigento; spedizione coloniale di Pentarlo in Sicilia: Cnidii a Lipari
575 ca. conquista di Siri da parte delle colonie achee
561/560-556/555 primo periodo della tirannide di Pisistrato ad Atene
559-529 (o 530) Ciro 2. il grande, re di Persia
556/555 eforato di Chilone a Sparta
560-540 ca. vittoria dei locresi sui crotoniati nella battaglia della Sagra
549 (o 544) (?) inizio del secondo periodo della tirannide di Pisistrato
548 il santuario di Delfi è devastato da un incendio
546 conquista persiana della Lidia
539 conquista persiana di Babilonia
537 (o prima, tra 546 e 540)-522 ca. tirannide di Policrate di Samo
534/533-528/527 (?) terzo periodo della tirannide di Pisistrato
530 ca. arrivo di Pitagora in Italia
529 (o 530)-522 regno di Cambise in Persia
528/527-511/510 tirannide dei Pisistratidi
522-486 regno di Dario in Persia
514/513 complotto dei tirannicidi Armodio e Aristogitone ad Atene
513 ca. spedizione scitica di Dario
510 cacciata di Ippia da Atene: conquista e distruzione di Sibari ad opera di Crotone; Dorieo in Sicilia
508/507 riforme democratiche di Clistene ad Atene
506 vittoria di Atene su beoti e calcidesi
399-494 rivolta ionica
498 gli ioni conquistano Sardi; Caria, Licia e Cipro si uniscono ai rivoltosi; Atene ed Eretria si ritirano
498-491 Ippocrate tiranno di Gela
497 fallimento della rivolta di Cipro
494 battaglia di Lade: conquista persiana di Mileto
494 (?) sconfitta degli argivi a Sepeia ad opera degli spartani
494-476 tirannide di Anassila a Reggio
492 spedizione di Mardonio in Tracia
491-485/484 tirannide di Gelone a Gela
490 spedizione di Dati e Artaferne contro Atene ed Eretria; battaglia di Maratona
489 spedizione di Milziade nelle Cicladi (Paro)
488/487 nuovo conflitto tra Atene ed Egina
488/487 (o 487/486) prima applicazione dell’ostracismo ad Atene
488-472 tirannide di Terone ad Agrigento
487/486 (o 486/485) ridorma del sistema di elezione degli arconti ad Atene
486-465 regno di Serse in Persia
485/484-478 tirannide di Gelone a Siracusa
483/482 (o 482/481) costruzione della prima notevole flotta militare ateniese su proposta di Temistocle; ostracismo di Aristide
480 spedizione di Serse e Mardonio contro la Grecia
(giugno) l’esercito persiano varca l’Ellesponto
(fine luglio) battaglia presso le Termopile e l’Ertemisio
(settembre) battaglia di Salamina tra greci e persiani
battaglia di Imera (in Sicilia) tra greci e cartaginesi
479 (agosto) battaglie di Platea e di Micale; ribellione degli ioni ai persiani e persecuzione del conflitto nell’area degli Stretti
478 (primavera) conquista greca di Sesto (episodio conclusivo delle Storie di Erodoto)
478-467/466 tirannide di Ierone a Siracusa
478/477 fondazione della Lega navale delio-attica
476 eliminazione della presenza persiana a Eione sullo Strimone
475 ca. Cimone conquista Sciro
474 vittoria di Ierone, presso Cuma, sulla flotta etrusca
473 dura sconfitta di Taranto e Reggio a opera degli iapigi
472 Persiani di Eschilo (Pericle p corego)
471 (?) ostracismo di Temistocle; Atene riduce in schiavitù l’alleata Nasso
471/469 fine del reggente spartano Pausania
471/469 (?) battaglia di Eurimedonte
465 cacciata di Trasibulo da Siracusa e fine della tirannide dei Dinomenidi
465-463 ribellione di Taso, domata da Cimone
464-455 (o 454) terza guerra messenica (detta anche “del terremoto).
463(?) Supplici di Eschilo
461 ostracismo di Cimone. Riforme costituzionali (e uccisione) di Efialte
460/459 spedizione ateniese a Cipro e in Egitto
459 conflitti con Corinto e con Egina (che capitolerà nel 456)
458/457 (o 454/453) alleanza tra Atene e Segesta
457 battaglie di Tanagra e di Enofita
455 spedizione navale dell’ateniese Tolmide
454 fine della megale strateia ateniese in Egitto; trasferimento da Delo ad Atene del tesoro della Lega navale ateniese
453 Ducezio crea una confederazione di tutte le città sicule, eccetto Ebla
451/450 (?) tregua di cinque anni tra Sparta e Atene; pace trentennale tra Argo e Sparta
450 epilogo della rivolta di Ducezio, che è esiliato a Corinto
450/449 spedizione ateniese contro Cipro (morte di Cimone)
449 (?) pace di Callia
447 sconfitta ateniese a Coronea
446/445 pace trentennale tra Sparta e Atene
444/443 fondazione della colonia panellenica di Turi
443 ostracismo di Tucidide di Melesia
441/439 ribellioni di Samo, represse
435 vittoria di Corcira su Corinto presso il promontorio di Leicimma
433 epimachia tra Atene e Corcira e scontro presso le isole Sibota; ingiunzioni di Atene a Potidea
433-432 ca. (tentativi di) messa sotto accusa di persone dell’entourage pericleo (Fidia, Anassagora, Aspasia) e di Pericle stesso
432 ribellione di Potidea e intervento ateniese; sinecismo di Olinto
432/431 decreto ateniese contro Megara
431-404 guerra del Peloponneso
431-421 fase della guerra archidamica
431 (inizio della primavera) fallimento della sortita tebana contro Platea
(maggio-giugno) l’esercito peloponnesiaco guidato da Archidamo invade l’Attica per un mese; cacciata degli Egineti, sostituiti da cleruchi ateniesi
430 nuova invasione dell’Attica; inizio dell’epidemia di peste ad Atene; destituzione di Pericle
430/429 (inverno) capitolazione di Potidea
429 rielezione (e morte) di Pericle
428 terza invasione dell’Attica; rivolta di Mitilene
427 (primavera) capitolazione di Mitilene
(estate) capitolazione di Platea; prima spedizione ateniese in Sicilia guidata da Lachete e Careade
427-425 aspre lotte civili a Corcira
425 Cleone ridefinisce l’ammontare del tributo degli alleati della Lega navale
424 Atene rinnova con Dario 2. il trattato di Callia (trattato di Epilico); Atene occupa Citera e Nisea; spedizione di Brasida in Tracia; conquista di Anfipoli; disfatta degli ateniesi presso il Delio; congresso di Gela e rientro della flotta ateniese dalla Sicilia
422 morte di Cleone e Brasida sotto Anfipoli
421 accordo di tregua (pace ‘di Nicia’) e symmachia di 50 anni tra Atene e Sparta
420 Alcibiade è eletto stratego; alleanza difensiva di Atene con Argo, Mantinea e Elide
418 (agosto) battaglia di Mantinea: Sparta ristabilisce la sua egemonia sul Peloponneso
417 ostracismo di Iperbolo
Estate 416-inverno 416-415 spedizione contro Melo
415-413grande spedizione ateniese in Sicilia
415 (estate) partenza della flotta ateniese guidata da Nicia, Lamaco e Alcibiade
414 assedio di Siracusa; arrivo in Sicilia dello spartano Gilippo
414/413-399 Archelao re di Macedonia, successore di Perdicca 2.
413 (primavera) occupazione di Decelea: inizio della guerra deceleica
(fine luglio-settembre) disfatta ateniese in Sicilia
412 rivolta degli alleati di Atene; trattato tra Sparta e Persia
411 (maggio-giugno) colpo di Stato oligarchico ad Atene: governo dei Quattrocento
(agosto) costituzione dei Cinquemila (Teramene)
Scontri nell’area dell’Ellesponto: vittorie ateniesi a Cinossema (ultimo evento narrato nelle Storie di Tucidide) e Abido
410 (primavera) vittoria navale ateniese a Cizico
409 distruzione di Selinunte e Imera ad opera di Cartagine
408 (estate) trionfale rientro di Alcibiade ad Atene
407 (primavera) vittoria navale di Lisandro presso Notion; Alcibiade si ritira nell’Ellesponto
406 conquista cartaginese di Agrigento; Dioniso 1. è strategos autokrator
(tarda estate) battaglia navale e processo agli strateghi
405 sconfitta degli ateniesi a Egospotami: conquista di Gela e Camarina da parte cartaginese
(fine) prima pace tra Dioniso e i cartaginesi
404 (primavera) resa di Atene
(giugno-novembre/dicembre?) regime dei Trenta Tiranni ad Atene
(novembre-dicembre?) scontri di File e del Pireo tra gli esuli ateniesi guidati da Trasibulo e le truppe dei Trenta: secessione dall’impero persiano (fino al 343)
403 (settembre) restaurazione della democrazia, e amnistia, ad Atene; gli oligarchi si ritirano ad Eleusi
401/400 fine dello Stato oligarchico ad Eleusi; spedizione dei Diecimila
400-394 campagne di Sparta contro la Persia in Asia minore: Tibrone (400), Dercillida (399-397 ca.) e Agesilao (396-394)
tra il 400 e il 398 Agesilao diviene re di Sparta
399 morte di Socrate
(ca.) congiura di Cinadone a Sparta
397 Dionisio 1. conquista Mozia
396 Sbarco di Imilcone a Palermo; assedio di Siracusa; ritirata di Imilcone
395 Timocrate, dispensatore di oro persiano in Grecia; scaramucce tra focesi e locresi aprono la guerra corinzia
(autunno) morte di Lisandro ad Aliarto
394 (estate) vittorie spartane a Nemea e (Agesilao) Coronea; vittoria della flotta persiana guidata da Conone a Cnido
393-370/369 Aminta 3. re di Macedonia
393 rientro di Conone ad Atene
(?) fondazione della lega italiota
392 trattative di pace con la Persia a Sardi
(marzo) annessione di Corinto ad Argo (fino al 386)
392 pace fra Dionisio 1. e Cartagine
392/391 (inverno( (?) trattative tra greci e Sparta
390 Ificrate annienta presso Corinto una mora spartana
388 vittoria di Dionisio 1. sugli italioti presso il fiume Elleporo
386 (primavera) pace di Ant(i)alcida: capitolazione di Reggio assediata da Dionisio 1.
385 Dioikismos di Mantinea
384 Dionisio 1. saccheggia il santuario di Leucotea a Pyrgi
382 occupazione della rocca Cadmea (Tebe) da parte dello spartano Ferbida
380 Panegirico di Isocrate
379-374 ca. terza guerra cartaginese in Sicilia
379 capitolazione di Olinto e scioglimento della Lega calcidica
379/378 (inverno) liberazione di Tebe
377 (febbraio-marzo) fondazione della seconda Lega navale attica.
376 l’ateniese Cabria sconfigge la flotta peloponnesiaca presso Nasso
375/374 (autunno) pace tra Sparta e Atene
374/373 (o 373/372) Tebe distrugge Platea
371 (estate9 congresso di pace a Sparta; battaglia di Leuttra; conferenza di Stati greci ad Atene
370 morte di Giasone di Fere
(autunno) costituzione della Lega arcadica; prima discesa di Epaminonda nel Peloponneso
369 alleanza tra Sparta ed Atene: seconda discesa di Epaminonda
367 la “battaglia senza lacrime” tra arcadi e spartani; terza discesa di Epaminonda; ambascerie greche a Susa (accordo tra Tebe e il Gran Re); quarta guerra cartaginese in Sicilia; morte di Dionisio 1. (inverno 367/366)
367/366 secondo viaggio di Platone in Sicilia
365 conquista ateniese di Samo (Timoteo)
364 conquiste id Timoteo sulla costa macedone e in Calcidica
362 (estate) quarta discesa di Epaminonda nel Peloponneso; battaglia di Mantinea e morte di Epaminonda
361 terzo viaggio di Platone in Sicilia
359 Perdicca 3. di Macedonia muore durante una spedizione contro gli illiri; gli succede, dapprima solo come reggente, il fratello Filippo 2.
358 campagna di Filippo 2. contro gli illiri
357-355 guerra sociale della seconda Lega navale attica
357 Filippo 2. conquista Anfipoli; cacciata di Dionisio 2. da Siracusa e sua fuga a Locri
356 Filippo 2. conquista Pidna e Potidea
356-346 terza guerra sacra
354 Filippo 2. conquista Metone; battaglia di Neon
353 Onomarco sconfigge Filippo e i tessali
352 vittoria di Filippo sui focesi nella battaglia dei Campi di Croco
351 campagna di Filippo in Tracia
349-348 guerra di Olinto
347 morte di Platone
347/346 rientro di Dionisio 2. a Siracusa
346 pace di Filocrate e conclusione della terza guerra sacra; il Filippo di Isocrate
344 Filippo riorganizza la Tessaglia in quattro parti; Timoleonte inviato da Corinto in Sicilia
341 campagne di Filippo contro Perinto e Bisanzio
(?) vittoria di Timoleonte sui cartaginesi presso il fiume Crimiso
340 (autunno) Atene dichiara guerra a Filippo
339/338 guerra anfizionica contro i locresi di Anfissa (quarta guerra sacra)
338 il re spartano Archidamo 3. muore in Italia presso Manduria
(2 agosto o 1 settembre) battaglia di Cheronea
(autunno) campagna di Filippo nel Peloponneso
338/337 congresso dei ‘greci a sud delle termopile’ (koinè eiréne e autonomia di tutti gli Stati greci, creazione di un consiglio comune con sede a Corinto); Filippo è eletto dalla symmachia greca, riunita a Corinto, generale con pieni poteri per la guerra contro la Persia
338-326 Licurgo ‘ministro delle finanze’ ad Atene
337 Timoleonte depone la carica di strategos autokrator; poco dopo muore
336 (primavera) testa di ponte guidata da Parmenione e Attalo in Asia minore
(estate) assassinio di Filippo a Ege; Alessandro rinnova a Corinto l’alleanza stipulata tra i greci e Filippo
335 (primavera) campagna di Alessandro in area tracica, danubiana, peonica e illirica; moti antimacedoni in Grecia
(autunno) distruzione di Tebe
334 (primavera) diabasis di Alessandro in Asia minore
(maggio/giugno) vittoria di Alessandro presso il fiume Granico
334-331/330 Alessandro il Molosso in Italia
333 (autunno) vittoria di Alessandro Magno a Isso
332 (agosto) Alessandro in Fenicia: assedio e conquista di Tiro
332/331 (inverno) campagna di Alessandro in Egitto
331 (1 ottobre) battaglia di Gaugamela
(autunno) Agide 3., re di Sparta, è sconfitto da Antipatro presso Megalopoli
ca. morte di Alessandro il Molosso a Pandosia
331/330 (inverno) Alessandro Magno sverna in Perside
330 (luglio) Dario 2. assassinato da Besso, satrapo di Battriana; Alessandro fa uccidere Filota e Parmenione
 330/329 Alessandro sverna ai piedi del Paropamiso
329 cattura e uccisione di Besso
328-primavera 327 Alessandro fronteggia la rivolta degli abitanti della valle dell’Oxos
estate 327-estate 325 campagna di Alessandro in India
324 fuga di Arpalo ad Atene; Alessandro a Susa: nozze in massa macedonico-persiane; ammutinamento dei veterani a Opi; decreto di Nicamore (relativo al rientro in patria degli esuli politici greci)
323 (13 giugno) morte di Alessandro
323-322 guerra lamiaca
322 (estate) ateniesi sconfitti ad Amorgo e Crannone; morte di Iperide e Demostene; morte di Aristotele (384-322).
321 (?) morte di Perdicca e di Cratero; convegno di Triparadiso (Antipatro ‘epimeletés dei re’, Antigono ‘stratego dell’Asia’)
321-316 secondo periodo delle lotte dei Diadochi
319 (estate) morte di Antipatro: Poliperconte ‘reggente del regno’ e ‘stratego d’Europa’
318 decreto di Poliperconte sulla libertà dei greci; parentesi democratica ad Atene (morte di Focione).
317 governo di Demetrio Falereo (fino al 307) ad Atene; uccisione di Filippo 3. e di Euridice
316 morte di Olimpiade; morte di Eumene; Agatocle è strategos autokrator a Siracusa
315 a Tiro Antigono è proclamato ‘reggente del regno’; contro proclama di Tolomeo
315-311 terza guerra dei Diadochi
313 Agatocle sottomette Messina
312 (primavera) Demetrio, figlio di Antigono, è sconfitto a Gaza
311 accordo di pace tra Antigono, Cassandro e Lisimaco
310/309 Alessandro 4. e Rossane fatti assassinare da Cassandro
310 sbarco di Agatocle in Africa
309 alleanza tra Agatocle e Ofella
309/308 Seleuco assume il titolo di ‘re di Babilonia’
307 Demetrio Poliorcete ad Atene; fine del governo del Falereo
307-304 guerra dei ‘quattro anni’ tra Cassandro e Demetrio
306 (primavera) offensiva di Demetrio Poliorcete contro Cipro e sua vittoria a Salamina; Antigono e Demetrio assumono il titolo di basileis; pace tra Cartagine e Agatocle
305/304 anche Tolomeo, Cassandro, Lisimaco e Seleuco assumono il titolo di basileis; Demetrio Poliorcete assedia senza frutto Rodi
303/302 (?) ca. Trattato di Capo Lacinio tra Roma e Taranto
302 (primavera) alle feste Istmie Demetrio ricostituisce la Lega ellenica
301 (estate) battaglia di Ipso (morte di Antigono)
298 ca. Agatocle s’impadronisce di Corcira
298/297 morte di Cassandro
295 Lanassa, figlia di Agatocle, sposa Pirro, re d’Epiro
294 Demetrio arriva a controllare quasi l’intera Grecia (in particolare Atene e, a seguito di un accordo con Lisimaco, Macedonia e Tessaglia).
291 domata una seconda ribellione in Beozia (la prima nel 292): Demetrio a Tebe insedia Ieronimo di Cardia, ad Atene richiama gli esuli oligarchi ed esilia Democrate
289 (autunno) pace tra Demetrio e Pirro; morte di Agatocle a Siracusa; i mamertini si impadroniscono proditoriamente di Messina
288 Pirro e Lisimaco si dividono la Macedonia
(estate) (o 287) Atene si ribella a Demetrio sotto la guida di Olimpiodoro
287 (estate?) fallito tentativo del Poliorcete di rientrare ad Atene; ultima impresa di Demetrio in Asia minore
286/285 (inverno) resa di Demetrio a Seleuco 1.
285 Tolomeo 1. associa al trono il figlio Tolomeo (poi Filadelfo)
284 Lisimaco entra in possesso dell’intera Macedonia e rafforza la sua posizione in Grecia
283 morte di Demetrio Poliorcete e di Tolomeo 1.
282 Roma, su richiesta di Turii, interviene contro i lucani; reazione di Taranto
281 (estate) battaglia di Curupedio: morte di Lisimaco
280 morte di Seleuco 1. per mano di Tolomeo Cerauno; Tolomeo sconfigge Antigono Gonata (rivolte in Grecia contro Antigono; Atene recupera il Pireo); diabasis dell’Adriatico da parte di Pirro; vittoria sui romani a Eraclea
279 invasione dei celti; Tolomeo Cerauno muore combattendoli; vittoria di Pirro ad Ascoli Satriano
278 i celti in Grecia centrale; istituzione dei Soteria e inizio della supremazia degli etoli a Delfi
autunno 278-primavera 275 Pirro in Sicilia
277 Antigono Gonata sconfigger le retroguardie dei celti a Lisimachia
277 (o 276) Antigono Gonata sul trono di Macedonia
275 i romani sconfiggono a Maleuentum Pirro, il quale rientra in Grecia; Ierone 2. stratego con pieni poteri a Siracusa
275/274 ca. battaglia degli elefanti; Antioco 1. sconfigge nella Frigia interna (Galazia)
274-270 prima guerra siriaca (Tolomeo 1. contro Antioco 1.)
272 morte di Pirro
269 (? O 265/4) successo di Ierone 2. sui mamertini al fiume Longano; Ierone assume il titolo di basileus (muore nel 215)
267-262 (?) guerra cremonidea (Tolomeo 2., Atene e Areo, re di Sparta, contro Antigono Gonata)
264-241 prima guerra romano-punica
260-253 seconda guerra siriaca (Tolomeo 2. contro Antioco 2. e Antigono Gonata)
255 (?) ca. vittoria navale macedone sui Tolomei presso Cos
255 pace separata tra Egitto e Macedonia
253 pace tra Egitto e Siria (Antioco 2. sposa Berenice, figlia di Tolomeo 2.)
253 (o 252) ribellione di Alessandro, figlio di Cratero, ad Antigono Gonata, in nome del quale governava la Grecia
251 Arato libera Sicione
Prima del 246 (?) si avvia il distacco della Partia e della Battriana del regno seleucidico
246-241 terza guerra siriaca o ‘guerra di Laodice’ (Tolomeo 3. contro Seleuco 2.)
245 (?) vittoria navale macedone sui Tolomei presso Andro
243 Arato libera l’Acrocorinto
243-241 Agide 4., re di Sparta, avvia un processo di riforma
240-237 ‘guerra dei fratelli’ tra Seleuco 2. e Antioco Ierace
239 morte di Antigono Gonata
239-229 Demetrio 2. re di Macedonia
229 restaurazione democratica ad Atene promossa da Arato e sostenuta dai Tolomei
229-228 prima guerra romano illirica
227 la Sicilia è provincia romana; riforme di Cleomene 3. a Sparta
223 sale al trono Antioco 3. il Grande (fino al 187)
222 (o 223) battaglia di Sellasia
222-221 Antigono Dosone muore combattendo contro gli illiri; gli succede Filippo 5. (fino al 179)
222/220 Antioco 3. reprime la rivolta di Molone e di Alessandro nelle “satrapie superiori”
220-217 guerra ‘sociale’ (tra Lega etolica e Lega achea)
220-213 Antioco 3. Reprime la rivolta di Acheo in Asia minore
219 seconda guerra romano-illirica; morte di Cleomene 3. ad Alessandria
219-217 quarta guerra siriaca (Antioco 3. Contro Tolomeo 4.)
218-201 seconda guerra romano-punica
217 vittoria dei Tolomei sui Seleucidici presso Rafia
215 Filippo 5. si allea ad Annibale in guerra con Roma
215-205 prima guerra romano-macedonica
212-205/204 anabasi di Antioco 3.
207-192 Nabide governa Sparta
206 pace separata tra Filippo e gli Etoli
205 pace di Fenice tra Filippo 5. e i romani e i rispettivi alleati
203/202 patto segreto tra Antioco 3. e Filippo 5.
202 Filippo 5. Nell’Egeo settentrionale; conquista di Lisimachia
202-200 quinta guerra siriaca (Antioco 3. contro Tolomeo 5.)
201 vittoria navale di una coalizione guidata da Attalo 1. di Pergamo contro Filippo 5. presso Chio
200 vittoria dei seleucidi sui Tolomei a Paneion
200-196 seconda guerra romano-macedonica
197 (giugno) battaglia di Cinoscefale
196 (aprile) alle feste Istmie T. Quinzio Flaminino proclama l’autonomia dei greci fino ad allora soggetti alla Macedonia; Antioco 2. Ricostruisce Lisimachia
192-188 guerra romano-siriaca
192/191 spedizione in Grecia di Antioco 3. (sconfitto alle Termopile nei primi mesi del 191)
190/189 (inverno) vittoria romana su Antioco 3. A Magnesia del Sipilo
189 M. Fulvio Nobiliore conquista Ambracia (pace tra Roma e gli etoli nell’inverno 189/188
188 pace di Apamea
179 Perseo re di Macedonia (fino al 168): suo matrimonio con Laodice, figlia di Seleuco 4.
171-168 terza guerra romano-macedonica
170-168  sesta guerra siriaca (Antioco 4. contro Tolomeo 6.)
168 battaglia di Pidna; la Macedonia è divisa in quattro repubbliche; ultimatum di Q. Popil(l)io Lenate ad Antioco 4.
167-151 ca. un migliaio di uomini politici achei (tra i quali Polibio) ostaggi a Roma
167 (fine) Antioco 4. Proibisce il culto di Jahvè e introduce nel tempio di Gerusalemme quello di Zeus Olimpio
166-164 rivolta giudaica guidata da Giuda Maccabeo
166 creazione di un porto franco a Delo
165 (o 162?) morte di Perseo, prigioniero ad Alba Fucens
164-163 Antioco 4. muore a Gabe; Tolomeo 6. cacciato dall’Egitto
163 spartizione del regno tolemaico: tra Tolomeo 6., Cleopatra 2. e Tolomeo 8.
155 Tolomeo 8. rende pubblico un testamento a favore di Roma (redatto nel 162)
149-148 rivolta di Andrisco: quarta guerra guerra romano-macedonica
149-146 terza guerra romano-punica
147 ca. la Macedonia ridotta a provincia romana (nel 146, anche il resto della Grecia, eccetto le città liberae e immunes)
147/146 guerra acaica: distruzione di Corinto (di poco successiva a quella di Cartagine) nel 146
145 Tolomeo 6. muore combattendo contro Alessandro Balas
146-116 Tolomeo 8. Evergete 2. re d’Egitto (deve abbandonare Alessandria dal 131 al 127)
141 Mitridate 1., re dei Parti, annette la Media, conquista Seleucia del Tigri e avanza fino in Mesopotamia
134 Antioco 7. Sidete riconquista Gerusalemme
133 Attalo 3., re di Pergamo (dal 138), lascia in eredità ai romani; rivolta di Aristonico (sedata nel 129)
130 ca. Eutidemo di Battriana soggiace all’attacco degli sciti
129 Antioco 7. muore in Media combattendo contro i parti; creazione della provincia d’Asia
121-63 Mitridate 6. Eupatore re del Ponto
96 Tolomeo Apione lascia la Cirenaica in eredità ai romani (che però la annettono solo nel 74)
89-85 prima guerra mitridatica
88 eccidio di italici a Efeso e in altre città dell’Asia minore
86 Silla sconfigge a Cheronea e Orcomeno Archelao, generale di Mitridate: saccheggio di Atene, Olimpia e Delfi, esazioni forzose a Epidauro
85 pace di Dardano tra Silla e Mitridate
83 Tigrane 1. Di Armenia governa sulla Siria (fino al 69)
80 Tolomeo 12. Aulete re d’Egitto (fino al 51)
67 Pompeo riorganizza la provincia di Cilicia (costituita già nel 100 ca.)
63 creazione della provincia di Siria ad opera di Pompeo
58 annessione di Cipro alla provincia di Cilicia
48 battaglia di Farsalo: Pompeo si rifugia in Egitto, dove è ucciso da Tolomeo 13.
48/47 guerra ‘alessandrina’ di Cesare
44 Corinto risorge come colonia romana (Laus Iulia Corinthiensis)
34 Antonio ad Alessandria: spartizione dei territori tra i membri della famiglia reale
31 (1. settembre?) battaglia di Azio
30 morte di Antonio e Cleopatra
27 creazione della provincia di Acaia
67 d. C. Nerone abolisce la provincia di Acaia (da qui le date sono d. C.)
74 Vespasiano bandisce i filosofi da Roma e dall’Italia
117-138 Adriano (suoi soggiorni ad Atene negli anni 124/125, 128/129 e 131/132)
138-161 Antonino Pio
143 elogio A Roma di Elio Aristide
161-180 Marco Aurelio
166 ca. grande epidemia di peste
170 ca. invasione dei Costoboci in Grecia
212 editto di Caracalla (constitutio Antoniniana)
235-238 Massimino Trace
253 incursioni barbariche (goti, burgundi e altri) sulle coste dell’Asia minore
256-262 invasioni barbariche per via di terra in Asia minore
260-268 filellenismo di Gallieno
267 invasione degli eruli in Grecia
313 editto di Costantino
323 attestazione di efebi a Ossirinco
391 distruzione del Serapeo di Alessandria
393 ultime olimpiadi
519 chiusura delle scuole filosofiche di Atene, per volontà di Giustiniano